A poco a poco la diarchia prese un carattere sempre più definito, anche se non sempre fissato in leggi speciali. Al culmine c'era il re e il Duce, e quando le truppe schierate salutavano alla voce lo facevano per l'uno e per l'altro. Vi fu un momento in cui, dopo la conquista dell'Impero, il generale Baistrocchi, cedendo alla sua vulcanica esuberanza, faceva ripetere tre volte il saluto, sino a quando Mussolini lo invitò a non introdurre le "litanie" nei reggimenti. Accanto all'Esercito che obbediva prevalentemente al re, c'era la Milizia che obbediva prevalentemente al Duce. Il re aveva una guardia del corpo, composta di carabinieri con una speciale statura, e un giorno Gino Calza-Bini, creò, coi "Moschettieri", la guardia personale del Duce.
Il Consiglio dei ministri discendeva dallo Statuto, ma il Gran Consiglio lo precedeva in importanza perché proveniva dalla rivoluzione. L'inno "Giovinezza", marziale e impetuoso, si appaiava nelle cerimonie alla marcia reale di Gabetti, chiassosa e prolissa, che poteva essere suonata, come il "moto perpetuo", a consumazione degli esecutori e degli ascoltatori. Per evitare la noia di una eccessivamente lunga ascoltazione, venivano suonate dell'uno e dell'altro inno soltanto le prime battute.
Anche il saluto militare non sfuggì al sistema della diarchia: il vecchio saluto fu conservato col copricapo; il saluto romano o fascista, senza berretto (come se nel frattempo le teste fossero cambiate!).
Delle tre Forze armate la più realista era l'Esercito, seguiva la Marina, specie nello Stato maggiore, solo l'Aviazione ostentava i segni del Littorio, sotto i quali era nata o almeno rinata.
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