Critiche al Lamartine
Il Lamartine, e in ciò ei risponde drittamente all'indole francese, che il Fauriel e il Villemain avevano temperata con lunga pazienza di studii, prova per l'epopea dantesca lo stesso turbamento che avrebbero destato in un Ateniese le mostruose mobilità di Valmiki e le architettoniche caverne d'Elefanta. Di questo solo non sappiamo risolverci, come mai un discepolo di Chateaubriand abbia potuto mettere poco meno che in canzone le estasi del Paradiso dantesco, ove, lo dice egli stesso, è descritto l'indescrivibile. Ma innanzi tutto, chi legga le opere poetiche del Lamartine e quei suoi quadri dove non è mai limpidamente delineato il doppio mondo dei sentimenti e dei sensi, che si riverberano vicendevolmente la vita, ma dove invece la natura è annegata in una sfumatura di colori sopra colori, impastati e stemperati nelle idee, e per converso l'anima è piena delle inconsapevoli armonie e della cosmica attonitaggine della natura esteriore, indovinerà tosto che questo fantastico pittore di nebbie pensose e di trepidi orizzonti non è fatto per comprendere Dante. E peggio se in Dante ei debba giudicare un rivale.
Anche il signor Lamartine, egli stesso ce lo racconta lungamente (pagg. 355-367), immaginò, covò e tentò una divina commedia, l'epopea dell'anima, il poema della terra e dei cieli, concepiti di lampo, una sera, ai piedi di Montealbano. «Sembrommi un tratto, dice il Lamartine, che il sipario del mondo materiale e del mondo morale si squarciasse davanti agli occhi della mia intelligenza; io sentii il mio spirito far quasi a dire un'esplosione improvvisa in me ed inalzarsi altissimo in un firmamento morale, come il vapore d'un gaz più leggero dell'atmosfera, di cui siasi sturato il vaso di cristallo, e che si slancia in fumo leggero nell'etere».
Questa visione poetica significata dal Lamartine con quel suo tremolio di sopracolori e quel mezz'ombrare che toglie ogni fermezza ai contorni ed ogni rilievo alle cose, a che riesce poi? Alle meraviglie paurose e deserte dell'astronomia, all'infeconda vastità di mondi esistenti pel telescopio di Rosse e morti al pensiero, all'incerta e timida supposizione degli spiriti astrali e cosmici, alle metempsicosi purificatrici ed espiatrici degl'Indiani, alla scienza infine e alla teologia: se non che, invece di essere la teologia cattolica, nutrita per tanti secoli della migliore sostanza dell'umano pensiero, è la teologia vagabonda d'Hennequin o di Jean Reynaud. — Quale giustificazione di Dante! e quale dimostrazione vittoriosa, che le grandi opere della poesia sono del tempo più ancora che del poeta! Tentare una divina epopea nel nostro secolo, è voler che l'albero dia fiori nel tardo autunno. Dante apri la vita nuova: Goethe ha chiuso la canora vendemmia.
Ormai l'anima umana ha bisogno di nuovo succhio d'opere e di pensieri, per poter credere di nuovo ai suoi presentimenti, e raccoglierli, e consacrarli. Lamartine e gli altri nobili ingegni dei nostri tempi, coi loro concepimenti sconfinati, colla sapienza delle intenzioni, coll'impotenza di stile, di fede, di volontà, ci ricordano Apulejo e Claudiano. Ma tant'è: non v'è genio di poeta che possa ai di nostri cantare
Temp'era del principio del mattino.
E molti secoli passeranno prima che un nuovo Dante splenda, come la stella del mattino, negli albori d'una nuova civiltà. La poesia per questo ci appare più divina, perché ella è fatale, come la sua eterna compagnia, la gioventù e l'amore.
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