Vita di Dante Alighieri di Cesare Balbo
264 libro secondonaturalmente l'autorità della lingua. Così avvenne della lingua italiana antica| regolata in' Roma dalla urbanità| cioè dal costume di essa città ; così poi delle lingue moderne| spagnuola| francese ed inglese. All'incontro| nelle nazioni senza centro| diventa bensì principale nella lingua un dialetto (imperciocché è impossibile che tutti vi contribuiscano per parti uguali) ; ma il principato di esso| non ajutato dalla centralità delle istituzioni civili| rimane di necessità meno certo .fin da principio| e disputato poi continuamente. Tal fu il caso della Grecia antica| tale quello dell'Italia moderna; che in ciò| come in tante altre cose| la varietà dei nostri destini ci fece soffrire | tra antichi e nuovi| tutti gli sperimenti| ci fece dare al mondo tutti gli esempi. Che il dialetto fiorentino non fosse il primo scritto nè in poesia nè in prosa| quando due fuochi della civiltà italiana erano la Corte siciliana di Federigo II e lo Studio di Bologna| già lo dicemmo; ma dicemmo poi come passasse tal civiltà a Firenze| come vi si facesse più progressiva| come Dante fosse figliuolo non unico| non primogenito| ma principalissimo di tal civiltà. Che fin d'allora i Toscani vantassero il loro volgare come principale della lingua italiana| vedesi dal capoXIll del Volgare Eloquio. Naturalmente crebbe tal vanto di principato dopo Dante| Petrarca e Boccaccio e parecchi altri| per oltre a due secoli| che Firenze rimase pur prima della civiltà italiana. Cadutane essa poi| per qualunque ragione | volle il principato di lei volgersi in tirannia: misera e minutissima tirannia di paroluzze o parolacce| riboboli e modi di dire popolareschi e furbeschi; che fu allora opportunamente rigettata con proteste di fatto e ricerche di diritti| come succede a tutte le tirannie. Ma il negare l'esistenza di quel principato| parmi a un tempo negazione di fatti| solenne ingratitudine ai nostri migliori| ed ignoranza dei veri interessi della lingua; la quale non si può mantenere viva e bella in niun luogo| come in quelli ov'ò universalmente e volgarmente parlata.
Errò egli dunque Dante non riconoscendo il principato| osservato da lui e preteso da' suoi contemporanei| del pro-
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