Ricordi personali e besozzesi
di Augusto Fichtner
(Seconda parte)
Un lato della mia casa era prospiciente ad un’ala del palazzo comunale, dove un tempo sul tetto vi era una torretta e spesso di notte si sentiva il canto di una civetta! Al sabato sera in uno dei locali del comune si riunivano gli elementi della banda musicale che si esercitavano. Mi ricordo dei due fratelli Tabacchi: uno suonava la gran cassa, l’altro non ricordo, forse il tamburo, ma mi ricordo che quello che suonava la gran cassa nell’esercizio delle sue funzioni era estremamente serio e compreso nel suo ruolo.
Avendo da casa mia una visuale stupenda a 180 gradi, che spaziava dal santuario del Sacro Monte di Varese alla cima del Mottarone montagna sopra Stresa sul lago Maggiore, mi ricordo di aver assistito quando negli anni 50 Pio XII da Roma accese la croce che era stata installata su quella montagna.
Da ragazzino facevo il chierichetto, anzi doppio chierichetto, perché andavo a settimane alterne a servir messa in parrocchia e presso l’istituto Rosetum delle suore della Santa Croce, prestigioso istituto scolastico dove le figlie dell’alta borghesia del varesotto, vi si recavano a studiare (in alternativa avevano la vicina Svizzera). Facevo il chierichetto certamente non perché arso dal sacro fuoco religioso, ma solo per un basso interesse di gola, e non me ne vergogno. In occasione delle benedizioni Natalizie delle case, accompagnavo il Prevosto Mons. Pontigia, ed in questo modo tornavo a casa con le tasche ben rifornite di dolci, mentre dalle suore andava ancora meglio, perché dopo la messa mattutina, ero invitato in cucina dalla indimenticabile Suor Casimira, che mi dava un’enorme tazza di cioccolata con un ricco vassoio di biscotti. Per San Nicolas mi prestavo ignominiosamente a recitare la parte del nanetto, doverosamente addestrato da Suor Esterina, nella recita del teatro che si teneva in quell’occasione, poiché il giorno dopo, o dopo la recita, non ricordo, le Suore e le alunne offrivano una ricca merenda ai bambini delle famiglie disagiate di Besozzo, offrendo loro anche piccoli regali; naturalmente i partecipanti della recita era duopo invitarli.
Qui mi tornano alla mente due fatti che purtroppo i besozzesi, quelli rimasti, hanno dimenticato :
Spesso Mons. Pontigia uscendo da qualche casa in occasione della benedizione natalizia, “dimenticava” le offerte raccolte prima. Una persona mi raccontò anni dopo che spesso saltava la cena e non per il digiuno, ma perché non aveva da mangiare! Ogni giorno alle diciotto in punto, nel parlatorio dell’istituto Rosetum, suonava una campanella, si apriva una specie di finestra, e appariva una suora con un carrello con enormi marmitte fumanti, e distribuivano la cena ai poveri di Besozzo (siamo negli anni 50 del novecento.) Qui ogni sera non mancava uno strano individuo, con l’inseparabile gavetta, nessuno sapeva come si chiamava né da dove veniva, di età indefinita, vestito con una lacera divisa da militare, scarponi rotti, senza calze in ogni stagione, anzi, i piedi erano avvolti in fogli di giornali. Dormiva in una stalla a Besozzo inferiore e tutti lo chiamavano “il trovatello”, si recava tutto il giorno presso i negozi a chiedere l’elemosina; quando morì negli anni sessanta, si scopri che possedeva una ragguardevole somma.
Mi ricordo che le stagioni erano scandite da fatti ben precisi. L’autunno, con l’andar per boschi a raccogliere le castagne e a “rubar l’ùga”, rubar uva! L’inverno, prima con l’apparire a fine ottobre, davanti alla porta del municipio, delle cale: una sorta di triangolo fatto di spesse tavole, che un tempo trainate dai buoi, poi da trattori, quando cadeva abbondantemente a quel tempo la neve, spazzavano le strade; poi l’andar ancora nei boschi a raccogliere il muschio per il presepio di cui ero un fanatico cultore. La primavera, o meglio l’imminente Pasqua, la vedevo attraverso le finestre della mia aula delle elementari sotto forma dei fiori dei ciliegi e dei peschi fioriti nel dirimpettaio “cioos”, chiuso, cioè una sorta d’insieme di prato, frutteto e parco privato. Ve n’era un altro - che dirò poi - al Pulee, vicino a casa mia. Non mi dimentico “la Cattaneo”, la maestra tanto per intenderci, zitella, forse per questo cattivella, con il suo righello che spesso e volentieri finiva sulle mani e sulla schiena mia e di quella di alcuni altri miei compagni; non su tutti, non sul figlio di un industriale, o dei nipoti di un’altra maestra; ed era meglio non andare a casa a raccontarlo alle nostre madri perché quasi sempre rimediavamo qualche sculacciata, perché in fondo, a volte, ce le meritavamo, ma eravamo ragazzi vivaci, non maleducati. Una volta sola che mi ricordi, mia madre intervenne e credo che la maestra quella volta forse s’è l’è fatta sotto, perché mia madre da buona bergamasca sapeva come farsi rispettare. Il fatto: una mattina, in occasione delle imminenti feste Natalizie il solito Prevosto mi disse alla fine della messa, che dovevo andare con lui a benedire le case e che mi avrebbe scusato con la scuola, cosa che fece ma con la direttrice e non con la mia maestra. Il giorno dopo, la maestra come un avvoltoio iniziò a girarmi attorno ed alla fine mi diete una sberla che mi fece prendere una botta al naso sul piano del banco (quei grossi banchi con le panche dove c’era il posto per due e con un buco per il calamaio) facendomi uscire del sangue dal naso, perché a suo dire ero stato assente ingiustificato! Naturalmente non potevo tenere la faccenda nascosta a mia madre perché avevo il fazzoletto sporco di sangue.
Il CAI di Besozzo aveva un rifugio e un edificio adibito a colonia per i bambini di Besozzo in cima ad una montagna sovrastante il lago Maggiore, chiamata Cuvignone; non so chi pagasse il mantenimento, ma mi sembra che un grosso contributo lo desse la Cartiera di Besozzo chiamata Donzelli. I litigi e/o il rincorrere le grazie e benevolenze della direttrice, per aver “l’Onore” di alzare la bandiera al mattino. Il dormitorio era diviso in due: a sinistra i maschietti, a destra le femminucce; i letti erano a castello a tre piani e lo scrivente, anche a rischio di prendere delle zuccate, perché lo spazio fra il letto e il soffitto era minimo, il che succedeva spesso, il primo giorno si precipitava ad occupare il più alto perché non era infrequente che l’inquilino al piano superiore di notte, innaffiava quello di sotto.
Anche se le varie amministrazioni Besozzesi hanno provveduto a dedicare alcune vie ad alcuni sacerdoti che negli anni si sono occupati delle anime dei suoi abitanti, credo che si sia perso, purtroppo, quanta riconoscenza si deve in particolare a due, e precisamente a Don Malvestiti grazie al quale Besozzo fu risparmiata da una rappresaglia tedesca nel 1945 e a Mons. Pontigia, per aver esercitato il suo ministero in anni difficilissimi del dopo guerra. Quando Mons. Pontigia, sostituì Don Malvestiti dopo la sua morte avvenuta nel lontano 1946, proveniva da un’esperienza non invidiabile, poiché era cappellano delle carceri milanesi, portando il suo conforto ai condannati a morte dei due schieramenti; prima e dopo il fatidico 25 aprile.
Aggiungo un accenno alla figura di due professionisti a cui i vecchi besozzesi devono molto, anche se dubito che ci sia ancora qualcuno che li ricordi, e sono precisamente: il Dott. Bossi medico condotto, l'unico esistente a Besozzo quando io ero un ragazzino, il quale era sempre disponibile nell'intero arco delle 24 ore; in quel tempo non c'era l'Asl, ma la mutua del paese, per chi poteva, e per gli altri la carità: il Dott. Bossi spesso non voleva nessun compenso o regalo. L'altro professionista era il Dott. Pajetta, il farmacista, anche lui unico in quel tempo e anche lui sempre disponibile per 24 ore al giorno; anche lui spesso, magari svegliato in piena notte, a chi voleva dargli qualche cosa, rispondeva di non volere nulla.
Più sopra accennavo ad un altro cioos, situato vicino a casa mia, era di proprietà della famiglia Adamoli, mi ricordo che vi si accedeva da un cancello in ferro che sembrava fatto con canne di bambù, ed era praticamente la continuità del parco del castello Adamoli, diviso da una delle due strade che collegano Besozzo Inferiore a quello superiore, un tempo inesistente; vi era una lunghissima morena (declivio) dove noi ragazzini in inverno quando c’era la neve andavamo a sciare con una cassetta della frutta a mo’ di slitta, con il risultato di avere sempre il fondo dei pantaloni bagnato, e asciugato in seguito dalle amorevoli mani delle nostre mamme.
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