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Osservazioni

      Gl'Italiani, accusati spesso di superstizione e d'idolatria per Dante, sono tirati da tante ragioni al culto di questo loro profeta nazionale, che anzi è da stupire se essi non fondarono tutta la loro educazione letteraria e civile sullo studio della Divina Commedia, come già gli antichi Greci sullo studio dei poemi omerici. Prima di tutto, a far ragione della natura dei popoli e delle lingue dai loro incunabuli, quali auspicii non possono trarre gl'Italiani dalla considerazione che, dove il genio francese si rivelò primamente nel sovrano sbeffatore del Gargantua, e il genio tedesco nei feroci Nibelunghi, il nuovo latino invece si è glorificato di primo slancio nell'apocalisse della scienza e dell'amore?
      Ma lasciando codeste, che Vico chiamerebbe teorie gentilesche, veniamo a più fermi riscontri. I problemi che Dante agitò sono quei medesimi da cui pendono tuttavia i destini d'Italia; e appena mutarono, se pur mutarono, le parvenze; ed infino ai nomi de' Guelfi e dei Ghibellini, che Dante infamava ed Arrigo VII proscriveva, a volte pajono voler ripullulare. Più seriamente vedemmo rinascere quelle, non è ben chiaro se memorie o profezie, di primato italiano; e rinfiammarsi le disputazioni intorno ai modi di accordare e limitare l'impero laico e la potestà spirituale, la sovranità dello Stato e le franchigie delle terre e dei luoghi, la comunanza e, come dicono, la solidarietà umana e la libera signoria di ciascun popolo.
      E per discendere a più umili argomenti, non dura tuttavia ostinata e insoluta la quistione tra i teoristi della lingua comune d'Italia, e i difensori dei dialetti; quistione che Dante cominciava cinquecento cinquant'anni fa? (nel Convito, I, 5-11, e più specificatamente nel trattato latino lasciatoci incompiuto sotto il titolo De vulgari eloquio, sive idiomate, che dovette essere scritto intorno all'anno 1314). Anzi, non veggiamo noi in Dante medesimo l'inestricabile confusione delle due scuole, l'una delle quali considera la lingua come un'artificiosità di sapienti, e l'altra come una creazione spontanea dei popoli? Imperocché l'Alighieri vagando per le città d'Italia, e trovandovi usato nelle Corti e nelle scuole un gergo erudito, che aspirava ad unità, bandi arditamente la lingua aulica, il nuovo latino, nemico delle sozzure e delle mutevolezze plebee; ma nel tempo stesso, a sfogar le sue passioni e incarnare i suoi concetti, usò la favella
      Che prima i padri e le madri trastulla,
      e si valse di quell'idioma comico, com'egli stesso confessava, e volgare, che era stato la prima musica delle sue memorie e il primo splendore della sua grand'anima. Singolare poi è l'osservazione che, come in questo fatto della lingua, così in quasi tutte le altre questioni, ogni setta trovi nella Divina Commedia armi ed esempi. Ond'è che altri vi cerca l'impeto demostenico dei sarcasmi e delle imprecazioni contro principi e papi, altri il ghigno aristofanesco sui villani parteggianti, e i volghi inconsulti, che gridano morte alla loro vita e vita alla loro morte. Per egual modo i disamorati delle vecchie credenze vi rileggono le agre riprensioni contro la gente chercuta e le corrotte fraterie; i credenti vi trovano le pie glorificazioni del poverello d'Assisi, poco meno che pareggiato al Salvatore, e del formidabile atleta,
      Benigno a' suoi ed ai nemici crudo,
      che ripigliò a difesa della fede la spada onde le tradizioni armano l'apostolo delle genti. E' vero si è che ognuno sceglie secondo l'umore; pochi badano al mirabile sincretismo di sentimento e di ragione, d'autorità e di libertà, che anche oggidì, vogliasi o no, è l'enigma messoci innanzi dalla sfinge dell'avvenire. A molti codeste parranno sottilità: ma chi sappia inviar l'occhio fino alle scaturigini profonde della vita, vi troverà la risposta di Dante, il quale lesse la propria e intima natura dell'umanità, allorché, contemplando il sommo della bellezza, affermava che
      ... qual soffrisse di starla a vedere
      Diverria nobil cosa, o si morria
.
      (Vita Nuova, canz.).
      Perché veramente conviene che o luogo trovi nell'universo ragione e intelligenza d'amore, o ch'ei si muoja. — E questo, crediamo, è la legge cosmica, che Dante esemplò ne' suoi versi.