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Una triste eredità?
(1952)
Sono un marittimo capitato a Genova e nel mio girovagare, senza meta, in questa superba città mi capita spesso di transitare per il centro dove, in questi giorni di festa, l'animazione è più lieta e il movimento più intenso. Ma quasi al principio della Galleria Mazzini, dove ha sede una nuova Banca di cambio, vedo sempre raggomitolato su un gelido scalino di marmo un povero essere umano, un vecchio languire quotidianamente nella sporcizia e nello squallore dei suoi miseri stracci, giorno e notte, mentre l'umanità gli passa accanto indifferente. Perché questa nota così stridente (e non è l'unica) in una città bella e civile come Genova? Il cuore si stringe all'amarezza e la mente rifugge dal considerare questi esseri infelici, responsabili o colpevoli della loro triste situazione, ma anche se ciò fosse perché non si provvede ad eliminare simili pietosi spettacoli di degradazione umana che offendono il nostro sentimento e sono, purtroppo, dimostrazioni di inciviltà che non ci fanno onore? Possibile che con tante benefiche istituzioni d'assistenza, pubbliche e private, con tante enunciazioni di principii umanitari e fervore di iniziative, per alleviare le miserie e le sofferenze umane, ci si mostri indifferenti alla triste sorte di questi reietti e randagi che soffrono, e muoiono, come bestie, per le strade e nelle spelonche? So che il problema non è semplice, perché l'accattonaggio è una triste eredità nazionale alla quale ci siamo abituati, ma per i casi di evidente invalidità e indigenza assoluta, è delitto il disinteressamento specialmente per coloro che nuotano nell'agiatezza e che, oltre al vantato senso umanitario, hanno a cuore il decoro e il buon nome della città. (Cap. Martini Amerigo) P.S. - Lettera uguale è stata da me inviata al quotidiano “Secolo XIX” per la pubblicazione.
Ho voluto pubblicare qui in questa rubrica la sua lettera perché essa richiede una risposta.
Lei non ha inteso certo di scoprire la disperata miseria del povero o l'indifferenza e l'egoismo del ricco o l'insufficienza delle strutture assistenziali della società attuale o le contraddizioni di Genova che raccoglie sui gradini di marmo dei suoi palazzi superbi un mucchio di stracci entro i quali si agita una vita umana. E' tristemente antico il quadro che l'ha colpita in questi giorni di festa, ma mi pare che anche Lei, come tanti altri, che pure hanno la sua stessa, profonda sensibilità umana, si fermi ad una amara osservazione e ad una astratta invocazione di solidarietà.
Creda, egregio Capitano, vi è qualcos'altro da fare per scacciare non solo da Genova ma da tante altre città del mondo, le contraddizioni di una società che sulla miseria di tanti poggia la ricchezza ed il privilegio di pochi. Temo che anche Lei appartenga alla schiera ancora troppo numerosa di coloro che ritengono le stratificazioni sociali, e quindi le ingiustizie sociali, elementi permanenti ed indistruttibili della convivenza umana.
Difatti, Lei scrive, fra l'altro, che “l'accattonaggio è una triste eredità nazionale alla quale ci siamo abituati”. Si tratterebbe comunque di una pessima abitudine, ma Le assicuro che moltissimi uomini non si ritengono affatto abituati ai mali sociali, moltissimi uomini ne conoscono le cause e ne conoscono anche la cura.
E allora, caro signor Martini, guardi più oltre le frontiere attuali di miseria e di ricchezza cristallizzate. Penso che non Le debba essere troppo difficile dare concretezza al suo sentimento di giustizia sociale se Lei ha scritto a “l'Unità”, giornale di lotta contro tutte le ingiustizie e contro tutti i mali sociali.
Il fatto poi che Lei abbia inviato eguale lettera anche al Secolo XIX, non complica affatto le cose, anzi le chiarifica.
Tanto non credo che il Secolo XIX pubblichi la sua lettera e allora capirà meglio che solo coloro che hanno scelto un posto di lotta possono raccogliere una invocazione di giustizia.
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