Gelasio Adamoli - La direzione de "L'Unità" (1951-1957) - Gli articoli


I primi giorni della liberazione

Da detenuto a Marassi a vice questore - Il colonnello inglese non capiva il "miracolo" operato dal popolo con la lotta antifascista

(25 aprile 1953)

Il grande portone della Questura era ancora chiuso; eppure erano già le nove del mattino ed il sole era alto nel dolce cielo d'aprile.
Scivolai allora lungo l'ala a levante del grande palazzo, verso l'ingresso di "notturna". Avevo lasciato il mio ufficio di vice-questore poche ore prima, a notte inoltrata, ed ero costretto già a ritornarvi.
L'impegno era grave per i partigiani che, tre o quattro giorni prima, il 25 Aprile, avevano assunta la direzione della città: era grave anche per Bianchi e per me, destinati dal C.L.N. ligure a reggere la Questura di Genova.
Si trattava da una parte di agire con estrema decisione contro i delinquenti comuni (era l'epoca delle clamorose rapine anche in pieno giugno) dall'altra di assicurare alla giustizia i responsabili della catastrofe della Nazione, i criminali fascisti, e i loro complici.
Pochi giorni prima mi trovavo ancora a una cella della IV Sezione di Marassi, pochi giorni prima l'insurrezione era scoppiata anche dentro le mura delle "Case rosse" e anche noi, prigionieri delle SS e delle brigate nere, ci eravamo conquistati la nostra libertà.
E il destino aveva voluto che subito dopo la vittoriosa insurrezione, il 25 aprile, io dovessi rientrare, investito delle funzioni di vice-questore della liberazione, in quell'edificio dal quale, qualche mese prima, ero uscito ammanettato, per essere condotto alla Casa dello Studente.
Grave era il nostro impegno. L'VIII Armata allora era ancora lontana quando il generale tedesco Meinhold aveva sottoscritto dinanzi ai membri del C.L.N. di Liguria, quell'atto di resa che restava per sempre una delle maggiori glorie del popolo genovese; i partigiani avevano con le sole loro forze liberato Genova, con le loro sole forze si erano già messi all'opera per la ricostruzione della città e nel lavoro febbrile di quei primi giorni di libertà avevano portato lo stesso slancio e gli stessi profondi motivi nazionali che li avevano fatti capaci di combattere e di vincere un nemico tracotante e spietato.
Le forze alleate stavano ormai per giungere, i patrioti genovesi si preparavano ad accoglierle con gioia e con fraternità e nello stesso tempo agivano affinché dall'ordine, dalla normalità della vita cittadina il comando alleato potesse constatare il segno della maturità e del diritto all'autogoverno del nostro popolo.
In Comune, in Prefettura, nei Palazzi di Giustizia, nei grandi stabilimenti industriali, nelle aziende dei pubblici servizi, nelle scuole, ovunque, gli uomini della Resistenza, scesi dai monti, usciti dalle carceri, emersi dall'ombra della cospirazione, erano ai posti fissati già nel corso della lotta armata: ovunque, scacciati i traditori e gli invasori, i patrioti erano al lavoro e, ora per ora, si accelerava il ritmo della ripresa della vita cittadina.
Quel mattino, dunque, dopo poche ore di riposo, tornavo al mio nuovo ufficio: vi erano numerose, urgenti questioni da sbrigare.
Neanche mi aveva troppo sorpreso il fatto di trovare chiuso il grande portone centrale: non potevamo ancora pretendere che i turni di servizio della polizia partigiana fossero perfetti e, d'altronde, certe forme di precauzione erano ancora necessarie.
La sorpresa mi attendeva all'ingresso di "notturna". Dietro le sbarre del cancelletto chiuso, alla testa di una pattuglia militare alleata, un sergente americano, con tanto di mitra, mi invitava ad allontanarmi, facendo ampi ed irosi gesti. Non sapevo quando e come fosse giunta in Questura quella pattuglia militare alleata ma certamente, pensavo, doveva esserci un grosso equivoco.
Cercai di farmi riconoscere, mostrando il tesserino del C.L.N., ma più parlavo più mi sembrava che eccitassi quel sottufficiale americano.
Riuscii a capire che la Questura era ormai occupata dalle forze militare alleate e che nessuno _ e quando dicevo "comandante partigiano" con un legittimo tono di fierezza e di orgoglio sembrava che pronunciassi chissà quali parole provocatorie ed offensive - assolutamente nessuno poteva mettere piede nell'interno del palazzo.
Quando giunsi, trafelato e stupefatto, alla sede del C.L.N., dove trovai il Questore Bianchi, al quale era stata riservata una accoglienza simile alla mia, la cosa era già nota.
Nel corso della notte alcune auto alleate, che si erano staccate dal grosso dell'Armata ancora in marcia di avvicinamento verso la nostra città, avevano condotto, con l'adeguata protezione di pattuglie, gli ufficiali americani ed inglesi destinati ad esercitare in Genova le funzioni assegnate alle truppe alleate di occupazione.
A Genova accadevano cose che non andavano affatto a genio ai comandi alleati e, particolarmente, non andavano a genio ai servizi politici e della cosiddetta "guerra psicologica" che operavano a fianco dei servizi militari. Ai partigiani di Genova essi non potevano fare accuse particolari per la sdegnosa risposta data al proclama di smobilitazione lanciata nell'inverno precedente dal generale Alexander poiché eguale risposta essi avevano ricevuta da tutte le altre formazioni partigiane del Nord. Qualcosa di particolare riguardava però la nostra città poiché, senza attendere nessun ordine dal comando dell'VIII Armata, come si pretendeva, Genova era insorta il 24 Aprile, prima fra tutte le città del Nord.
A Genova, inoltre, tutta la vita pubblica, in poche ore, era saldamente passata sotto la guida delle forze della Resistenza, a Genova, e ciò era certo la cosa più grave per i servizi politici alleati, funzionava regolarmente la polizia partigiana. Per questo, con la occupazione della Questura e con il blocco di tutti i servizi di polizia la missione alleata esercitò i suoi pieni poteri.
Solo dopo lunghe discussioni con un colonnello inglese, designato ai servizi di polizia nella nostra città e che trovammo già installato a Palazzo Pallavicini, in Piazza Fontane Marose, potemmo entrare nel palazzo della questura.
Ero sconcertato. Non avrei mai creduto che sin dal primo incontro con i rappresentanti degli alleati avrebbe potuto nascere la sensazione che un nuovo padrone fosse giunto per sostituire quello che pochi giorni prima era stato piegato dalle forze patriottiche della Resistenza, non avrei mai creduto che il sospetto ed anche un manifesto tono di tutela, come se fossimo dei "minori" tanto inesperti quanto presuntuosi, fossero stati i sentimenti che avrei dovuto avvertire sin dal primo incontro, in uomini che pur vedevo sempre come compagni di lotta per una stessa causa di libertà e di giustizia.
L'Ufficio del questore era già occupato da un altro colonnello inglese che, poi sapemmo, nella vita civile era un funzionario di Scotland Yard.
Voi forse crederete, amici lettori, che quanto sto descrivendo sia preso a prestito dalle più note e banali illustrazioni di certi modi di vita degli anglo-sassoni. Ma quel colonnello-poliziotto era proprio lì, seduto davanti alla scrivania, con i piedi sul tavolo e la pipa in bocca.
Senza neanche invitarci a sedere e senza modificare in nulla il proprio atteggiamento, facendo fischiare le parole tra i denti e il bocchino della pipa disse, nell'italiano reso famoso da certi doppiaggi di film comici, rivolgendosi prima a Bianchi, poi a me: "Lei è avvocato, lei è professore, cosa potete sapere voi del funzionamento di una questura? Cosa volete voi fare qui?".
Cosa poteva sapere lui, poliziotto inglese, del profondo significato di un movimento di popolo, cosa poteva sapere lui, ottuso burocrate, dei comandi militari creati da contadini, operai intellettuali, i quali, senza passare per la "scuola di guerra" avevano battuto i generali e i comandanti nazisti, come poteva capire lui il "miracolo" della comparsa immediata, ovunque, dei quadri nuovi della Nazione?
Non so se quel massiccio colonnello quando uscì dall'ufficio di Bianchi per lasciarci finalmente al nostro lavoro, avesse ben capito quanto noi gli avevamo detto, quello che è certo è che egli aiutò noi a capire sin d'allora che la Resistenza non era finita con la vittoria del 25 aprile, che la liberazione totale del nostro Paese avrebbe ancora dovuto compiersi.
E la Resistenza difatti continua. Il 25 Aprile non è solo una celebrazione ma è un grande impegno che si rinnova.


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