Monarchia e Convito
Ma le sue opinioni ci sono spiegate pienamente dal suo trattato della Monarchia, scritto in orrido latino intorno ai tempi della calata di Arrigo VII in Italia: e questo libro, più assai che l'ispido Convito (il quale al Foscolo parve, a torto, una palinodia politica, benché non si nieghi che fu una tentazione di apostasia poetica), vorrebbesi consultare per penetrare nella mente dell'Alighieri e comprenderne le sublimi allucinazioni. Tutta l'opera singolarissima e piena di travisamenti profetici s'imperna su questo sorite: Ultimo scopo dell'umana compagnia è amorevole e pacifica convivenza: e a questo scopo conviene che provveda uno strumento conveniente; il quale è l'imperiale podestà, ordinata da Dio così come da lui è naturata la specie umana; podestà universale, perché deve abbracciare tutte le generazioni umane; suprema, perché niuno scopo è più necessario al bene del genere umano.
Ma onde venne l'imperio? da divina dispensazione, la quale si manifesta in tutto il corso della storia; avendo la Provvidenza disposto che ai più degni pervengano le lunghe e durabili signorie. E perciò il popolo latino, di cui giammai né fu, né fia più dolce natura signoreggiando, e più forte in sostenendo, e più sottile acquistando (Convito, IV, 4), fondò colle armi un imperio legittimato dalla virtù, e poscia per necessità comunicato all'imperatore. Quest'impero eroico è lontanissimo dalla tirannide; anzi è drittamente l'opposto, come quello che si ferma in un ufficio secondo natura e ragione, il quale trova le leggi per istudio e non le crea per arbitrio di volontà, ed è ordinato a proteggere e non a sforzare la libertà dei popoli, a tutelare le franchigie delle città, a spegnere le sette nimiche della carità sociale, a volgere una forza, che non teme contrasto, a benefizio della giustizia, di cui è facile e naturale la religione in chi per sua oltrapossanza non ha nulla a desiderare o a temere.
Concetti superlativi, idealismo ghibellino, che nondimeno lasciavano luogo alla dualità feconda dei due supremi poteri; poiché se nella teorica di Dante l'imperatore è il soldato della pace e il dichiaratore della giustizia, il papa rimane inviolabile maestro della fede e guardiano della Chiesa. E che non pur nelle dottrine, ma in effetto l'avvocato della monarchia volesse rispettata l'indipendenza del pontificato, e il papa raccolto coll'imperatore nella propria e natural sede di Roma, lo veggiamo in moltissimi luoghi delle sue opere (Roma metropoli della Chiesa. Infer., II; Convito, IV, 5. — Il papa capo della Chiesa. Infer., II; Purg., XX; Parad., XXX. — La Chiesa gerarchica con autorità spirituale e dogmatica. Purg., III, VI, e Convito, n. 6. — L'indipendenza dei due poteri. Purg., XVI; De monarchia, in fine), e più specialmente nella lettera scritta dopo la morte di Clemente V a confortare i cardinali che nell'elezione del nuovo papa non uscissero dal sangue italiano; lettera di cui ci rimane solo un brano, ma che dovette essere scritta dall'Alighieri tra il fine del 1314 e il principio del 1316, e quando appena egli aveva forse finito di dettare la Monarchia.
Questo sforzo continuo di sanare lo scisma profondo che lacerò il medio evo e aprì la via alla civiltà moderna ci rivela intiera l'allucinazione sublime che ingigantì il genio di Dante, e collocò il suo poema, come un monumento cifrato di arcani geroglifici e suggellato di minacciose profezie, sul bivio che divide due grandi età. Venuto al tramonto di quella lunga aurora boreale che fu il medio evo, e quando già i crepuscoli del giorno sopravvegnento si mescevano coi pallidi vampi della visione notturna, Dante riordinò, illuminò e compié il sogno magnifico ma vacillante delle generazioni che le avevano preceduto, e tanto vi trasfuse di potenza ideale, che l'immagine di un passato irrevocabile divenne una delle più efficaci rivelazioni dell'intima virtualità umana, e una delle più vaste aspirazioni d'avvenire.
Celebrando il gentile imperio delle genti affratellate a concordia cristiana, la devozione della cavalleria, le nobiltà graziose, le libere cittadinanze, la quieta drittura e fermezza dei costumi, l'ardore dell'umile santità, e sopratutto il fascino purificatore della bellezza, in un poema che è pieno di assurdi storici e di verità eterne, di torbide passioni e di profezie veraci, Dante raccolse la visione e quasi a dire l'anima moribonda de' suoi tempi, e la salvò nei cieli della poesia, trasmettendola all'eternità. Perciò quanto più le radici dell'età nostra si scoprono profondate entro le macerie dei mezzi tempi, tanto più veggiamo moltiplicarsi in tutte le lingue i commentatori, i traduttori e gli espositori dell'enciclopedia dantesca.
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