Gli strani giudizii del Lamartine
Lamartine rappiccò il filo di Rapin, di Voltaire, di Bettinelli; e veramente ci doveva pensar due volte innanzi di entrar volontario in cotesta famiglia. Ma le scuse e le difese che andò poi cercando (Cours familier de Litterature, XVII e XX Entretien, 1857) bastano a cavarci d'ogni dubbio. Il nome onorato in Italia e diletto del Lamartine dava qualche autorità alla sua sentenza; le ragioni colle quali ei volle puntellare il suo duro giudizio lo chiarirono sì nuovo dell'argomento e si diseguale a trattarlo, che miglior confutazione non potevasi desiderare. Lamartine, dopo centanni di critica filosofica, dopo chiarita la dottrina del Vico sulla poesia reale delle età barbare, dopo rifatta anzi creata la storia del medio evo, e della filosofia scolastica, e dell'arte cristiana, dopo la grande sperienza della poesia germanica, del simbolismo biblico e rabelesiano del Fausto, del mistico realismo di Mischiewitz, ricopiò o ripensò Bettinelli e Voltaire.
Sono, meno le pagliuzze d'orpello, i medesimi concetti, e quasi le stesse parole; il poema di Dante, dic'egli, è un'opera d'occasione, ispirata da ire e da passioni, da idee meschine, personali, fuggevoli, e morto col tempo e coll'uomo in cui nacquero; è un poema toscano, fiorentino, locale, una gazzetta rimata, una maniera di logogrifo, che appena poteva aver qualche importanza pe' suoi tempi: pieno di concetti confusi, d'immaginazioni triviali, di parole oscene, di figure grottesche, di mistioni sacrileghe, di reminiscenze pagane, d'allegorie scolastiche; illuminato qua e là da lampi sublimi e da rivelazioni immortali; ma tenebroso, aspro, difficile a comprendersi, più difficile a leggersi intero, senza seguito e senza insieme, rotto, disforme, mistico e brutale come la barbarie. — Sì certo; ma aggiungasi grande, vigoroso nelle tenebre e nella luce, violento nell'odio e nell'amore, vero, schietto, profondo come la barbarie, come l'anima, come la natura.
|
|