Dante in Francia
I Francesi, erniosi e destri volgarizzatori delle idee altrui, s'accostarono tardi e ritrosi allo studio dell'Alighieri, avvenissimo anch'egli al genio gallico, nel quale certo ei vedeva la negazione dell'universalità imperiale e la perpetuazione delle sette italiane, e dove, quasi direbbesi, presentiva la sveglia e petulante sensualità che doveva dissolvere le visioni del medio evo. Nondimeno abbiamo memoria che alcune parti della Divina Commedia fossero nel XV secolo sceneggiate nei Misteri, maniera di spettacoli mezzo sacri, e primi accenni del teatro moderno. Nel secolo successivo troviamo quattro edizioni italiane della grand'opera di Dante, stampate in Lione (1547, 1551, 1552, 1571), forse a petizione dei molti esuli toscani che erano allora in Francia. Poco appresso fu tentata la prima traduzione in versi francesi, che sia a nostra notizia (La Comedie de Dante mise en rime francaise et commentée par Balthazar Grangier. Parigi 1598, 3 vol. in-12°. Vedi la Bibliografia dantesca del De Batines, accresciuta dal tedesco dantista De Witte). Ma nel secolo successivo quasi si perdette in Francia la memoria di Dante; e di lui non degnò parlare Boileau, se non se in forma di preterizione, quando nella sua Poetica insegnò non essere la fede cristiana co' suoi paurosi misteri materia atta a ricevere consolazione di poesia.
E il gesuita Rapin, che rettoricava allora in prosa, come Boileau in versi, non menziona Dante che per sentenziarlo autore pieno di astrattezze, irto di difficoltà, senza impeto e senza calore, e tanto superbo da invocare il proprio ingegno quasi come un nume. Adriano Baillet, che intorno a quei tempi medesimi andava riunendo gli altrui giudizii intorno alle belle lettere, tassa Dante d'esser tutto intertessuto d'allegorie lontanissime dal genuino carattere della poesia virgiliana; condanna che l'erudito francese aveva pigliata da un Galuzzi, gesuita romano e autore di certe Vindicationes Virgilianae (Roma 1621), che il Bettinelli deve aver certamente trovate nelle librerie della Società.
La tradizione dunque dei critici francesi e gesuiti durò insino al termine del XVIII secolo avversa a Dante; e Voltaire v'avea ficcato anch'egli il suo chiodo lodando di coraggio il Bettinelli per essersi liberato dalla matta idolatria di un mostro. Vero è che poco innanzi aveva spacciato colla stessa critica Shakspeare il selvaggio briaco. Ma sul finire del secolo il Ginguené, tuttoché, voltereste e repubblicano, aveva cominciato a comprendere la parte rappresentativa del poema (Histoire de la litterature italienne, tom. II). Infine Villemain e Fauriel giungono, per virtù d'orecchio pacato e di mente arguta, e di una cotal senile riposatezza ed esperienza d'ingegno, a gustare le bellezze di Dante e a giugnere all'intelligenza d'amore (Villemain, Cours de litterature. Moyen-age ... Fauriel, Cours sur le Dante et les origines de la langue italienne, 1833).
Ci convien confessare che il capitolo del Villemain sulla Vita Nuova e tutte le lezioni del Fauriel su Dante sono forse ciò che v'ha di meglio scritto e pensato su questo tema inesauribile. Se poi si aggiungono le note dell'Ampere (Voyage Dantesque...) e i lavori dell'Ozanam (Dante et la philosophie catholique au treizieme siecle...) e l'eloquente introduzione del Lamennais (Sur la vie, les doctrines et les oeuvres de Dante, premessa al primo volume della traduzione della Divina Commedia), noi potremo dire che oggimai la Francia si è riconciliata col suo grande avversario, il cui poema conta non meno di dodici traduzioni francesi; sul quale argomento può consultarsi con molto frutto una diligente dissertazione di Tulio Massarani (Gli studii italiani in Francia, nel Crepuscolo del 1855; veggansi per Dante i capit. 4 e 5). Ben da ultimo il Lamartine ritoccò le accuse; e gl'Italiani sene commossero troppo più che non bisognasse; né pensarono che molte cose dovevansi perdonare alla fretta e al dispetto dell'illustre poeta scaduto a condizione d'abbreviatore e di scritturale d'affitto.
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