All'entusiasmo della guerra di Lombardia, al brio della campagna delle Due Sicilie, succede ora la nota melanconica: parlo di Aspromonte.
All'Italia mancava Roma, mancava Venezia. Garibaldi, espressione del sentimento nazionale, senza discutere gli ostacoli, senza giudicare dei pericoli, move per la città eterna, tranquillo e fidente come Cristo, sicuro che le turbe lo seguiranno. Egli chiama in Sicilia i suoi devoti, e
questi accorrono alla voce di lui, non chiedendo ragioni, soffocando i dubbi, che la novità, la incertezza, la commozione del momento inspiravano negli animi loro.
Meglio d'ogni mia parola sarà facile comprendere, io credo, perchè anch'io non avessi allora esitato a seguire Garibaldi in Sicilia, leggendo un brano del diario di mia madre, che qui trascrivo, e che risale alla venuta del generale in Lombardia durante la primavera del 1862.
"Il 28 maggio (ella scrive) un avvenimento tra' più fortunati della nostra famiglia sopraggiunse a scuotere il cocente, profondo dolore, che intorpidiva tuttora l'animo mio per la morte del mio secondogenito, il povero Massimo.
"Il generale Garibaldi fu nostro ospite a Varese e a Besozzo.
"Domenico (mio padre), in occasione dell'arrivo di Garibaldi, ardì proporre di alloggiarlo in casa. E Garibaldi, al suo segretario Bellazzi, che lungo la via da Como a Varese gli diceva delle due offerte avute e dall'Adamoli e dal municipio, rispose: "Andrò dal mio buon amico Adamoli”. E arrivò coi suoi due figli Menotti e Ricciotti, il dottor Ripari, i due fratelli Cairoli, non ancora del tutto guariti, il deputato Miceli, il colonnello Bruzzesi, romano, il capitano Wolf, Bellazzi, Basso, Forza. Crispi venne la sera a parlargli.
"La emozione che provai è indescrivibile. Affido qui allo scritto l'addio, che avemmo da lui.
"Fattomi chiamare, mi domandò subito di
Giulio. "- E Giulio ? Venga, perché voglio salutarlo.”
"- Giulio, a rivederci al campo,”, gli disse stringendogli la mano. "Vi aspetto.”
“Domenico, scosso, interruppe: "- prendete me in sua vece; è solo, lasciatelo a sua madre.”
"Io soggiunsi: "- se sono di ostacolo e se ciò occorre, andate pure tutti due.”
"- Sì,” rispose Garibaldi; "più saremo e più
presto torneremo.”
Io non dirò del delirio di quei giorni. Da un capo all'altro della penisola la voce che Garibaldi avesse nuovamente deciso di fare appello alla gioventù, corse in un baleno, pure ignorandosi ov’ egli mirasse, come l'annunzio di una buona novella. Lo si seguiva con ansia tormentosa. Abortito il tentativo di Sarnico, egli è a Belgirate, poi a Torino, infine a Caprera. A un tratto, ai primi di luglio, lo si sa sbarcato a Palermo: e di lì a pochi giorni, fra la meraviglia degli uni e la gioia degli altri, si legge su per
i giornali, che egli ha proclamato la crociata al grido fatidico di "Roma o morte!”
Io lavoravo allora, da ingegnere, alla costruzione della ferrovia Milano-Pavia, e dimoravo a Landriano, un paese un po' fuor di strada, e dove non potevo seguire regolarmente le fasi dei movimenti politici. Però gli amici mi tenevano al corrente; l'inseparabile Frigerio, al quale
chiedevo con insistenza precisi ragguagli intorno ai preparativi di Sicilia, mi rispondeva da Milano il 27 luglio: "È verissimo che si vocifera di una spedizione, ma di certo ne sappiamo tanto noi qui quanto tu nel tuo villaggio: se però ci sarà qualche cosa, te ne terrò avvisato per lettera, o per telegrafo in caso di urgenza,
ossia di partenza; in quest'ultimo caso il telegramma sarà così concepito: "l'affare è combinato; vieni”. Fu a Milano Eber: partì ieri per l'Italia meridionale con Turr: per me è questo il segno più sicuro”.
Intanto, come pretesto per ottenere il passaporto, giacchè si parlava di ordini rigorosi impartiti dal governo a fine di non lasciare andare volontari in Sicilia, mi facevo scrivere dai conoscenti di laggiù di sollecitare l'arrivo mio e dei compagni per assumere appalti di ferrovie, delle quali allora si era iniziata la costruzione.
Una lettera dell'ingegnere De Cristoforis, che aveva capita l'antifona, è un capolavoro del genere.
Avuti i passaporti mediante cotesto stratagemma, spinti dal timore di veder fors'anche rinnovare un'altra volta, senza di noi, su le coste pontificie, la spedizione dei Mille, il 4 agosto, preso commiato dalle famiglie, Antonio Frigerio, io e Gaetano Tallachini di Varese, giovane buono e ardito, amico fedele fino al sacrificio, devoto a Garibaldi fino all'idolatria, ci affrettammo a metterci in cammino.
A Genova cercammo di Bellazzi, il segretario di Garibaldi, persuasi di avere finalmente da lui schiarimenti intorno alla situazione. Ne sapeva meno di noi. La città formicolava di giovani desolati, ai quali l'autorità vietava di partire, e che non si potevano risolvere a tornare a casa, sperando di deludere in qualche modo la vigilanza
della polizia. Ma nessuno capiva perchè, trattenendo i giovani sul continente, si concedesse poi a Garibaldi di fare uomini ed armi in Sicilia.
Una prova, se pure ancora ne abbisognano, delle incertezze e delle contraddizioni, che erano non solo nel governo e nei cittadini, ma persino nell'animo dei soldati, è offerta da questa lettera, curiosissima nella sua ingenuità, di un sergente del 48° reggimento di fanteria, del mio paese, conservata fra le pagine del diario di
mia madre. È del 5 agosto, ed ha la data di Palermo.
"Garibaldi si trova qui, nella Sicilia, con un
esercito di circa sessanta o settanta mila uomini; vuole andare a Roma, ma le Potenze non sono contente: la Francia gl'impedisce il passo; egli ha risposto alle Potenze, che batterà chiunque gli verrà davanti. Noi siamo qui otto reggimenti di linea, quaranta nello Stato napoletano, undici
fregate da guerra sul mare, tutti pronti per aiutare Garibaldi in caso che dia indietro. Quasi tutto il popolo della Sicilia è andato con Garibaldi. Ogni giorno vengono bastimenti carichi di volontari veneti. Credo che partiremo presto pei confini della Romagna, perchè tutta la truppa
marcia verso quelle parti. Se possiamo riescire ad andare a Roma, presto anderemo anche a Venezia, seguendo il progetto di Garibaldi.
In mezzo a tanta confusione d'idee, la sola via per trovare il bandolo della matassa ci parve quella di affrettare la nostra partenza. Ottenuto dalla questura di Genova, dopo minuta verifica dei passaporti, il permesso d'imbarcarci, salpammo la sera del 5 luglio sul Perseverant della compagnia Valery.
Nonostante però questo primo successo, avremmo difficilmente raggiunta la meta, se la fortuna non ci avesse dati per compagni, a bordo dello stesso piroscafo, quattro angeli tutelari, che miracolosamente ci spalancarono tutte le porte; cioè quattro deputati al Parlamento, che ebbero
una parte tanto onorevolmente conosciuta in quell'episodio della nostra storia: Nicola Fabrizi, che sarebbe ancor più celebre se non fosse stato così modesto, poiché nessuno saprà mai esattamente quant'egli, anima grande, cuore
incomparabile, abbia operato per la patria; Antonio Mordini, uno dei più bei cavalieri della rivoluzione, natura eletta di soldato, di statista, di legislatore; Giovanni Cadolini, ingegno temperato a forti studi, difensore di Roma, combattente di Varese, di Milazzo, del Volturno; Salvatore Calvino, cospiratore, prigioniero di Stato, esule, uno de' Mille, sempre mite in mezzo a ogni traversia. Dovevano con essi imbarcarsi quel giorno anche Francesco Crispi ed Emilio
Cipriani; ma ne furono impediti da non so quale ragione.
Quei deputati si recavano in Sicilia per mandato dei colleghi della sinistra parlamentare, la quale, appena saputa della volontà di Garibaldi, aveva tenuto a Torino una riunione, e incaricato Mordini di scrivere al generale per pregarlo di badar bene a quello che era per fare. La lettera, spedita a Livorno, non giunse a destinazione, perché Garibaldi aveva già salpato per Palermo; ed allora la sinistra si radunò una seconda volta, e delegò quei suoi colleghi per comunicare al generale quanto avevano deliberato.
In sostanza, i nostri compagni di viaggio venivano "a veder se vi fosse modo di evitar la guerra civile, senza per altro fermar l'agitazione politica del paese; gettar acqua sul fuoco, senza estinguerlo”. Così notò il Cadolini in certi suoi appunti inediti, con una dizione tanto chiara
quanto la politica di quei giorni!
Ma tutto ciò, narrato ben altrimenti dagli stessi protagonisti il 27 novembre del 1862 in occasione della interpellanza parlamentare del Boncompagni, appartiene alla storia, e non è materia di queste pagine più modeste.
Insieme co' deputati veniva Francesco Pulszky, emigrato ungherese, corrispondente di alcuni giornali di Londra: lo stesso che, staccatosi poi dal Kossuth, e fatta adesione, dopo il 1866, al nuovo stato di cose creato nella sua patria, ritornò a Buda-Pest con molti altri, fu eletto rappresentante al Parlamento, ed ora è presidente del Consiglio delle Arti e del Museo nazionale.
Infine, a bordo del Perseverant trovai anche Luigi Caroli di Bergamo, con un suo amico, certo Serrazzi: un nome, quello del Caroli, collegato a un noto incidente della vita privata di Garibaldi. Valoroso volontario nel reggimento Piemonte Reale, ufficiale brillantissimo dei cavalleggeri di Saluzzo, elegante, piacevole, fatto apposta per destare amore alle donne e simpatia agli uomini, il Caroli viveva oramai col cruccio interno, inestinguibile, di avere, involontariamente, avvelenata l'anima del generale; e
però era continuamente tormentato dal desiderio insoddisfatto di conquistare il perdono, fors'anche la stima di lui. L'occasione presente gli parve propizia, diede le dimissioni, e s'imbarcò per la Sicilia, con il fermo proposito di arruolare a sue spese una squadra, seguire con essa, di lontano, i volontari di Garibaldi, comparire improvviso sul campo, battersi da leone, e, vincitore, invocare e ottener l'oblio del passato. Chi sa! forse a lui toccherebbe il vanto di ristorar la fortuna di una battaglia. di salvar la vita dell'Eroe.... La giovine immaginazione non si fermava così presto!
Ma le circostanze poco favorevoli non gli permisero di porre in atto l'ardito divisamento. E allora quel suo pensiero dominante lo spinse poco dopo in Polonia, a fianco degl'insorti, contro i russi, che lo catturarono, dopo avere ucciso il Nullo, e lo deportarono in Siberia, ove soccombette prima che gli arrivasse la grazia.
La sua fine immatura desterebbe pietà anche più profonda, se si conoscessero i particolari della sua sorte, che io ho raccolti, il 1870, nell'Asia centrale, dalla bocca di un altro deportato, il giovine Glaser, figlio di un generale russo, condannato di soli diciassette anni ai lavori forzati per avere schiaffeggiato il colonnello del reggimento in cui serviva da cadetto. Il Glaser aveva vissuto intimamente col Caroli a Pavolski ed aveva con lui mantenuta affettuosa corrispondenza, quando quegli fu trasferito a Klitcia nel Nercinski.
Durante la traversata da Genova a Palermo, il Caroli diede prova di molta delicatezza, mantenendosi in un riserbo, di cui noi, fidi amici di Garibaldi, gli fummo grati; e scesi a terra, egli si accomiatò presto da noi, nè più di lui avemmo notizia in quell'anno.
Una gaia schiera di signore navigava con noi sul Perseverant. La stagione era deliziosa, il mare un incanto, i tempi invitavano all'espansione; il tragitto sino a Napoli fu piacevolissimo. Frigerio, conversando, rammentò l'atto spontaneo di quella fanciulla, che due anni prima avevamo
veduto alla Foresteria buttarsi al collo di Garibaldi; ed una avvenente interlocutrice, arrossendo, confessò che era stata lei. Così, rotto il ghiaccio, il nostro viaggio non fu più un mistero per alcuno; e quando ci separammo a Napoli dalle gentili compagne, non ci mancarono nè gli auguri nè le strette di mano significative.
Il Perseverant gettò l'àncora nel porto di Napoli la sera del 7 agosto. Noi, dopo aver titubato alquanto, scendemmo a terra ed alloggiammo all'Hotel de Genève, cercando avidamente notizie. Ma neppure i deputati, che ne
avevano agio ben più che noi, riescirono a cavar nulla di attendibile in mezzo a quell'ammasso di fandonie grossolane o fantastiche, d'invenzioni nebulose o iperboliche, che correvano per la città. Ci assicurammo soltanto, che Garibaldi si trovava ancora in Sicilia, anzi nel centro dell'isola.
Anche a Napoli v'erano molti volontari, impazienti di unirsi al generale, ma a ciò impediti dal governo. Tra gli altri, Francesco Nullo, il quale ci raccontò che la Questura lo sorvegliava attivamente, ciò anzi lo aveva voluto rinviare nell'alta Italia; ma egli, con astuzia da cospiratore provetto, aveva giuocato un buon tiro alle
guardie incaricate d'imbarcarlo sul vapore di Genova, sostituendo a sè il suo domestico. E rideva di gran cuore della gherminella.
A noi pure riescì difficile ottenere sui nostri passaporti il "visto” necessario, per poter risalire a bordo. Malgrado le nostre proteste e la menzogna spudorata degli affari ferroviari, senza l'intervento provvidenziale de' nostri compagni deputati saremmo probabilmente rimasti a terra. Infatti, quando si salpò l'8 a sera, la Questura
aveva disposto intorno al Persevarant un vistoso apparato di forze, destinato ad impedire la partenza a chi non fosse munito di regolare autorizzazione.
Impazienti per le oscure informazioni raccolte a Napoli, si passò questa seconda parte del viaggio in condizioni d'animo ben diverse che nella prima; e quando si approdò a Palermo la sera del 9, stufi del mare, s'aggiunse ancora la inquietudine e il timore di venir sequestrati o
rimandati via dalle autorità dell'isola, che avevano ordini rigorosissimi. In questo caso non avremmo potuto neppur contare su l'audacia e la presenza di spirito, come avvenne a Clemente Corte, cui toccò rompere la consegna, qualche
giorno prima del nostro arrivo, con uno strano sotterfugio. Vedendo egli, appena arrivato in porto, un altro vapore carico evidentemente di volontari, e guardato da barche piene di soldati, s'insospettì che vi fosse divieto per tutti di sbarcare. Quando poi questurini e carabinieri si
disposero parimenti intorno al suo piroscafo, e il sospetto gli si mutò in certezza, egli si appuntò in fretta all'occhiello dell'abito il nastro della croce di Savoia, ed affrontando il carabiniere di guardia alla scaletta, gli disse in piemontese: "Pieme la pcita valisa, e dis a to courounell Basso che a pena colà a terra i andreu da chiel”. E il carabiniere, sconcertato, credendo di aver dinanzi un generale del Re, lo salutò militarmente, pigliò la valigia, e fece avvicinare una barca, in cui Corte saltò alla svelta,
raggiungendo poi alla Ficuzza Garibaldi, che lo avea colà chiamato dal continente.
Ma il prestigio de' nostri quattro angeli tutelari ci salvò ancora una volta dal mal passo, e non avemmo a subire altre angherie fuor che le solite della maffia.
Il nostro morale però non fu punto sollevato dopo l'arrivo a Palermo, perchè tutti i nostri amici siciliani e non siciliani, tra i quali ricordo il marchese d'Ajello e l'ingegner Guaita, ci dipinsero la situazione con le tinte più fosche, dicendo che il Generale e i suoi fidi erano seguiti da una turba di picciotti male armati e indisciplinati, sui quali non si poteva fare assegnamento. E sin qui poco male. Ma ci dissero inoltre, che il governo aveva deciso di arrestarlo ad ogni costo, che le truppe regolari lo circondavano, e che anzi pareva fosse già avvenuto uno scontro tra garibaldini e soldati: cosa, che “mi dava i brividi”, come scrissi a mia madre, soggiungendole, per meglio farle capire la dolorosa impressione, che "l'idea di una guerra civile quasi mi spingeva a tornarmene”; sebbene tale proponimento non abbia mai allignato seriamente nel cervello, martellato da quei: "vi aspetto", pronunziato da Garibaldi poche settimane prima, che non mi dava pace, e che anzi mi rendeva sempre più ansioso di vedere il Generale e di udire una parola da lui.
Mentre noi ci davamo attorno per raggiungerlo, i nostri deputati, dei quali ci eravamo costituiti gli aiutanti di campo, accudivano alla missione politica, resa loro meno ingrata dalle accoglienze, che Palermo aveva loro preparate: entusiastiche da parte della popolazione, onorevoli da parte delle autorità, che si auguravano dai loro savi consigli un'azione moderatrice.
Il generale Cugia, commissario regio con pieni poteri, aveva mandato una lancia della marina a prenderli a bordo del Perseverant, e offerta loro l'ospitalità nel palazzo reale; ma essi avevano preferito di alloggiare all'Albergo della Trinacria. Quando poi si trattò di conferire con lui, Fabrizi, Mordini e Calvino, che non amavano aver molto a che farà coi funzionari del governo, delegarono il collega Cadolini a recarsi a palazzo la sera del 10.
Il colloquio, assai lungo, che ne seguì, fu un vero assalto ad armi cortesi. Tutti due gli schermitori volevano in fondo la pacificazione degli animi e la cessazione delle turbolenze; ma il Cugia, naturalmente, dopo avere con molta
schiettezza esposte le difficoltà del governo, le ansietà dei prefetti, la pochezza delle truppe, e messo il Cadolini al corrente degli avvenimenti dell'isola, non vedeva che una sola via di uscita: cioè la, rinuncia di Garibaldi ad ogni moto illegale, e lo scioglimento delle bande. Quindi insisteva con il Cadolini, perché egli e i suoi amici s'intromettessero presso il generale a fine di raggiungere l'intento, e poneva a loro disposizione scorte e vapori.
Il Cadolini, che non poteva negare in cuor suo la ragionevolezza degli argomenti del Cugia, non voleva, da buon garibaldino, palesemente convenirne. Cercava d'implicare la responsabilità del governo scemando quella di Garibaldi; di persuadere il Cugia a limitare i movimenti delle truppe regolari, dimostrandogli, che solo con l'evitare gli apparati militari, e salvaguardar le suscettività di Garibaldi, si poteva indurlo a più equi consigli. Chi ha conosciuto e il povero Cugia e il Cadolini, fior di gentiluomini e di patrioti, immagini la disposizione dell'animo loro, durante quel colloquio, in cui tutti due s'intendevano perfettamente e non volevano dirselo.
Declinata l'offerta del regio commissario di una scorta per l'interno o di un piroscafo, ciò che avrebbe lor dato un carattere ufficiale, e forse destata la diffidenza di Garibaldi, i deputati si decisero a partire immantinenti, e noi con essi.
Rinunciammo alla via di terra, specialmente perché si diceva, che il generale, uscito dal bosco della Ficuzza, si era diretto alla costa orientale dell'isola, allontanandosi sempre più da noi. Gli amici palermitani asserivano ancora, che le comunicazioni con l'interno erano interrotte; che
appena fuori di città, non esisteva più alcuna autorità costituita; e che bande di predoni scorrazzavano per la campagna. "Volete uscire” aggiungevano "con quei gioielli indosso, quelle catene d'oro, quegli abiti eleganti? ma sarete derubati ai primi passi, e, del resto, non troverete neppure le vetture!” Cose non vere, o per lo meno molto esagerate: perchè presso Garibaldi incontrammo poi non pochi giovani, che appunto nella prima metà di agosto lo avevano
raggiunto da Palermo, percorrendo quelle strade non solo senza molestia, ma fra mezzo a dimostrazioni amichevoli. Ricordo tra questi il Chinaglia, di Montagnana, ora deputato al Parlamento, che da Pisa, ov'era studente, riesci, munito di passaporto turco avuto da un condiscepolo, ad arrivare in Sicilia e quindi a sbarcare sotto lo spoglie di guardia di finanza.
Pigliammo dunque, il 14, la via di mare, insieme con i nostri deputati, tranne il Fabrizi, trattenutosi un altro giorno, perchè indisposto, a bordo del Prince Napoleon, che allo scalo di Messina imbarcò un battaglione del 4° reggimento di fanteria, destinato a mover contro Garibaldi: e poco dopo il mezzodì del 15 agosto toccammo Catania. Anche qui i deputati, accolti con deferenza e dai cittadini e dai funzionari, ci diedero subito incarico di provvedere ai mezzi di trasporto per l'interno.
Mentre attendevamo a ciò, io m'imbattei nel tenente Carlo Biffi di Milano, del 53° di linea. Con le voci che correvano, di fronte alle disposizioni severe che il governo impartiva, è facile comprendere quale commozione dovesse destare cotesto incontro fra un garibaldino ed un ufficiale dell'esercito, coetanei, condiscepoli, antichi commilitoni, amicissimi sempre. Nello stringerci la mano, una nube di angoscia contrasse le nostre fronti. Io balbettai di volo la solita panzana degli appalti ferroviari: egli finse di crederla, e si andò a pranzare insieme. Passammo la serata
alludendo agli eventi del giorno sol quanto strettamente occorreva, perchè non sembrasse un'affettazione il non parlarne; ma rammentando invece, e lungamente e calorosamente, le care ore di abbandono fraterno, passate all'università, nella caserma, su' campi di battaglia, quasi per assicurarci della immutabilità del nostro affetto
durante quella terribile contingenza, qualunque cosa fosse mai per succedere.
Noleggiate le vetture, l'indomani uscimmo da Catania, seguendo la via consolare, che corre lungo le falde dell'Etna. Attraversammo senza difficoltà i distaccamenti del 3° e del 4° reggimento fanteria, cortesemente accolti dal signor Ciancio, capo della guardia nazionale. Al ponte
sul Simeto, presso Adernò, incontrammo il colonnello Eberhardt; e del nostro incontro, innocentissimo, fu poi questione quando più tardi si osò ripetere (e se ne discorse alla Camera!) che i deputati, i quali erano con noi, avessero allora tentato di subornare gli ufficiali superiori dell'esercito.
Finalmente, alle 2 antimeridiane del 17, si entrò a Regalbuto, nel campo garibaldino; ove, malgrado l'ora mattutina, i rappresentanti della nazione, che procedevano innanzi, vennero quasi assaliti dai volontari, avidi di novelle, desiderosissimi di un po’ di luce in mezzo a quel buio pesto. Ma che cosa potevano mai rispondere, i nostri deputati? "È un grande imbroglio", disse loro un giovinotto, saltato sul predellino della carrozza "Nè voi, nè noi, sappiamo nulla: la chiave del segreto non l'hanno che Garibaldi, Vittorio Emanuele, e Napoleone III”. Frase espressiva, che dà una idea della confusione delle menti in que' giorni di tanta confusione!
Il generale, levatosi poche ore dopo il nostro arrivo, ci apparve pieno di speranze, e con il solo suo aspetto tolse via dall'animo de' deputati gran parte della loro fiducia: altro che dissuaderlo dalla impresa! Essi, accompagnandolo durante la marcia delle prime ore, e scrutandone le intenzioni, cercarono sì di commuoverlo, ma egli si schermì, con quella finezza tutta sua: e quando a Centorbi tornarono all'assalto, egli dichiarò loro categoricamente, che avrebbe fatto ogni sforzo per evitare un conflitto con la truppa, ma (come scrive il Cadolini) "non si sarebbe mai lasciato togliere la sciabola dal fianco”. Non era più il caso di nutrire il minimo dubbio. E però, convinti della perfetta inutilità di ogni altro tentativo, la sera stessa i nostri deputati ripresero in vettura la via di Catania.
Tallachini aveva la fortuna di non esser tormentato da scrupoli di sorta; ma Frigerio ed io, nella terribile ansietà di trovarci di fronte ad armi italiane, non avevamo fatto altro, da Palermo in poi, che fantasticare nuovi disegni, fra' quali perfino quello di dichiarare francamente al generale, che la nostra coscienza non ci permetteva di esporci al rischio di versare sangue fraterno, e che saremmo tornati alla costa ad aspettarlo, pronti ad accorrere
ovunque egli pensasse d'imbarcarsi. Come se mai fosse stato possibile tenere un simile discorso!
Infatti, quando udimmo quella voce, che ci ringraziava di essere andati a lui, proferendo parole, che nessuno ha mai saputo trovare; quando lo vedemmo così calmo, così sereno, così sicuro della giustizia della sua causa: propositi, timori, sospetti, tutto sparì; non fiatammo neppure, e la nostra sorte fu legata indissolubilmente alla sua.
Così trovammo tra’ commilitoni, che seguivano Garibaldi alcuni tranquilli, coerenti, preparati ad usare i mezzi voluti dal fine, e quindi a lottare anche contro l'autorità costituita del proprio paese, quando questa, com'era facile prevedere, si fosse opposta all'attuazione del loro programma. Altri, pensosi, colpiti, perchè spinti dal solo desiderio di toccar la spiaggia romana, non avevano mai preveduta la possibilità di un conflitto coi nostri. La massa, indifferente, fidava nel condottiero senza guardare più in là. Mentre i primi, nel darci un caldo benvenuto, si
congratulavano con noi della brava decisione presa di raggiungerli, gli altri si rallegravano con sè stessi di aver nuovi compagni nella inquietudine angosciosa dell'animo, nuovi compagni, con i quali condividere la responsabilità della situazione. Tutti però si cullavano nella speranza di arrivare al mare senza colluttazione. "Se tocchiamo il mare, Garibaldi saprà bene condurci a Roma", ripetevano; e guardando alla turba, che avevano intorno memori dei picciotti del 1860 aggiungevano: "e sul mare metteremo al dovere anche cotesti ragazzacci”. Chè pur troppo molti di quei ragazzacci avevan bisogno di essere richiamati sollecitamente al dovere!
Appunto nel giorno del nostro arrivo alcuni dello stato maggiore, il Nicotera, il Missori, il Corte, il Bruzzesi, il Civinini, il Guerzoni, il Fazzari, indignati per la condotta più che indecorosa di una banda del Corrao, volevano appellarsene a Garibaldi, e avevano perfino ventilato di dichiarargli, che se non cacciava via i colpevoli, e non ne puniva i capi, essi si sarebbero tirati in disparte. Tutti conoscevano il modo di pensare del generale, che si riassumeva nella risposta detta a chi dava a un suo volontario del mascalzone: "si batte, e mi basta”; massima, che non consiglierei ad altri capitani di adottare, però che troppo sovente il mascalzone "non si batte”. Ma questa volta la banda del Corrao aveva davvero trasceso i limiti; mancava soltanto chi osasse moverne doglianza al generale.
Giunsero quindi a buon punto i deputati. Durante la marcia da Regalbuto a Centorbi, gli ufficiali dello stato maggiore si apersero con il Mordini, e lo indussero ad essere loro ambasciadore. E il Mordini finì per accettare la missione, nè facile nè divertente; e a Centorbi si
recò da Garibaldi, che era, quando Basso lo introdusse nella stanza, disteso sopra un lettuccio di campagna, e a cui, con la maggiore e migliore arte di questo mondo, profittando dell'affabilità con cui lo accolse, rappresentò il mandato, facendo in ultimo i nomi de' mandatari. Non appena ebbe finito di parlare, Garibaldi, che non gli aveva mai spiccati gli occhi di dosso, affascinandolo man mano colla severità
del suo sguardo, si levò a sedere, e puntando le braccia sulla sponda del letto, e protendendo la faccia, e mandando lampi: "vadano” ruggì, "vadano subito; io non ho mai avuto bisogno di nessuno, basto da solo!” Mordini, molto confuso, se la cavò senz’aspettar altro; e a mezzanotte, quando il generale ordinò di nuovo i volontari in colonna, e, come se nulla fosse stato, diede il segnale della partenza, i riottosi ufficiali dello stato maggiore gli si misero, dimessi e silenziosi, alle calcagna.
Che notte fu quella! Fra le tenebre, per sentieri dirupati, con quella razza di volontari, sapendo di esser circondati dalle truppe, aspettandoci ad ogni istante "l'alt chi va là” delle loro pattuglie, che avrebbe dato il segnale della lotta fratricida! Non posso rammentar quelle ore senza correre col pensiero ad una mia cavalcata notturna, di alcuni anni più tardi, al Turkestan, lungo le rive del Sir Daria, il fiume Jaxarte degli antichi, quando spingevo innanzi, nella oscurità, uomini e bestie, terrorizzati dalla minaccia di essere assaliti da una tigre reale, di cui si udiva il rauco brontolare fra i giuncheti, e che aveva già portato via, balzata fuori improvvisa, il cavallo sottomano al palafreniere indigeno che ci precedeva.
Quella marcia misteriosa, uno dei soliti stratagemmi di Garibaldi, ebbe pieno successo. Deviando da Adernò e riescendo alle spalle delle truppe, che lo appostavano, egli si aprì l'adito a Catania; e intanto, allo spuntar dell'alba, si affacciò a Paternò, ove intendeva trarre le sussistenze necessarie.
Erano di presidio a Paternò soltanto tre compagnie del 53° reggimento, che non avrebbero potuto opporci resistenza. Garibaldi, fermatosi poco lontano dal borgo, chiamò Frigerio e me, e c'ingiunse di consegnare una sua lettera al comandante di esse e di chiedergli libera entrata in paese. E noi, senz'armi, e vestiti in borghese com'eravamo, ci presentammo agli avamposti collocati fuori delle mura, e domandammo dell'ufficiale, che ci volesse condurre presso il maggiore del battaglione. Ci apparve dinanzi Carlo Biffi....
Lo confesso senza rossore: grosse lagrime ci caddero dalle ciglia, grosse gocce di sudore dalla fronte. “Lo sapevo che a questo si doveva arrivare", esclamò Carlo, "e l'ho preveduto quando v'incontrai a Catania!” E all'udire il
messaggio di Garibaldi: "ma io ho l'ordine di respingervi a fucilate” soggiunse, mentre ci traeva fuor di vista dei soldati per non dar loro spettacolo della nostra debolezza. "O come volete opporvi a noi con tre sole compagnie?” gli
dice Frigerio. "E credi che noi di questo ci curiamo?” rispose fieramente; e, senz'altro, ci guidò dal suo comandante.
Il maggiore Gallois, un vecchiotto di gran cuore, che avevamo conosciuto a pranzo quella tal sera, a Catania, conturbato dalla mossa impreveduta di Garibaldi, che gl’imponeva una enorme responsabilità, mettendolo a rischio di sparger sangue italiano per serbar l'onore del soldato, impartì sotto i nostri occhi le ultime disposizioni della difesa, e ci rimandò via con la risposta, "che egli avrebbe mantenuta la consegna d'impedire ai volontari il passaggio
per la borgata, anche a costo di farsi uccidere
con tutti i suoi”.
Al campo ci si aspettava ansiosi, specialmente perchè lo stimolo della fame cominciava a farsi sentire. La tristezza dei nostri visi manifestò subito il cattivo esito della missione. Consegnammo a Garibaldi la lettera del maggiore, e gli riferimmo quanto avevamo udito e veduto. Il cuore ci batteva forte, mentre Garibaldi leggeva. Quando levò gli occhi dallo scritto, pendevamo addirittura dal suo labbro: quel minuto era decisivo.
"Ritornate in paese” disse a Frigerio e a me; "e chiedete al signor maggiore un colloquio in mio nome”.
Ci sentimmo rinascere, e volammo a Paternò,
ripetendoci lungo il cammino: se il maggiore consente a veder Garibaldi, siamo salvi”; tanto fidavamo nel fascino del nostro condottiere.
I soldati erano già schierati in battaglia. Biffi,
pallido, ma coll'aspetto deciso di chi non cederà più ad alcun sussulto dell'animo, sorpreso del nostro ritorno, ci riporta dal comandante.
Su le prime, questi non voleva saperne di aderire alla preghiera del generale, chiudendosi ostinatamente dietro la parola della consegna, che egli era desolato di dover eseguire. Infine, vinto dalle calde, appassionate istanze di noialtri, che soltanto in quel colloquio scorgevamo una via di scampo, cedette. Accompagnato dal Biffi, il maggiore andò incontro a Garibaldi, che a sua volta veniva dal campo con un aiutante, e si abboccò con lui, mentre noi attendevamo rispettosamente a distanza.
Si accordarono in un mezzo termine: che la colonna non sarebbe entrata in paese, ma avrebbe mandati i furieri a provvedersi dei viveri. Garibaldi tornò quindi al campo; e il maggiore Gallois, combattuto tra la soddisfazione di avere evitato lo scontro fratricida e il dubbio di aver trasgredita la consegna, si ridusse con i soldati entro le porte, seguiti dal Frigerio e da me, che eravamo stati cordialmente invitati dagli ufficiali a fare colazione con loro.
Sedevamo, contenti di avere scongiurata la catastrofe, alla modesta mensa del cantiniere, quando un nuovo accidente minaccia di abbattere la nostra faticosa opera di conciliazione. Un sergente accorre, e parla concitato al Biffi, che funzionava da aiutante maggiore, e che, per la forza degli eventi, esercitava allora nel battaglione un’autorità incontestata. Biffi s’alza di scatto, rovesciando le panche; e gridando: “i garibaldini sono in Paternò, così si mantengono i patti!” Si precipita fuori.
“Sacr...! Vadano un po’ tutti al diavolo!” fu la giaculatoria che si sprigionò spontanea dalle nostre labbra. Fosse per incuria, o per malvolere, o per errore, di fatto alcuni drappelli di garibaldini erano capitati su la piazza di Paternò. Ma al nuovo imbroglio questa volta rimediarono altri ufficiali; e quando Dio volle, la colonna intera riprese la via di Catania, ove giunse poco dopo la mezzanotte.
Del nostro soggiorno in quella città così scrivevo a mia madre il 23 agosto:
"Stiamo qui organizzando volontari e disertori, che ogni momento arrivano. Ma che cosa s’intenda fare io non so. Cerco di non ragionare più e di non pensare più, ora che non posso più ritirarmi. Volevano darmi un comando, ma non lo accettai; voglio essere indipendente. Se ci batteremo con i nostri, mi lascerò uccidere piuttosto che sparare. Fui addetto al generale come ufficiale di ordinanza, servizio da facchino. Del resto si sta bene; bene alloggiati, ben nutriti. Le truppe regolari ci stanno intorno a poche miglia, ma per ora non ci molestano. Dio
ce la mandi buona!”
A spiegazione di queste parole aggiungerò, che a sostenere quel "servizio da facchini” si era in una dozzina, tra' quali Tallachini e Frigerio; che il "buon alloggio” veniva offerto dalla badia dei benedettini; e che per cansare il pericolo di "battermi con i nostri” io avevo
dichiarato, e mantenni la parola, qualmente non avrei mai cinto sciabola nè impugnata un'arma sino al confine pontificio.
I quattro deputati si erano trattenuti a Catania, e però videro spesso Garibaldi, sebbene non nutrissero più lusinga di riescire menomamente a vincere il suo animo, nel quale il successo della marcia su Paternò e l'entusiasmo
dei catanesi avevano fomentato l'ardore e rinfiammate le speranze.
Il Cadolini era solo, forse, o per lo meno il più tenace nella illusione, e ronzava sovente intorno al generale per trovare il momento opportuno di ripetergli l'antifona conciliatrice. Lo colse una volta, e gli tenne un discorso commovente. Il generale lo ascoltò tranquillo, lo
guardò blando, e, senza aggiunger verbo, gli donò una camicia rossa di tessuto finissimo, ricamata in seta, che faceva il paio con un'altra, che egli serbò per sè, offertegli da un'ardente ammiratrice catanese.
Quella risposta al Cadolini, fatta in quel modo così semplice, accompagnata da uno di quei suoi sorrisi, che parevano innocenti, è impagabile. Non solo significava: "lasciatemi un po' in pace, con le vostre argomentazioni; fareste meglio a indossare questa camicia, e venirvene con me”: ma aveva, insieme, un'impronta di umorismo così bonario, una grazia così delicata, da superare le più fine creazioni del Tristram Shandy. Garibaldi era maestro in questo genere di arguzie, ed è peccato che egli non abbia avuto, come l'Apollonio Tianeo, il suo Damide per
raccoglierle in un volume.
Non tutti però i buoni uffici de' nostri deputati riescirono inefficaci. Essi ottennero la soppressione di un proclama incendiario; persuasero padre Pantaleo a desistere dalle prediche esaltate; essi diedero savi consigli ai numerosi ufficiali dell'esercito che avevano chieste le dimissioni, e a quelli che volevano chiederle; indussero molti disertori a far ritorno ai loro reggimenti; si intromisero fra il Municipio ed il generale Mella, calmando la cittadinanza. Dopo che Garibaldi ebbe lasciato Catania, essi si avviarono per terra a Messina e di là, su l'Abatucci, a Napoli, ove Mordini, Fabrizi e Calvino furono
arrestati con quel risultamento, che tutti sanno, e che ebbe alla Camera un'eco così clamorosa.
Garibaldi, secondo il suo costume, non appena padrone di Catania, era andato in cerca di un posto, da cui si dominasse la città e i dintorni, e aveva prescelto il balcone, che gira intorno alla cupola dei Benedettini. Aveva pertanto ordinato, che due ufficiali dì là vigilassero continuamente, e riferissero a lui su qualunque novità, sia dalla parte di terra che da quella di mare. Il turno del servizio portò lassù molte volte anche me, e vi stetti senza noia, perciò non sapevo saziarmi di contemplare, in quell'oceano di aria e di luce, uno dei più meravigliosi panorami del mondo.
Nè mancavano le scene intime. Poco lungi dal tempio, nel vasto cortile ombreggiato d'aranci di un convento di clausura, distinguevamo le monache tutte intente alle loro faccende, affatto lungi dal sospettare la profanazione dei nostri sguardi; e vedevamo le novizie, dalle snelle
personcine, accudire con vivacità serena ai lavori femminili, e le madri, sotto le candide cuffie e le brune gramaglie, ammaestrarle con benignità carezzevole. La quiete, che regnava nel sacro recinto, ove forse non si aveva neppure sentore dei turbinosi avvenimenti del giorno, e la ingenuità e la calma di quelle anime, destavano in ognuno di noi, anche nei più scettici, una tenerezza ineffabile, che s'imponeva al tumulto delle nostre passioni. Il singolare contrasto della nostra situazione e del quadro, che ci stava sotto gli occhi, inspirava considerazioni così amorevoli, che nessuno osava offendere quel santuario di pace con facili sarcasmi o con volgari ironie.
Garibaldi stesso rimase compreso da quello spettacolo. Egli che pure passò molte ore con noi là in cima, scrutando, con il suo cannocchiale, ogni angolo dell'orizzonte. Vi diede persino udienze e faceva pietà vedere come certuni arrivassero su, ansanti e trafelati, dopo quel po' di gradini, e in quella stagione. Esso li accoglieva con la usata cortesia; ma appena data la risposta, rimetteva l'occhio al telescopio.
Il bel primo giorno, dopo avere insistentemente
osservata la via, che conduce nell'interno dell'isola, in fondo alla quale dovevano trovarsi le truppe del generale Mella, rivoltosi a me: "Adamoli", mi disse, "salite sul lucernario e sappiatemi dire quanto di lassù si veda meglio”.
Ho sempre sofferto un po' di vertigini, e quella immensa calotta di piombo, liscia, lucente, erta a un centinaio di metri dal suolo, e che si scala esternamente mercè sbarre di ferro infisse l'una sopra l'altra, mi mise, i brividi. Mi balenò alla mente la leggenda de' seguaci del Vecchio della montagna; ma non potevo rifiutarmi: afferrai il primo pinolo, e mi arrampicai, vincendo con uno sforzo di volontà il ribrezzo del capogiro. Esitai un po' nel ridiscendere; ma ritornatovi altre volte, finii per essere affatto indifferente. Di là in alto ci si vedeva di fatto meglio, ma ci si arrostiva. Quando più tardi la moda delle ascensioni alpine portò anche me su le vette più aspre de' nostri monti, mi giovò sempre il ricordo di aver potuto superare quella prima scalata per avere "fortemente voluto”.
Molti garibaldini si unirono a noi in Catania. Cattabene, Carissimi, Guastalla, impediti dalla questura di prendere il mare a Genova, avevano in ferrovia raggiunto Napoli: con il favore di alcuni amici, era loro riescito imbarcarsi, di notte, stando nascosti nella stiva, sinchè il vapore non avesse salpato; quindi da Messina si eran recati,
per terra, a Catania, ove Frigerio e io rendemmo loro quell'accoglienza, tra il lieto e il melanconico, che i compagni avevan a noi fatto in Regalbuto.
Carissimi venne ad alloggiare nella badia dei Benedettini, e con lui io visitai minutamente, guidati da un monaco, gentiluomo pieno di cortesia e di dottrina, quel magnifico monumento, ricco di tanti tesori d'arte, di tanti codici preziosi, di tanti gioielli inestimabili. Il comando
generale lo nominò membro del tribunale militare, presieduto dal Laporta, cui spettava il giudizio di que' tali picciotti del Corrao. Ma prima ancora che egli fosse entrato in funzione, Garibaldi gli diede incarico di correre a Messina,
per comprare o noleggiare, comunque, a qualunque prezzo, un certo piroscafo inglese, che si diceva ancorato in quel porto.
Il Carissimi, che ignaro di giurisprudenza, aveva
accolto con meraviglia la nomina di magistrato, accolse ora con trepidazione la nomina di negoziatore, egli, che di affari e di noli marittimi non s'intendeva affatto. Però, sceltosi a collega il Castellini, partì.
Il capitano del vapore, uno di quei soliti marini inglesi, che paiono fusi in un unico crogiuolo, tutti di un pezzo, pratici e positivi, si mostrò arrendevole; solamente voleva il denaro sul tavolo, prima di accendere i fuochi. Ora Garibaldi aveva dato ai negoziatori pienissimi poteri,- ma non la croce di un quattrino; e alle belle promesse e ai lusinghieri ragionamenti, l'inglese rispondeva immutabile, con una flemma desolante: "Let me have money!” Vengano i denari!
Riescirono infine a indurlo di tornare insieme a Catania per intendersela con Garibaldi, e noleggiarono all'uopo una barca, essendo oramai interrotto il passaggio per terra. Ma sbarcando a Catania, i nostri negoziatori trovarono la città rioccupata dalle forze italiane, Garibaldi e i garibaldini scomparsi.
Com'è noto, Garibaldi, colta l'occasione offertagli dalla sorte, più benigna del prudente capitano inglese, aveva sequestrati sul posto i piroscafi Dispaccio e Abatucci, e imbarcativi i suoi volontari, la sera del 25 aveva drizzate le prue al continente.
Io ero salito a bordo del Dispaccio. Il vapore,
sproporzionatamente carico in coperta, oscillava in modo inquietante, e ora l'una ora l'altra ruota si tuffava nel mare sino all'asse. Le manovre non erano possibili, se almeno non si sgombravano i tamburi, a' quali si erano avviticchiati molti volontari. Garibaldi, dopo aver gridato invano a costoro di scendere sul ponte, anch'esso pieno zeppo, si spinse, Dio sa come, sul tamburo di destra, e lì si diede a distribuire tutto intorno solenni nerbate, costringendo i riottosi a balzare, fra gli urli e le imprecazioni generali, su le spalle di quei di sotto.
Dopo aver navigato la notte, tenuti a vista da' bastimenti da guerra, una splendida aurora illuminò il nostro sbarco su l'incantevole costa di Calabria, poco lungi da Capo d'Armi.
Camminammo tutto il giorno per la strada lungo la marina che conduce a Reggio; ma su l'imbrunire, poiché una commissione di cittadini venne incontro ad avvertirci che Reggio era piena di soldati, già pronti a combatterci, Garibaldi prese immantinenti a destra, e su per il letto di un torrente, volse all'Appennino.
Per due giorni ci aggirammo con marce disastrose fra quelle pendici, ora brulle, ora coperte di cespugli, di pascoli, di faggi, di pini, sempre preceduti da Garibaldi, che camminava a piedi del suo passo cadenzato, con la sciabola sulla spalla, attorcigliata nelle cinghie. Ni pare
ancora di vederlo, quando chiamò Bernar e me, perché trascorrevamo innanzi alla ricerca di cibo, e ci raccomandò di non allontanarci dalla colonna per non smarrirci.
L'asprezza della via affaticava molti, e tra gli altri il Frigerio, un po' pesante, ma di una pertinacia straordinaria. Ad Aspromonte trovammo in parecchi rifugio nel casolare mezzo cadente dei Forestali: ma nel colmo della notte, mentre eravamo immersi nel sonno, uno schianto, come
se i muri crollassero, ci destò di balzo. Clemente Corte con molta calma impose a tutti di star fermi; poi ci fece uscire, a uno, a uno, dalla stretta apertura della porta, evitando, in quella oscurità completa, un disastro. Ma fuori
si soffriva tanto freddo, che Frigerio e io ci stringevamo l'un presso l'altro per riscaldarci le membra intirizzite.
Sovratutto ci tormentò la fame. Prima di arrivare al pianerottolo di Aspromonte, corse per le file la voce della esistenza di un campo di patate in quei dintorni; ed anzi il generale, dando per li primo l'esempio, ordinò di raccoglier legna, per aver poi modo di abbrustolire i preziosi tuberi. Si trovò di fatto un campicello, ma tanto minuscolo, che fu devastato in un lampo dai primi arrivati, i quali per l'impazienza divorarono le poche patate mezzo crude. Giovanni Tabacchi, dei Mille, mi ha rammentato alla Camera di avermi invitato in quella occasione a dividere con lui la sua modesta parte di bottino, e pretende che io non l'abbia neppure ringraziato. Lo faccio ora.
Soltanto il mattino del 29, lunghe file di pittoresche montanine, inviate dai patrioti dei villaggi vicini, specialmente dai Borneo di Sant'Eufemia, ci portarono nei canestri ritti sul capo il pane richiesto da Garibaldi; si macellò del bestiame; infine, si mangiò.
Carissimi e Castellini ci raggiunsero lassù pe' primi e ci ragguagliarono delle mosse dell'esercito. Non avendoci trovati più in Catania, essi avevano piantato in asso il capitano inglese, che Dio sa quante maledizioni scagliò all'Italia e al suo eroe, e sbarcati a Melito, si erano recati a piedi fino a Reggio. Nello entrare in città, imbattutisi con il Cialdini e con il Persano, loro conoscenti, a mala pena li avevano scansati, gettandosi in una stradicciuola laterale; si erano quindi incontrati con il Nicotera, mandato da Garibaldi, come ora dirò, a raccogliere uomini e danaro. Avuta da lui una guida, essi ascesero il monte, e dopo lungo peregrinare, dopo una curiosa avventura con i “guardiani” di don Cirillo, una specie di feudatario, che prima li prese in sospetto, poi, quando seppe che appartenevano allo stato maggiore di
Garibardo
, li colmò di attenzioni, e donò loro un paniere di fichi squisiti pel generale, arrivarono finalmente, la sera del 27, su ad Aspromonte.
Nicotera e Miceli, tutti due calabresi, erano stati inviati a Reggio da Garibaldi appena giunto sul continente. Essendo essi in relazione con i patrioti del paese, ed esercitando con il loro nome un autorità incontrastata su la popolazione, Garibaldi credeva potessero adunar gente, atta
a ingrossare le nostre file. Per coadiuvarli nella impresa aveva loro dati a compagni Missori e in due fratelli Lombardi.
Nicotera e Miceli trovarono le acque dello stretto ingombre di navi da guerra comandate dal Persano, la città di Reggio gremita di truppe guidate dal Cialdini. Volendo però tentare la esecuzione del mandato avuto, ripararono in
casa di Bartolo Griso, dando in essa convegno a coloro, sui quali speravano di poter contare.
Parecchi infatti intervennero, capitanati da un prete così pieno di zelo, che ad uno de' nostri, il quale gli proponeva di pigliare una corazzata alla baionetta, rispose imperterrito: " Tenteremo!”; parola, che passò in proverbio fra noi. Ma quanto a raggiungere Garibaldi, nessuno volle saperne, pretendendo, che la loro presenza fosse necessaria per organizzare "a rivoluzione” in paese, e declamando a perdifiato contro Vittorio Emanuele e i suoi " birri”.
Accertatisi della impossibilità di indurre quella gente a seguirli, Nicotera e i suoi colleghi, travestiti da pescatori, fingendo di tender le reti da alcune barchette, passaron via, col favor delle tenebre, fra le navi da guerra, che ad ogni istante li fermavano con l' "alt chi va là?”, e sotto la scorta del patriota Cimato, presero terra,
fuori dello stretto, presso Rocco Morgante, il quale s'incaricò di farli accompagnare al campo di Garibaldi.
Vagarono lungamente per la montagna, evitando le truppe, di cui vedevano di notte la fila ascendente delle lanterne; si rifugiarono una volta sotto l’arco di un ponte, sul quale intanto passava un battaglione di bersaglieri; e anche essi finalmente pervennero ad Aspromonte, dove il generale offerse loro, per tutto ristoro, una
manata delle famose patate affumicate.
Ma di quanti fecero a noi ritorno da quelle fortunose spedizioni, nessuno produsse su noi tutti tanta impressione, quanto Federico Salomone, abruzzese, che ci apparve davanti, mentre andavamo su per l'erta della montagna, a cavalcioni di un meschino asinello, mezzo nudo, sì che Garibaldi lo ravvolse nel suo grigio mantello. Salomone ci raccontò, con voce e gesti conciati, le sue orribili peripezie, che io qui narro come mi vennero dettate dal suo compagno d'infortunio, Felice Mondelli di Como, un nobile carattere, un valoroso, di cui tanto si deplora la fine immatura. Trascrivo, per essere più fedele, le sue parole.
"Appena Garibaldi fu in Sicilia nel 1862, io corsi a Genova per imbarcarmi e raggiungerlo; ma per quanto mi adoperassi, travestendomi perfino da cameriere di bordo, non riescii nell'intento; anzi la questura mi ordinò di tornare
a Como, pena l'arresto.
"La stessa sera di quel giorno io e il povero Rienti, dei Mille, conoscemmo in un caffè del molo Federico Salomone, allora maggiore nei carabinieri reali, il quale aveva già date le dimissioni, e attendeva venissero accettate.
"Il Salomone, che voleva, come noi raggiungere Garibaldi, ci diede convegno a Loreto. Di là, dopo molte avventure, tra le quali un attacco di briganti al piano di Cinque Miglia, finimmo per capitare a Napoli, ove, travestiti da soldati in congedo, potemmo, ad onta dello stato d'assedio, salire a bordo di una nave. Sbarcati a Messina, e attraversati gli avamposti a Giarre, io venni, insieme con altri, presentato in Catania dal Salomone a Garibaldi.
"Non appena su le coste di Calabria, Garibaldi inviò Salomone con sette compagni, un Conti di Como, un Acco, già tenente nei granatieri, un Miglietti, già tenente di cavalleria, il principe Niscemi di Palermo, io e due ex-carabinieri genovesi tutti in abito borghese, lungo il mare verso Reggio, con l'incarico di scandagliare gli animi de' cittadini e pigliare accordi con i nostri amici.
"Giunti a Pellero, il mezzodì, ordinammo dei maccheroni in una osteria; ma quando eravamo per metterci a tavola in uno stanzone a pian terreno, dalla finestra saltò dentro un sergente del 5° fanteria con la baionetta innastata, e a lui seguì tosto il capitano e il resto della compagnia. Il capitano, dopo un vivo alterco con il Salomone, che lo conosceva, e che lo sfidò, chiamando l’Acco e me per secondi, diede ordine di arrestarci e di condurci innanzi al colonnello del reggimento.
"C'interrogarono e ci perquisirono. A me tolsero, fra le altre carte, i brevetti della medaglia francese al valor militare, e di ufficiale dell'esercito meridionale, il congedo del 10° reggimento, e la carta di sicurezza da cui risultava che non ero disertore. Sull'imbrunire ci legarono a due a due, e scortati dai carabinieri e da una compagnia di soldati, ci portarono alla spiaggia. Salomone, che camminava in testa con me, non appena fummo vicini al mare, mi si sciolse d'un tratto, fuggì nell'acqua, e nuotando, e tuffandosi più volte per cansare le palle, con cui si tentò di colpirlo, riescì a porsi in salvo. Io esitai un istante: poi con uno spintone buttai in terra un sergente; ma caddi ben presto trafitto da molte ferite.
“Mi si voleva gettare in mare; ma un capitano de’ carabinieri e un medico di battaglione, sopraggiunti alle fucilate, mi visitarono attentamente, e trovatomi ancor vivo, mi fecero trasportare, su' fucili incrociati, nello stanzone, in cui ci avevano poc’anzi interrogati, e a notte
alta, sopra un carro, all'ospedale di Reggio.
"Un medico del luogo voleva amputarmi la mano destra e la gamba sinistra, ma, come puoi immaginare, mi opposi all'operazione. Il prefetto, credendomi, come gli si disse, figlio di Garibaldi, m’inviò un consigliere di prefettura, e dopo aver saputo chi ero, mi fece trasportare a casa sua, ove in un mese, aiutando i miei diciannove anni, uscii dal letto, malconcio per la vita, ma sano e salvo”.
Non mi si accusi di poco patriottismo, se ricordo gli episodi luttuosi di quel tempo. Io penso che niente più della verità, di tutta quanta la verità, ne' suoi più minuti particolari, valga a dare intero il carattere sincero di un momento storico. In questo caso poi, quando si considerino serenamente le circostanze, e si tenga conto delle passioni violenti, che allora agitavano e dividevano gli animi, molto dobbiamo perdonare, molto dimenticare. Ognuno credeva di adempiere il proprio dovere, restando fedele alla consegna,
come al bene supremo della patria. Ed è appunto in omaggio alla verità, per quanto dura essa mi sembri, e per quanto costi al mio amor proprio, che io ardisco proseguire nel racconto della catastrofe finale.
È passato il mezzogiorno del 29 agosto. Dal cascinale dei Forestali, Garibaldi si prepara a riprendere il cammino attraverso i pascoli e le foreste dell'Appennino. A un tratto, laggiù in fondo, si vedono, come un nastro sottile, serpeggiare per le pendici le colonne delle truppe, e
salire, salire sempre. Garibaldi stende i suoi volontari lungo il ciglio di un declivio erboso, con le spalle appoggiate al bosco, che va in alto fino alla vetta della montagna; egli, insieme con lo stato maggiore, si tiene alla estrema sinistra della sua fronte.
I soldati, giunti al limite inferiore del piano
inclinato e scoperto, si spiegano in catena: le quadriglie si avanzano rapidamente: l istante fatale è scoccato: di qua e di là partono le fucilate.
Garibaldi fa suonare dalle sue trombe il segnale: "cessate il foc” ma non gli basta chiama per nome me ed altri, e c'ingiunge di percorrere la linea dei nostri, in tutta la sua lunghezza, per ripetere a tutti l'ordine di non
far fuoco. Correndo fra i greppi, e gridando ai comandanti, ai volontari, il volere del generale, io arrivo all'estremità, assai lontana, dell'ala destra, mentre la catena delle quadriglie sale, sale sempre.
Compiuta la missione, in un tempo necessariamente non breve, retrocedevo per raggiungere di bel nuovo Garibaldi, mentre udivo i colpi secchi delle palle ne' tronchi degli alberi circostanti, quando un ufficiale dei nostri mi viene
incontro e mi dice: " Garibaldi è ferito ed è prigioniero; tutto è perduto. Proseguo, affrettandomi; altri mi confermano l'avvenimento funesto, aggiungendomi, a brevi parole, la narrazione di episodi, ora fierissimi, ora commoventi, al primo incontro fra soldati e volontari. Da
una radura della foresta vedo in distanza un gruppo di giubbe di tela e di cappelli piumati, in mezzo a cui spiccano le camicie rosse; mi si dice che laggiù sia Garibaldi, al quale stanno medicando il piede trapassato da una palla. Intanto il fuoco va cessando.
M'imbatto con Frigerio, ansante, spedito anche lui dal generale a recare i suoi ordini ai nostri battaglioni. Ci consultiamo: che fare? Ci avviamo verso il gruppo, che attrae l'attenzione di tutti. Altri se ne staccano, ci passano a fianco concitati, ci esortano a fuggire; da essi
raccogliamo, a brani, la notizia di quanto è accaduto.
Ecco Carissimi, che si trova nelle nostre identiche condizioni; si discute nuovamente con lui dei casi nostri: a che pro' darci nelle mani dei soldati? Ma ci ripugna abbandonare Garibaldi ferito. Nel frattempo i bersaglieri arrivano, e ci separano completamente da lui e dai nostri compagni. Cupi, vergognosi di una fuga, che invano tentiamo di giustificare a noi stessi, ci arrampichiamo su per i dirupi della montagna.
"Ah, fossero tedeschi!” imprecavamo, digrignando i denti, versando lagrime di rabbia. Frigerio pareva diventasse matto: "morire di una palla italiana!” gridava contorcendosi. Quanto fiele ci si ammassò in quelle ore contro i nemici del nostro paese! L'amara reminiscenza ci
punse per molti anni, indimenticabile, fino a quando non ci fu dato di cancellarla, sul campo, con il nostro sangue.
Eravamo in sei. Un capraio ci guidò a Pedavoli, ove passammo la notte sotto una vecchia tettoia cadente, dubbiosi dell'aria sospetta di quei montanari, che ci si aggiravano intorno, e memori di Domenico Romeo, trucidato colà dalle guardie urbane nel 1847. Prima dell'alba una voce cavernosa andò gridando per le vie del villaggio, che per ordine del sindaco tutti gli uomini atti alle armi dovevano adunarsi in piazza; e noi, non augurandoci nulla di buono da quella chiamata, filammo in fretta, senza chieder altro.
Noleggiate più giù due mule per i più stanchi, calammo verso la marina, evitando le vie maestre, perché punto tranquilli della nostra sorte, qualora avessimo incontrati dei soldati o dei carabinieri. Giunti la sera a Bagnara, sgattabuiammo a una piccola osteria fuor di mano, tenuta da
una matrona colossale, che parve assai lusingata alla vista di cotesti sei gagliardi giovanotti; e mentre già i curiosi accorrevano per attinger novelle, essa ci ammannì in tavola i migliori manicaretti della sua cucina. Intanto, dopo di aver mandato qualcuno a provvederci di una barca, ci condusse a riposare in un ampio camerone; e li, seduta come un monumento in faccia ai nostri letti, piantate le mani sui fianchi poderosi, fra una grassa risata e un'apostrofe gioviale, ci augurò la buona sera. Così nella vita, spesso al dramma si mescola la farsa.
La stessa notte varcammo il mare, e sbarcando a Messina, entrammo, uno alla volta, in città per non destare sospetti. Un gentiluomo messinese, il signor Bozzo, ricoverò Carissimi, Frigerio e me nel casino sociale; e là, lontani da ogni possibile impaccio con la questura, aspettammo l'approdo di un piroscafo diretto a Genova.
Più serie e più difficili furono le avventure di
Nicotera e dei suoi compagni.
Garibaldi, nella illusione che l'esito infelice di
Reggio fosse dovuto alla presenza delle truppe, aveva insistito, perchè Nicotera rinnovasse il tentativo in altri luoghi della Calabria. E Nicotera, con Miceli, Missori e i due Lombardi, unitamente questa volta a Salomone e a Castellini, si era avviato, la mattina del 29, alla volta di Catanzaro, coll'ordine seguente:
“Aspromonte, 29 agosto 1862.
“Colonnello Nicotera,
“Vi recherete immediatamente nelle provincie di Catanzaro e Cosenza e vi prenderete il comando di tutti i corpi di volontari che si possono riunire.
"G. GARIBALDI”.
Scesero prima a Bagnara, ospiti di Carmine Romano. Quindi passarono a Briatico, ove il telegrafista, del quale andarono in cerca per cavarne informazioni, un borbonico della più bell'acqua, scambiandoli per briganti, li accolse con grandi dimostrazioni di simpatia. Rimase alquanto
confuso, quando Missori, sbottonandosi l'abito, e mostrandogli la camicia rossa, si diede a vedere per garibaldino; ma ruminando il caso, e considerando che anche i garibaldini combattevano il governo italiano, egli, il telegrafista, ridonò loro la sua fiducia, e li provvide delle indicazioni richieste.
S'imbarcarono; ma dopo breve navigazione, per sfuggire a un vapore che si avvicinava, si gettarono su la costa fra la borgata di Amato e il fiume Angitola, e ripararono nella cascina Fabiani, ove Nicotera e Miceli mandarono per il comune amico Bevilaqua. Questi raccontò loro della catastrofe di Aspromonte, de' proclami del governo, che dichiaravano i fuggiaschi fuori legge, e di un distaccamento di truppe, che era già su le loro tracce.
Nicotera e Miceli, antichi cospiratori trovandosi nel cuore della contrada nativa, che conoscevano palmo a palmo, in mezzo a compaesani devoti, o per lo meno incapaci di tradirli, non temevano nè per sè nè per i compagni. Anzi
Nicotera, più tardi, volle aver il piacere di affiggere egli stesso i proclami, che portavano fra nomi dei ribelli anche il suo, e dormire nella casa di un amico in una camera attigua a quella, in cui riposava il maggiore di fanteria, che lo cercava.
Procuratisi infine dei passaporti, su' quali Miceli era iscritto sotto il nome di Esposito, Nicotera qualificato per parroco di Maìda, Missori per negoziante di granaglie, e così via, a Pizzo salirono a bordo di un piroscafo, che li portò a Napoli, ove, poche ore dopo il loro arrivo, venne
proclamata l'amnistia. Così poterono riprendere le vere loro spoglie, e ritornare senza molestia a casa.
Noi pure, rifugiati a Messina, dopo avere provvidamente telegrafato ai nostri cari, calmando le ansie in cui vivevano a causa delle strane notizie di quei giorni, pigliammo imbarco sopra un vapore della compagnia Valery, dove la prima figura, che ci si fece incontro, fu quella
di padre Pantaleo, il quale, rasa la barba, ed arricciati a punta due baffi marziali, si era trasformato in un moschettiere da romanzo, facendoci per poco dimenticare le difficoltà della nostra situazione.
A Napoli ci guardammo bene dallo scendere a terra; ma rimasti a pranzare a bordo, attaccammo una lite indiavolata con il capitano del legno, un francese, che portava il nastro di una decorazione del papa, e che sparlava maledettamente di Garibaldi.
Il capriccioso iddio della gioventù volle poi dissipare, durante la traversata, la tristezza, che ci opprimeva, facendoci assistere a una scena originalissima. Nel buio, all'altezza dell'isola d'Elba, il piroscafo incagliò in un banco di sabbia, e sobbalzando violentemente, gettò lo scompiglio ne' passaggieri, che si erano già ritirati per dormire; e a noi, che sul cassero suggevamo
l'amorosa malìa di una notte d'estate sul Mediterraneo, impose il compito cavalleresco di rinfrancare le belle napoletane, che discinte, come giacevano nel sonno in quella torrida stagione, guizzavano, strillando, dalle cabine, e fatte cieche dallo spavento, ci tendevano supplici e fidenti le nude braccia.
Non appena scesi a Genova, ognun di noi raggiunse chetamente i domestici lari, dai quali un mese prima c'eravamo dipartiti con tanta poesia nel cuore, con tante illusioni nell'animo.
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