(segue) La politica economica del Regime
(18 dicembre 1930)
[Inizio scritto]

      La crisi, da allora, non è ancora sanata, giornate nere si sono susseguite, ed alla prosperità sono seguite le file di coloro che aspettano la minestra ed il pane nelle grandi città degli Stati Uniti di America.
      È con profonda tristezza che io faccio questa constatazione, o Signori, e voi ne intendete facilmente il perché, senza che io vi insista. Il fatto si è che, da quel giorno, noi fummo risospinti in alto mare; da allora anche per noi la navigazione è estremamente difficile.
      E il bilancio dello Stato diede, fin dall'esercizio scorso, i primi segni di stanchezza. Abbiamo chiuso con un avanzo di 65 milioni che, forse, alla revisione definitiva dei fondi, saliranno a cento, ma è un avanzo modesto. Già siamo arrivati alla meta quasi senza respiro. Naturalmente, il nuovo esercizio ha presentato immediatamente ulteriori segni di stanchezza. Nel mezzo luglio abbiamo 124 milioni di disavanzo che salgono a 221 nell'agosto, discendono in settembre a 216, in novembre a 154. C'è quindi, un miglioramento nel peggioramento.
      Siamo, tuttavia, nel momento in cui vi parlo, ad un deficit che si può calcolare, grosso modo, a 900 milioni. Un deficit di 900 milioni che non è, bisogna dirlo subito, grave come una battaglia perduta, come la cessione di un territorio della Madre Patria, come una catastrofe nazionale; è una cosa estremamente seria, tuttavia, che impone al Governo di convergere su essa tutta la sua attenzione e impone ai cittadini, ivi compresi senatori e deputati, di non avanzare continuamente richieste di nuove spese, per le quali bisogna trovare delle entrate, le quali entrate significano imposte e tasse. Poiché l'incentivo alla spesa non viene dal centro; viene dalla periferia. Anche questa è una verità che andava detta una volta per tutte.
      Sui termini della situazione mi sono già espresso il 21 aprile ed il 1° ottobre.

(segue...)