I pregi della Commedia
Vuolsi dunque, innanzi d'entrar nei giudizii sulla poesia dantesca, mettere in sodo questo primo punto: che ogni cosa nella Divina Commedia non è narrata, o concettata, o descritta soltanto, ma si per iscoltura e musica di parole messa innanzi pretta maniata. Di che ne viene che anche dove le cose che vi s'incontrano per alcuna ragione possano spiacere (e molte certamente spiaciono), sempre appaja maravigliosa e sovrumana la forza e la vivezza della rappresentazione. Ma questo pregio, che per singolar compenso sembra essere maggiore là dove il poeta, seguendo l'umore dei tempi e la furia della fantasia, discende fino al grottesco od all'osceno, è perduto affatto per que' molti i quali non hanno senso del rilievo delle parole e della melodia espressiva della lingua, e non può essere avvertito da quegli altri moltissimi, che per impaziente trascorrevolezza d'ingegno ricercano nelle opere dell'arte piuttosto quello che ora direbbesi vastità di composizione e insieme scenico dei quadri, che non la forma, l'individuazione e l'espressione delle singole realità.
A questi ultimi, i quali, se osassero, non dubiterebbero di preferire i fantasiosi affollamenti e gli sfondi indefiniti del Martin alla serena muscolosità del Giudizio di Michelangelo, Dante deve parere povero e stretto con quel suo Inferno fatto a modo di sacco o d'imbuto fitto nel ventre del nostro picciol globo, col suo Purgatorio che somiglia ad uno di que' colli inciglionati di Val d'Arno, col suo Paradiso che sta tutto dentro lo spazio de' cieli misurati e circulati di Tolomeo. Altra cosa sono le infinità del Milton, e que' pelaghi immensurabili del caosse, che si trammezzano tra il mondo creato e l'inferno; altra cosa le innominabili e terrifiche regioni dove, al di là degli spazii e dei mondi, Goethe pone le madri misteriose della vita e della morte; altra cosa i regni vaporosi di Ade, di cui lo stesso Lucifero di Byron parla a Caino con misterioso terrore.
Da codesti artifizii, o da codeste necessità dell'arte moderna, la quale si guarda dal troppo accostarsi alle proprie creazioni, ed ajuta il sublime coll'incerta luce del dubbio, è lontanissimo l'Alighieri; il quale in tutto vuol vedere, toccare, sperimentare, raziocinare. Anzi per necessità del suo ingegno complessivo, e come osammo dire, cosmico, egli disdegna fermarsi se non là dove manca al pensiero lena e spazio d'andar più oltre, là dove il mondo viene a finire in braccio dell'onnipotenza creatrice. Giunto innanzi a quell'idea onde muovono e a cui tornano tutti i concetti, e dove l'essenza primigenia si nasconde nel profondo della sua propria luce, allora soltanto ei china lo sguardo insaziabile e frena il pensiero, esclamando con umiltà superba:
All'alta fantasia qui mancò possa,
che è, per sua bocca, la confessione non ismentita né smentibile mai degli ultimi termini dell'umano ingegno. Al di sotto di questo cielo sopraintellettivo, Dante pone l'universo creato, dove ogni cosa si rivela per forme e sostanze apparenti e permanenti; ond'è che se si volesse armeggiar colle formole filosofiche, potrebbe dii si che Dante ha costretto l'infinito in forme sensibili, e che il cristianesimo in questa grande epopea ripete, nell'ordine estetico, lo stesso miracolo che è fondamento alla teodicea evangelica, l'incarnazione.
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