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Commenti

      Quanto ai commenti, tengono naturalmente il primo luogo e si considerano come testimoni storici quelli che ci pervennero del XIV secolo: tra i quali quello che per nitore di lingua e abbondanza di chiose meritò di esser chiamato ottimo, è opera d'un anonimo; altri ve n'ha attribuiti ai due figliuoli di Dante, Pietro e Jacopo, o ad amici e famigliari suoi; di che giustamente dubita il Balbo (Vita di Dante, lib. II, 17), trovandoli scarsi e incerti nella parte storica e biografica. I commenti del Buti e di Benvenuto Imolese, lettori pubblici della Divina Commedia, hanno maggior pregio; ma di rado escono anch'essi dalle scolasticherie. E neppure abbondano le particolarità storiche nei due secoli successivi, intenti, più ch'altro, alla parte dottrinale e filologica.
      Per le collezioni del testo e le dichiarazioni storiche hanno autorità molto maggiore i moderni, che veggono l'importanza di queste parti; e tra' quali voglionsi ricordare il Volpi (1727), il Venturi (1732), il Lombardi (1791) e il Dionisi (che illustrò la celebrata edizione bodoniana del 1795). Le migliori chiose ed anche le controversie dei commentatori sono riepilogate nella ricca edizione padovana della Minerva (5 vol. in-8° gr., 1882; il commento del Lombardini vi è per disteso), tanto aspreggiata dal Foscolo nel suo Discorso sul testo della Divina Commedia (Londra 1825; Lugano 1827, e da ultimo Torino 1852). Questa dissertazione del Foscolo è, quanto a forme, un modello di critica nervosa ed eloquente; ma nella sostanza riesce ad uno sgraziato paradosso; mirando, come già fu accennato, a dimostrare che l'Alighieri colle sue cantiche si celebrava mandato da Dio per riformare la Chiesa.
      A rincalzar questo assunto, Ugo, che pur soffriva impazientemente ogni chiosa teologica, si sforzò di mostrare che Dante non volle, né poté divulgare la terza sua cantica, ove è rivelato il sacramento della sua consecrazione apostolica in Paradiso; che anzi niuna parte del poema fu pubblicata intiera, e quale ci pervenne, prima della morte di Dante; che il Convito fu cominciato dopo la morte d'Arrigo VII, e per placare allo scrittore i Guelfi e impetrare il ritorno. Le quali affermazioni ci pajono dure a provare, e ingrate a credersi; anzi le giudichiamo confutate abbastanza dal Monti, nelle poche pagine premesse all'edizione Trivulziana del Convito (che fu poi riprodotta dalla tipografia della Minerva, Padova 1827). Il Rossetti esagerò e peggiorò la tesi del Foscolo, togliendo a dimostrare che i poeti del XIII e XIV secolo, e Dante con loro, verseggiavano in un gergo furbesco, sotto specie d'amore e di spiritualità, le dottrine di una setta congiurata contro la Chiesa romana e devota alla imperiale dignità, donna e madonna vera di tutta quell'arcadia ghibellina.