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Voglio scrivere stasera — 25 dicembre 1931 - X — uno dei più tristi Natali — forse il più triste — della mia vita, le prime pagine del libro che dedico alla memoria di Arnaldo. Oggi, a Palazzo Venezia, per sei ore, ho cominciato lo spoglio delle carte lasciate da lui; operazione necessaria, delicata, che ho compiuto e compirò con grande trepidazione. Ho trovato, fra l'altro, manoscritti di miei discorsi che consideravo perduti, documenti di qualche importanza politica e lettere antiche, recentissime di me o di altri ad Arnaldo. Anche le bozze di un libro, di certa signora Benedetti di Cesena sono venute tra le mie mani e in esse ho scorso una data: 25 settembre 1896: il primo dolore di Arnaldo e mio e, forse, dell'Edvige; dico forse, perché era troppo piccina: la morte di mia nonna: Marianna Ghetti. La ricordo con una precisione nettissima: era una donna alta, segaligna, continuamente in moto. La sua mania era quella di andare lungo il fiume a raccogliere tutti i detriti legnosi lasciati sul greto, dopo le piene che costituivano insieme coi grandi temporali estivi, un avvenimento nelle nostre giornate: un'altra era quella di non mai voler sedere a tavola, con noi, a consumare i pasti frugalissimi che consistevano per tutta la settimana, in una minestra di verdura a mezzogiorno e in un piatto di radicchi di campo, alla sera, mangiati nello stesso piatto in comune. La domenica, un mezzo chilo di carne di pecora per il brodo, che bisognava continuamente schiumare. L'intercalare dialettale di mia nonna religiosissima, consisteva nel dire «Accidenti al peccato mortale!». Ci amava moltissimo e noi la facevamo non poco disperare. Un giorno di quel lontano settembre, mia madre e noi tre figli eravamo andati nel pomeriggio alla nostra vigna di Camerone, detta Cuclon, che ce l'aveva affittata per nove anni. Non era grande e non produceva più di un carro di uva, cioè otto quintali, ma c'erano tre fichi uno dei quali, aveva frutti particolarmente dolci. Per recarci alla nostra vigna, si partiva da Varano, si saliva per un ripido sentiero, tra le vigne di Filippone, di Giuliano; si passava dal podere Casola, vigilato da un cane che ci impauriva sempre e che ci costringeva a riempirci le tasche di sassi, un chilometro prima: finalmente alla svoltata di Camerone, si presentava al nostro sguardo la pianura di Romagna, le tre torri di Forlì e, lontano, la striscia azzurra del mare fra Cervia e Cesenatico. Quel panorama luminoso e vasto allietava il mio occhio e faceva sognare il mio spirito. |