Giulio Adamoli
Da San Martino a Mentana

Capitolo Ottavo
In Roma
(1867)




       Prima di raccontare in questi ultimi capitoli come andassi due volte a Roma e come raggiungessi Garibaldi per partecipare all'atto finale del dramma nell'Agro romano, mi si consenta di riferire un dialogo, che ebbi a Londra con Giuseppe Mazzini; non tanto perché esso si connette ai moti insurrezionali, che appena ricominciavano, quanto perché mi offre il destro di far nota la impressione, che in me produsse quell'uomo straordinario.
       Finita la campagna del 1866, feci un viaggio agli Stati Uniti d'America, per vedere una buona volta, con i miei occhi, codesta repubblica, allora fra noi poco nota, e però continuamente e da tutti vantata come prototipo di progresso e di libertà. Datomi pertanto a conoscere i popoli e i costumi del nuovo continente, quasi dimenticai il continente vecchio, e poco seguii le vicende politiche d'Italia. Ma rimesso il piede in Inghilterra il luglio del 1867, fui ripreso dalla impazienza di saper delle cose di Europa, e specialmente della nostra penisola.
       Alla mia legittima curiosità soddisfece appunto il Mazzini, con il quale pranzai a Londra presso il comune amico Semenza, e che poi visitai con profondo sentimento di rispetto. Nè certo potevo augurarmi un maestro di maggiore autorità, se non sempre, a cagion e della rigidità dei principii, imparziale e spassionato.
       Mazzini mi aveva veduto altre volte a Londra, era stato ospite di mio padre a Varese, e però mi accolse e m'intrattenne addirittura con dimestichezza. Dopo di avermi fatto dire delle avventure più notevoli del mio viaggio in America, non senza interrompere il racconto con sagaci osservazioni, presto venne fuori con l'argomento, che era in cima al pensiero di ogni italiano, la questione di Roma, la quale, come egli disse, precipitava rapidamente verso il periodo della soluzione. A forti pennellate tratteggiò i dissidi fra i moderati del comitato nazionale, il focoso centro d'insurrezione, e il comitato d'azione, prediletto del suo cuore. Svolse, su la necessità dell'agitazione per apparecchiar la lotta, e sui mezzi indispensabili per iniziarla, considerazioni e giudizi originali, ispirati sempre alla più incrollabile fiducia. Ma più che su altro, ei si fermò e si dilungò, con evidente compiacenza, ad illustrare le sue idee intorno ai destini di Roma, quando la città eterna fosse stata libera.
       Egli pretendeva che i romani, in forza della costituzione del 49, scosso il giogo papale, ridiventassero padroni assoluti delle sorti loro. “Squarciato il velo lugubre, che avvolse Roma per dieciotto anni (ricordo le parole), non dee più avere alcuna efficacia quanto è avvenuto finora, perciò si tratta di un periodo di governo illegittimo, imposto e mantenuto dalla violenza, contro la volontà del popolo sovrano; e i romani, fatti liberi, ripigliano senz'altro, nella identica forma, quello stato di diritto, in cui era l'assemblea elettiva, quando essa fu sciolta dalla forza brutale”.
       "Se poi i romani (soggiungeva), invece di serbar fede al regime repubblicano, aderiranno liberamente alla monarchia, e decideranno di fondersi nella rimanente Italia, essi potranno bensì farlo, ma senza imposizioni da parte di chicchessia. E se al contrario proporranno agli italiani di aggregarsi alla repubblica romana, toccherà agl'italiani vedere se sia o no il caso di accettare”. E a lungo spaziò nel campo di questa sua prediletta utopia.
       Conversava pacato, pronunciando la frase incisiva con semplicità, senza enfasi, provocando volentieri la discussione, incoraggiando alla risposta. E però non mi sentii impacciato ad opporre, sebbene la fama e la vista dell'uomo mi intimidissero, che durante quel periodo illegale della vita di Roma, l'Italia avesse pure creata una storia, e che l'organismo nazionale italiano avesse acquisiti dei diritti, ai quali anche Roma, per quanto eccelsa, non poteva sottrarsi. Nè fui molto imbarazzato a propugnare le idee apprese di fresco in America, ov'era stato abbagliato dai trionfi della più esagerata iniziativa personale, mentre il Mazzini mi adduceva incontro il collettivismo, che vale ad accrescere, a suo dire, il potere dell'individuo.
       Queste e altre dissonanze, che qui, già s'intende, accenno di volo, nulla tolsero alla mia grande ammirazione per lui, a causa dello scintillio della parola, lo slancio del sentimento, l'acutezza delle osservazioni, la vastità della dottrina. Intorno a qualsisia argomento, il più semplice, il più inatteso, il meno teorico, perfino in agricoltura, in geografia, in amministrazione locale, egli aveva concetti esatti, e ne discorreva con tanta competenza, come se vi avesse dedicato uno studio speciale; e tutto ciò accompagnava con aneddoti arguti, con ricordi vivaci di luoghi e di persone, che senza rendere meno seria la discussione, riescivano a farla piacevole e interessante.
        Nonostante l'aspetto ascetico, l'età avanzata, e l'abito severamente abbottonato fino al cravattone nero, che gli fasciava il collo, quando parlava animatamente con quel sorriso fine, con quel lampo negli occhi, con quei modi affabili, che verso le signore rasentavano la galanteria, Giuseppe Mazzini diventava irresistibile.
        Due mesi dopo, ai primi di settembre, altri atleti del pensiero incontrai riuniti al Congresso internazionale della pace, in Ginevra; ma nessuno mi colpì come il grande agitatore italiano. Eppure da ogni parte del mondo erano colà convenuti i suoi emuli più eloquenti, i più convinti banditore del verbo democratico e della fratellanza dei popoli.

        Quella gita a Ginevra si connette anch'essa tanto intimamente con la mia partecipazione ai fatti dell'Agro romano, che devo dire perché e come la impresi.
        Ridottomi a casa da Londra dopo alcune settimane, trovai il movimento popolare per l'acquisto di Roma non solo iniziato, ma anche molto avanzato. Garibaldi aveva percorse le provincie dell'Italia centrale, salutato ovunque dal grido "O Roma o morte", aveva accolti gl'inviti dei comitati rivoluzionari, rivolgendo vivissimi incitamenti, e, ciò che più importa, aveva distribuiti gli uffici ai suoi luogotenenti, e assegnati loro i posti. Già le prime avvisaglie erano scoppiate sui confini. Io mi preparavo quindi a recarmi laggiù, obbedendo al mio fato, quando fu bandito il Congresso internazionale della pace, al quale Garibaldi, pregato, accettò d'intervenire. Spinto allora dal desiderio d'incontrarmi con lui, e di conoscerne le intenzioni, assai più ancora che da quello di ascoltare le dissertazioni de' congressisti sui problemi umanitari, andai a Ginevra in compagnia di Giuseppe Missori, e di Gustavo Viola.
        Giuseppe Missori appartiene alla storia, ed i lui non dico nulla. Gustavo Viola, di opinioni moderate, era legato a me di affetto vivissimo sin da quando, insieme con Giulio Vigoni, Norberto Del Mayno, Rinaldo Taverna, Luchino Dal Verme, Alfonso Visconti alari, Diego Melzi, i fratelli Scala, i Caccianino, Alberto Corbetta, Cesare Giannotti, Angelo Rasini, Pietro Morelli di Popolo, soprannominato sin d'allora beccassin, Centurione, e tanti altri nostri coetanei, portavamo le spalline nei reggimenti delle guardie. Egli è lo stesso Viola, che nel gennaio del 1857, giovane di ventidue anni, sfidò l'ufficiale austriaco Waltzel in seguito a un diverbio nel teatro alla Scala, e fu ferito in quel duello, rimasto celebre nei ricordi patriottici di quel tempo.
       A Ginevra ci stringemmo attorno al generale, che si compiaceva in mezzo ai fidi compagni, e scrutandone la mente nei colloqui familiari, indovinammo in lui il proponimento di proseguire deliberatamente nell'impresa di Roma; e così fu da noi raggiunto quell'intento, che ci aveva spinti fin là.
       Le dotte adunanze poi del congresso della pace c'interessarono e ci edificarono non poco. Solo ci parve eccessivo lo zelo di quegli oratori, che nel calore della discussione poco mancò non si accapigliassero, mentre invocavano solennemente la concordia universale. Ma pur troppo il buon effetto morale svanì presto nella bisca di Saxon, ove ci soffermammo prima di rivalicare il Sempione, facendoci miseramente spennacchiare.
       L'arresto di Garibaldi, e la sua relegazione a Caprera, non raffreddarono gli animi nostri; chè anzi, facendosi sempre più incalzanti le voci di moti imminenti, su la fine del settembre mi recai anch'io a Firenze, per prendere il mio posto di combattimento, e affiatarmi con i membri del comitato centrale di soccorso, e della società democratica romana.
       Il Comitato Centrale, presieduto dal marchese Pallavicini, e composto di Crispi, Cairoli, Laporta, Oliva, De Boni, Miceli, Bertani, Guastalla, era, per dir così, l'intermediario ufficiale fra la insurrezione romana, il governo e il paese. Nel paese manteneva viva l'agitazione con i proclami, con la propaganda dei sottocomitati sparsi in ogni parte del regno allo scopo di raccogliere soccorsi; presso il governo adoperava la sua influenza, a fine di piegarne la politica e favorir gl'intenti della cospirazione; su gl'insorgenti di Roma e su le bande dell'Agro romano aveva assunto una specie di alto patronato, intervenendo direttamente nei loro consigli e nei loro atti col mezzo di amici e di agenti speciali. In breve, il comitato centrale aveva acquistato una importanza non indifferente, e anch'esso oramai pesava sui destini della nazione.
       La Società democratica romana, invece, costituita di non pochi dei fuorusciti romani più noti, il conte Michele Amadei, Mattia Montecchi, Filippo Costa, Angelo Perozzi ed altri, corrispondeva di continuo con il Comitato d'insurrezione di Roma, che era sua emanazione, gl'inviava i bollettini redatti dall'Amadei, che recavano ai patrioti le notizie, gl'incitamenti, le promesse del paese; coadiuvava il comitato centrale, e gli agevolava i modi per mandare a Roma sussidi di uomini, di armi, di denari.
       Degli altri comitati, che ebbero vita in quell'epoca, e delle vivaci polemiche, cui allora diedero luogo, io non ne so nulla.
       Avvistomi ben presto che Roma era il centro di tutto il movimento, e che ad essa, più che agli assembramenti dell'Agro romano, eran volti gli sguardi, d'Italia, perché dall'insurrezione dei romani dipendeva il successo, ottenuto sul passaporto il "visto” della legazione di Spagna, incaricata degli affari pontificii a Firenze, il 3 di ottobre mi diressi anch'io a Roma. E anch'io partii con il mandato, come tutti coloro che andavan laggiù, di ripetere a Francesco Cucchi, cui mettevan capo le fila della cospirazione, che gli sforzi per introdurre le armi in città si sarebbero continuati indefessamente, nonostante le difficoltà grandemente accresciute dacchè il governo pontificio era su l'avviso, e di raccomandargli, che in qualunque modo, con qualunque mezzo, venisse iniziata una sommossa, per fornire in faccia all'Europa il pretesto agli italiani di intervenire con le truppe regolari a ristabilire l'ordine nella città: raccomandazione di cui il Cucchi aveva tanto intronate le orecchie, che quando io gliela ridissi, egli esclamò stizzito: “oh, ci si provino un po' loro!”
       Dopo le frottole, che facevano il giro dei capannelli fiorentini, io mi aspettavo di trovar Roma sossopra; e però con molta meraviglia guardavo ai romani, che accudivano, con la calma abituale, alle loro faccende, e ai forestieri, che visitavano tranquillamente, con il solito cicerone, i soliti monumenti. Ciò, del resto, era naturale, chè le masse ignoravano quanto già si preparava, e non ancora la rivoluzione era incominciata. Solo gli zuavi, con la arroganza del contegno, imprimevano una certa perturbazione alla fisonomia tranquilla della città.

       Cucchi, di cui andai in cerca non appena fui giunto, forse accrebbe anch'egli nell'animo mio questa impressione di calma, perchè aveva l'aria del più pacifico cittadino della terra, le mille miglia lontano dal meditare una cospirazione. In verità, non ho mai visto un uomo più padrone di lui, più impassibile in mezzo ad ogni genere di pericoli e di emozioni, più freddo quand'anche dovesse cascare il mondo. Garibaldi aveva avuto buon naso nel dare incarico al gentiluomo bergamasco di ordir la trama e di capitanare la insurrezione di Roma.
       Cucchi si era recato a Roma ai primi di settembre, e subito aveva dato mano all'opera; nè gli agenti papalini, durante quel primo mese, riconosciuto regolare il suo passaporto, gli diedero gran fatto molestia.
       Solo verso il 15, egli fu chiamato a Montecitorio, sede allora degli uffici di polizia, ma semplicemente perché si bramava conoscere “un così eminente personaggio”; oh, non per altro! Monsignor Randi, vice-camerlengo di Santa Chiesa, e ministro di polizia, prelato mondano ed elegante, che occupava le stanze oggi del presidente della Camera, addobbate con una certa tappezzeria alla cinese, lo accolse con urbanità squisita. Senza escire di una linea dalla più stretta correttezza, senza una sola allusione, che mancasse di tatto, gli chiese dello scopo del suo soggiorno in Roma; e alla risposta del Cucchi, che ivi lo avesse tratto l'amore dei viaggi, dell'arte e dell'antichità classica: egli aprì subito una fine discussione su l'argomento. "Ma lei (concluse) è collega ed amico del deputato Asproni, il quale è pure amico dei miei amici”; e nominò parecchi prelati. "Abbiamo dunque dei vincoli comuni, noi due!” E su questo tono di garbatezza, anzi con un'ombra di cordialità, finì il colloquio. I duellanti si eran misurati, trovandosi degni l'un dell'altro.
       Il 30 di settembre, di buon mattino, Cucchi, che fiutato il vento infido, allestiva già le valigie, ebbe una seconda chiamata. Ma al commissario, che gliela intimò all'Hotel d'Allemagne con modi burberi, innanzi tutto egli diede una lezione di galateo, poi rispose, che se il ministro di polizia lo riceveva subito, bene: se no, no: chè non voleva perdere il treno mattutino per Firenze. E poiché monsignor Randi dormiva ancora, Cucchi se n'andò, e non ebbe più occasione di imbattersi nel cavalleresco avversario.
       Se n'andò, ma per tornare due giorni dopo con altro passaporto, sotto il nome di Cesare Filippi, dalle iniziali concordanti con le sue, affinché le marche della biancheria non tradissero il sotterfugio. Presentò a Montecitorio il nuovo passaporto, secondo la prescrizione, ma si guardò bene dal ripassare per riaverlo indietro, incominciando da quel momento la vita alla macchia, che egli menò poi finché rimase in Roma.
       Ogni notte mutava alloggio: o su alla Trinità de' Monti accanto la chiesa, dalla signora Placidi; in via Sistina, o in piazza del Pantheon su l'angolo della salita dei Crescenzi; nel vicolo dei Soldati, o in via della Frezza; non di rado sotto un albero in via Merulana. E così pure ogni giorno mutava il posto di convegno con gli amici. Ora li accoglieva in una di queste sue abitazioni; ora in via della Croce, sopra il ristoratore Bedeau, presso la vecchia signora Acquaroni, che custodiva in casa tutto un arsenale, degna madre di quel Memmo Acquaroni, ferito la sera del 22 alla Vigna Matteini, trascinato in prigione, mal curato, condannato a vent'anni di ergastolo; ora li adunava presso la famiglia Petrarca, di cui la signora Teresa faceva gli onori con vero sentimento patriottico; ora in altri posti, che più non ricordo. Quando non era il caso di discutere interessi gravi, ei fissava il ritrovo nelle basiliche, nei musei, all'aperto. Vi si barattavano quattro parole, si scambiavan ordini, notizie, incoraggiamenti, e ognuno poi andava pei fatti suoi: i romani alle loro occupazioni, a prender concerti con i soci, a dar loro ragguagli intorno alle probabilità dell'arrivo dei fucili da Terni, meta di ogni divisamento, speranza ardentissima di tutti; gli altri, il più spesso a diporto, in giro per i monumenti e le antichità.
       Cucchi non esitava dinanzi a qualunque rischio per raccogliere una informazione, per raggiungere un intento. Penetrò perfino in castel Sant'Angelo, insieme con Giovannino Cairoli, mercè il favore di un veterinario militare, che era di casa in piazza di Ponte. Questi mise Cucchi e Cairoli in relazione con quattro sergenti di artiglieria, due dei quali cedettero le uniformi, mentre gli altri due li introdussero e li guidarono per i meandri della mole Adriana. Giovannino pigliò appunti topografici; Cucchi notò sopratutto la immensa provvista di polvere, che lo indusse a dissuadere i romani dal proposito di dar fuoco alla polveriera, il cui scoppio avrebbe schiantato buona parte della città.
       Con la guarnigione di castel Sant'Angelo il Cucchi mantenne poi frequenti rapporti, e però seppe sempre quanto si macchinava lì dentro: come, del resto, egli seppe sempre dagli amici e dai parenti degli ufficiali, degli impiegati o dei prelati, quanto avveniva o si deliberava in Vaticano, in Montecitorio, nel ministero della guerra.
       Durante quella sua esistenza randagia, specialmente dopo il 22, Cucchi venne più volte pedinato, fermato, interrogato; ma sempre se la cavò mediante la sua meravigliosa presenza di spirito. Cambiava ogni giorno di abiti e di cappello, aveva financo fatto sagrifizio del noto e lungo suo pizzo: ma non egli poteva velare il lampo de' suoi occhi penetranti, nè correggere la malizia del suo beffardo sorriso!
       Una sera, in via della Frezza, arrestato da una pattuglia, e richiesto dei ricapiti: "io sono il cavalier Giulio Belinzaghi, banchiere di Milano; favoriscano meco in vettura, e all'albergo della Minerva mostrerò loro le mie carte”, rispose con la flemma usata. La fisonomia di un passante gli aveva lì lì suggerito quel nome; alla Minerva, già s'intende, avrebbe poi saputo bene scovare uno stratagemma per mettersi in salvo, anche a rischio, magari, di saltare dalla finestra. Ma quella sera la polizia fu paga delle sue arrischiate affermazioni.
       Altra volta Cucchi si avvide di esser pedinato da tre figuri. Girò mezza Roma, a piedi e in carrozza; si fermò nelle chiese e nelle gallerie: ma loro sempre alla calcagna. Entrò finalmente dal libraio Spithover, in piazza di Spagna, per meditare una via di scampo, esaminando, distrattamente, le opere illustrate, che erano sul banco: e loro sempre duri dinanzi alla invetriata. Mentre li sbirciava con la coda dell'occhio, vide passar per la piazza l'Eligi, colonnello dei gendarmi, in tenuta; ed egli, lesto, preso un librone sotto il braccio, corse difilato ad affrontarlo con la destra al cappello:
       - Scusi, signor colonnello, vorrebbe aver la compiacenza d'indicarmi la salita di San Bastianello?
       - S'immagini (risponde cortese l'Eligi), eccola a pochi passi; ma venga con me, e lo metterò per la strada.
       E tutti due s'incamminano da vecchie conoscenze.
       - Il signore è forastiere; piemontese, direi dall'accento.
       - No, son lombardo.
       - Ah, lombardo! E vedo che si diletta di arte.
       - Oh, sì! Mi trovo a Roma per cotesto; ma Sa? Oramai me ne andrò, perché non ci si può più vivere, fra tante turbolenze di faziosi.
       - Eh, ha ragione! cosa vuole? poca canaglia suscita molto chiasso; ma non dubiti, la metteremo al dovere, non dubiti. Ecco la sua via; ho piacere di riverirla.
       - Mille grazie della cortesia, e altrettanto!
       È facile intendere che i tre figuri, vista la intimità dell'individuo sospetto con il colonnello dei gendarmi, si erano già dileguati.
       Un giorno finalmente, scendendo le scale dei Petrarca, dianzi nominati, incontrò i birri che salivan su a fare una perquisizione, e che lo fermarono bruscamente, interrogandolo. E anche allora se la sbrigò, grazie al suo mirabile sangue freddo.
       Con tutti gli altri molti, romani o non, oltre il Cucchi, che esercitarono azione sui moti di quel tempo, io non ebbi che occasioni fugaci d'incontrarmi. Non trovando però nomi nel mio conciso diario, cito quelli per caso, che la memoria lontana mi suggerisce: Nino Costa, il noto paesista, che fu tanto cortese con me, allora nuovo alla città, e però bisognoso di guida; Ernesto Ranucci, il rappresentante delle case importatrici dei tabacchi, il quale serbava a disposizione degli insorgenti i suoi magazzini presso la stazione ferroviaria, ove si dovevano depositare i fucili, se non fosse stata sciaguratamente tagliata la ferrovia presso Orte; l'ingegnere Pietro Poggioli, membro attivissimo del comitato, e dal Cucchi soprannominato il "tutto fatto", perché quasi sempre era così uso a rispondere; l'avvocato Alessandro Carancini, che, in seguito, e come deputato al Parlamento, e come consigliere del Comune, tanta parte ebbe e ha tuttora nei pubblici negozi. Altri moltissimi, e dei migliori fra' romani, io dovrei rammentare; ma, ripeto, io scrivo soltanto ciò di cui mi consta personalmente. In quanto poi agli italiani del settentrione, senza dire di qualche centinaio di giovani reclute, sfrattate dalla polizia durante l'ottobre, io ricordo allora in Roma: il colonnello Bossi, di Pavia, che per deludere la vigilanza dei birri, e giustificare alla meglio i suoi maneggi nei rioni popolari, aveva aperto, con non poca spesa, un negozio di formaggi in via Colonna, ove oggi è lo spaccio dei tabacchi; l'ingegnere Urbano Pavesi, pure di Pavia; il Cella, l'antico luogotenente dei bersaglieri volontari, ferito al Caffaro, che era in città con il suo conterraneo del Friuli e suo amicissimo, l'ingegnere Herter; l'ingegnere Alessandro Perego, di Mantova; il Tolazzi, che trovai all'albergo d'Alemagna, ove scesi anch'io, e che, espulso di lì a poco, andò a raggiungere l'Acerbi a Torre Alfina, e, infine, Giovanni Cadolini, inviato dal Comitato Centrale per affiatarsi con la giunta d'insurrezione, e consegnarle parecchie migliaia di lire.
       Il Cadolini, il quale aveva stanza all'albergo Cesari, nelle ore di ozio, che io passai con lui, mi narrò di aver assistito a una seduta plenaria della giunta, nella cui sede fu condotto con ogni sorta di precauzioni, e cui espose lo scopo della sua missione. Aggiunse di essere rimasto non poco scoraggiato udendo, che di sicure e pronte non si possedevano in tutto che un migliaio di alabarde e alcune bombe; di aver quindi espresso franco il suo parere, che non era possibile tentar la rivoluzione, e di aver severamente criticato, tacciandola d'improntitudine, l'agitazione prematura, la quale mettendo in su l'avviso il governo papale, rendeva arduo oramai procacciarsi le armi indispensabili. Così discorrendo, egli aveva finito per bisticciarsi con i componenti la giunta; e quando io arrivai in Roma, egli era incerto su la risoluzione da prendere.
       Ma di lì a poco la polizia sciolse il nodo, invitandolo a sfrattar subito dal territorio di San Pietro. E gli si recò allora alla Spezia, donde ritirò e menò a Terni sessanta mila cartucce, concessegli dal Ministero della guerra, le quali furon poi tirate in ballo, come prova evidente di connivenza con i rivoluzionari, dagli oppositori del Rattazzi, durante i dibattimenti parlamentari che tennero dietro alla campagna dell'Agro romano.
       Al giudizio chiaro e ponderato, ma decisamente pessimista, del Cadolini, faceva spiccato contrasto l'ottimismo ideale di Enrico e di Giovannino Cairoli, che abitavano al Corso, n. 117, di faccia a San Carlo dei Lombardi, in casa del signor Batti, ispettore della compagnia di assicurazione di Venezia. Anch'essi percorrevano la città, in attesa degli avvenimenti, da semplici forestieri; e quando io li incontravo, ed essi mi esprimevano, con la gaia spigliatezza di giovani ai quali erano ignote le ansie del dubbio, e il timore, la fiducia nella riescita della impresa, a me si rinfrancava sinceramente il cuore. Strinsi loro la mano, l'ultima volta, su la gradinata di San Giovanni Laterano, loro chiedendo imbasciate per Benedetto, che avrei riveduto l'indomani a Firenze. E me le diedero ma non le potei ricambiare! Eroi di quello stampo assai di rado compaiono su la terra; e l'ultimo saluto di Enrico io lo serbo riposto nel cuore, come la cosa più cara che io m'abbia.

       Ripartivo per Firenze a fine di sollecitar nuovamente la spedizione delle armi, impetrar quattrini, e tornarmene subito a Roma. Quanto alle armi, il comitato stava provvedendo con la massima alacrità. Ma quanto a quattrini, poichè mancavano affatto, mi si disse chiaro, che se ne volevo, dovevo cercarmeli; e però mi si mandava in Lombardia a batter cassa, munito della lettera seguente:

       “Firenze, 7 ottobre 1867.
       "Egregio Cittadino,

       “Non abbiamo a dirvi l'urgenza dei soccorsi agl’insorti romani. La vittoria sta nel rapido agire, e quindi l'obbligo nostro consiste nel rapido aiuto; per ora unicamente di denaro. V'incarichiamo di raccogliere e di costituire Comitati di soccorso, ove non sieno già costituiti. Non raccomandiamo zelo e sollecitudine; conosciamo il vostro intelligente ed operoso patriottismo, e quello dei benemeriti cittadini, ai quali vi dirigeste per incarico nostro.
       "Pel Comitato centrale
       "BENEDETTO CAIROLI.
        All'egregio cittadino Giulio Adamoli”.


       Andai di mala voglia, e non raccolsi quasi nulla. I sottocomitati, organizzati da un pezzo in Lombardia, facevano magri affari, nè io, certo, avrei saputo galvanizzarli. I democratici avevan già offerto il loro obolo; i moderati non ne volevan sapere, finché non fosse noto che il ministero approvava le collette. Un giorno, al caffè Pini, sotto i portici di Varese, mi affannai a persuadere alcuni villeggianti che il governo, sebbene non potesse palesemente appoggiarci, non aspettava altro che l'annuncio della insurrezione per intervenire e occupar Roma militarmente, sotto il pretesto di ristabilir l'ordine; che quindi bisognava far presto, non perdere un minuto, prevenendo lo sbarco dei francesi, chè solo dinanzi al fatto compiuto Napoleone III ci avrebbe pensato due volte prima di muoversi; e che infine, per provocare cotesta insurrezione, desiderata dal governo e da tutti i partiti, occorressero denari, denari, e sempre denari.
       Ma la calda perorazione non commosse nessuno. D'altra parte, l'incarico di dissuadere i giovani dall'accorrere alla frontiera pontificia, ove mancavano armi e vettovaglie, cui il comitato non sapeva più come provvedere, non sortiva miglior effetto. Non uno di quegli indiavolati, decisi a partire, mi dava retta....
       Indispettito del fiasco, e seccato del diluvio di domande che mi si facevano su quanto non si concludeva in Roma, piantai apostolato e questua, e scappai.
       Scappai prima a Belgirate, il 10 ottobre, a dar le notizie dei figli a donna Adelaide Cairoti, e a ricevere le sue commissioni, che essa infatti mi fece tenere a Besozzo, il giorno dopo, dal suo fidato barcaiuolo, il Leonino, accompagnate da una lettera, di cui mi piace citare un brano:
       “Ecco che secondo le nostre intelligenze qui le compiego la lettera per il mio Benedetto, affidando a Lei, ottimo amico, ben più che a queste povere linee, l'espressione di que' voti e sentimenti ardentissimi, con cui l'accompagno presso quel mio dilettissimo ed ottimo figlio, e presso que' due altri pure miei sì cari, benedicendola come loro prezioso secondo fratello, con quei voti pure materni, con quella affettuosissima ammirazione, che Ella vorrà leggere appieno nella convulsa anima mia”.
       E chiudeva, dopo calde raccomandazioni per Garibaldi e per mio padre:
       "Ella li abbraccerà per me, i miei tre adorati assenti, e mi sentirà con essi fra loro, con que' voti ardentissimi, con quell'indefinibile contrasto d'affetti, che Le compendio, egregio cittadino ed amico, in un materno amplesso”.
       Povera madre! Poteva mai immaginare, scrivendomi queste parole, che io avrei trovato laggiù, dei due suoi figli, uno spento, l'altro prigioniero e già condannato, per le piaghe insanabili, alla morte!

       Partii finalmente da Varese, il 14, munito di passaporto, che mi venne prestato da un buon inglese di Belgirate. Oramai, senza un così fatto talismano era follia sperar di penetrare in Roma.
       Feci sosta a Milano, ove avevo dato convegno a parecchi commilitoni garibaldini, sempre con lo stesso fine, e ove mi toccò un nuovo disinganno per ragioni affatto opposte a quelle dei villeggianti di Varese. Anch'essi, non escluso l'amico Ettore Filippini, che tutti sanno quale inflessibile radicale egli sia ancora, avevano deciso di astenersi, perchè i moti romani non assumevano carattere recisamente repubblicano, e perchè Garibaldi, invitato a dichiarare se fosse pronto ad affrontare anche le armi nazionali, qualora gli si frapponessero nel cammino, non aveva risposto. Mi raccontarono che la decisione era stata presa dopo lunghi dibattiti, sia presso il patriota Casanova, sia nell'ufficio del giornale L'Unità Italiana, organo del partito d'azione, e devoto al Mazzini; ma che alcuni, tra i quali il Missori e Carlo Antongini, avevan dissentito, ed erano partiti per raggiungere Garibaldi. Mi accompagnarono alla stazione, e salutandomi con ogni sorta di auguri, mi lasciarono andare, deplorando, che la rigidità dei convincimenti vietasse loro di seguirmi. Peccato; chè Garibaldi aveva bisogno dei suoi fedeli e provati ufficiali, ben più che non il comitato dei loro denari!
       Trovai infatti, arrivando il 15 ottobre a Firenze, la situazione delle cose decisamente assai migliorata. Il ministero, in que' giorni, inclinava di bel nuovo agli ardimenti, e apriva i cordoni della borsa. Quando versai quel po' di denaro, che avevo raccolto con tanti stenti, vidi un sorriso di compassione errare su le labbra dei membri del comitato: nuotavano nell'oro; Luigi Cucchi, la sera stessa, portava a Roma trentasei mila lire. La serenità dei volti indicava poi, che si preparava ben altro. "Ah, se a Roma si decidessero a far presto!” udivo ripetere intorno a me. Senza dubbio le azioni bancarie del comitato romano, in quell'ora erano al rialzo.
       Conduceva le pratiche co' ministri il Crispi, l’agente principale, in Firenze, della cospirazione. Egli dirigeva, forte dell'autorità sua, le relazioni con i patrioti di Roma, con i capi delle bande, con i sottocomitati delle province. Sostenuto da una fede incrollabile, alimentava gli entusiasmi, abbatteva i disinganni, affrontava qualunque ostacolo con la energia del suo carattere. Giurava e sacramentava impossibile un nuovo sbarco de' francesi; e interpretando a modo suo le notizie di Roma, come aveva interpretate quelle di Sicilia al tempo della spedizione dei Mille, riusciva trasfondere, anche nei più sfiduciati, gl'immutabili convincimenti del suo animo risoluto. Ai ministri non concedeva requie, strappando promesse, e impetrando, in mezzo ai loro continui tentennamenti fra le seduzioni del favore popolare e il timore di complicazioni estere, sussidi materiali e morali. A lui si doveva l'ultima favilla di audacia ministeriale, così vicina a spegnersi!
       Tutto il giorno seguente l'orizzonte si mantenne roseo. Crispi mi annunciò che dovevo partire immantinenti con un messaggio e altri denari per Cucchi. Gli osservai che non avevo ancora ottenuto mi fosse regolarizzato il passaporto alla legazione inglese, e però la mia partenza fu rimandata all'indomani. La sera lo accompagnai al ministero degl'interni, e mi parve ne uscisse con l'aspetto di uomo soddisfatto.
       Ma l'indomani il vento cambiò, volgendo alla burrasca. La notizia, pur troppo preveduta dai più cauti, e divulgatasi in un baleno, ossia che l'intervento francese era stato deciso, mutò di nuovo, e questa volta per sempre, le intenzioni del gabinetto a nostro riguardo.
       Crispi, lusingandosi ancora di strappare una qualche promessa, che io avrei dovuto recare agl'insorgenti, mi ricondusse a palazzo Riccardi, e lasciatomi nell'anticamera entrò dal Rattazzi. Ma quando, dopo il lungo colloquio, mi venne incontro, la faccia rannuvolata e il silenzio iracondo mi fecero tosto accorto dell'insuccesso.
       Egli infatti non mi parlò più nè di denari, nè di messaggi ufficiali od ufficiosi; insistette, con veemenza, su la necessità d'indurre i romani a tirare sia pure non più che dieci schioppettate, a qualunque costo, subito; m'ingiunse di andar via la sera stessa, dichiarandomi, che mi avrebbe accompagnato sino al confine.
       Passai a pigliarlo a casa sua, e insieme partimmo con il treno della notte.

       La mattina del 18 ottobre, dopo una sosta a Terni per intenderci con Nicola Fabrizi, proseguivamo alla volta di Orte, quand'ecco, prima del ponte, il convoglio arrestarsi improvvisamente. Mentre, balzati fuori dai vagoni, c'interroghiamo a vicenda, ci si fa dinanzi, sbucando non so donde, seguito da un manipolo di volontari disarmati, il barone Franco Mistrali, avviluppato in una enorme pelliccia, con un enorme berrettone di pelo sul capo, e narra concitato che la linea è stata tagliata fra Orte e Passo Correse, e smania e urla al personale di servizio, perchè il treno retroceda precipitosamente. Crispi lo investe e gl'impone, come meritava, il silenzio; ordina al capotreno di aspettarlo, e si avvia, con Cipriani, me e i pochi altri, che gli erano accanto, di là dal ponte, per discorrere con il maggiore Ghirelli, che si vedeva agitarsi in mezzo a uno stuolo di armati su la sponda destra del Tevere.
       Il Ghirelli confermò il fatto della rottura dell'argine ferroviario; e mostrandoci i suoi uomini che s'imbarcavano, e dicendoci di volerli condurre giù pel fiume a raggiunger Menotti Garibaldi, saltò anche lui in un battello, e via.
       Commentavamo la sua partenza, risalendo verso il ponte, quando un fischio prolungato si sprigionò dalla locomotiva, e scorgemmo il convoglio filare su Narni, senza curarsi più che tanto di noi. Se Crispi avesse potuto, in quel momento, aver nelle mani il Mistrali, certo lo avrebbe conciato pel dì delle feste. E a ragione; chè anzi ben altra e più esemplare punizione egli avrebbe allora meritata, come uno degli autori dell'accidente più nefasto della campagna, la interruzione della strada ferrata, fatta eseguire per lo appunto (come sapemmo dopo) dal Mistrali e dal Ghirelli, senza uno scopo, senza una scusa. É dovuto a quella interruzione, se, nel momento più importante, venne a mancare ogni comunicazione fra i cospiratori di Roma e gli aiuti del di fuori, se quindi non giunsero a destino le casse dei fucili di Terni, e i patrioti romani dovettero tentare inermi la sollevazione. La causa prima e vera, per cui abortì la sommossa di Roma, risale, per concatenazione logica e rigorosa dei casi, alla rottura della ferrovia fra Orte e Passo Corese.
       In quegl'istanti però, mentre maledicevo al contrattempo, che mi cagionava un indugio noioso, il quale fu poi, per me, irrimediabile, non sospettavo neppur lontanamente, che quel fatto dovesse avere le funeste conseguenze di cui ebbi nozione quando arrivai a Roma.
       Rimasti sul ponte, fra le barche che tiravan via da una parte, e la vaporiera che ci piantava dall'altra, ci demmo attorno in cerca di ripieghi, e per buona fortuna rintracciammo un ronzino, che Crispi inforcò, e sul quale si avviò a Narni, promettendoci di mandare un treno a rilevarci. Io, un passo dopo l'altro, me ne venni a Santa Liberata, ove trovai Gulmarelli, e un corpo di guardie doganali, che cortesemente mi fornirono di che rifocillarmi. Giunse finalmente il convoglio che mi portò a Narni, indi a Terni, ove già ci aveva preceduti il Crispi.
       Chi era Gulmarelli? Io non sono più in grado di rispondere a questa domanda. Il suo nome sta scritto in una pagina del mio giornale, senza una sola parola di aggiunta, come di persona ben nota; ma la mia mente non vi sa associare più la immagine nè il ricordo dell'uomo. Se egli vive, come gli auguro, e se legge questo libro, come auguro a me, mi dia, lo prego, sue nuove. Sono certissimo di rispondergli: "come? è lei Gulmarelli? Ma la conosco perfettamente, e pare impossibile che gli anni rendano tanto labile la memoria de nomi!” E chi sa, forse egli mi potrà dare anche ragguaglio intorno a un Mattief, che più tardi, la notte del 3 novembre, mi offrì ricetto nella stazione di Passo Correse, e rispetto a cui io mi ritrovo nell'identico caso di assoluta dimenticanza.
       Crispi ripartì per Firenze il 19. Essendosi fatto in capo che io potevo raggiunger Roma per questa via, mi vietò di seguirlo, e mi affidò a Mattia Montecchi, assicurandomi che merce sua, perché romano e pratico del paese, io avrei potuto superare ogni difficoltà. Ma presto il Montecchi stesso mi dissuase dal tentativo di penetrare in Roma dalla parte di terra, e alla mezzanotte pigliai anch'io il treno per Firenze, a fine di proseguire di là per Livorno e Civitavecchia.
       Giunto a Firenze viaggiando insieme con Carbonelli, vi udii le grandi novità, dell'arrivo di Garibaldi, e della dimissione del ministero Rattazzi. Intorno al generale si era creata subito una ressa indescrivibile: gli uni volevano spingerlo innanzi, gli altri rattenerlo. Egli, impaziente, intendeva partire per l'Agro romano la stessa sera del 20 ottobre; si lasciò indurre, non so come, a rimanere in città sino all'indomani.
       Il dopopranzo andai con Missori in casa Lemmi, ove Crispi ci lesse un telegramma di Cucchi, che annunciava di aver sospeso ogni moto nell'interno di Roma, e di aver ricevute notizie poco confortanti su lo stato delle bande, sparse per l'Agro romano. Mentre anche peggiori erano le voci, talune esagerate, che circolavano per la città e che raccolsi in una lettera inviata a mio padre il 21: "Cialdini incaricato di formare il nuovo gabinetto pare che declini il mandato perché Garibaldi ha respinte le sue proposte.... Anderà su un ministero reazionario che reprimerà ogni movimento colla forza.... La Francia tiene la flotta in Sardegna, minaccia di bombardare Napoli e di fare un colpo su Firenze se il governo italiano non distrugge le bande e rimette ogni cosa nello stato primiero.... Il dilemma che s'impone terribile e immediato è di cedere o di apparecchiarsi a una guerra disperata contro l’orgogliosa alleata...”. Passai quelle ore a Firenze, in mezzo alle ansie, alle agitazioni più vive e passionate.
       Infine, il 22 a sera, essendo quello il giorno dello scalo a Livorno del postale francese, partivo per imbarcarmi e ritornare a Roma, onde dare al Cucchi e alla giunta insurrezionale un minuto rapporto della situazione.
       Il piroscafo, sul quale salii, subito arrivato a Livorno, portava una brigatella di belgi, d'irlandesi, di francesi, che accorrevano a Roma, chiamati dalla urgenza del pericolo ad arruolarsi od a riprendere servizio sotto la bandiera del papa: questi ultimi, con le antiche loro uniformi; degli altri, parecchi eleganti e per bene, molti, come sempre accade, straccioni; fra essi però, notai facilmente che non regnava punto quell'entusiasmo espansivo da noi ben conosciuto. Pur non aprendo bocca, anch'io passai per un difensore dell'altare e delle sacre chiavi: non ci fu modo di evitare l'equivoco. Appena scesi a terra il mattino di buon'ora a Civitavecchia, corremmo tutti alla stazione ferroviaria, ove ci si annunciò, che a causa delle turbolenze scoppiate in Roma la sera antecedente, i treni ordinari erano sospesi; ma si formerebbe un treno speciale per i volontari stranieri allora sbarcati. Infatti, prima di staccare il biglietto, si esaminano passaporti, e ci s'interroga, se viaggiamo per servizio del papa; io non rispondo e passo.
       "Dunque la rivoluzione è incominciata, dunque in Roma si battono; arriverò in tempo anch'io, se questo maledetto convoglio vorrà camminare”: ripetevo fra me e me nel treno, con emozione sempre più viva. Non conoscendo la strada, che percorrevo la prima volta, tendeva di continuo l’orecchio, per udire il rimbombo del cannone e il rintocco delle campane; ad ogni curva della linea aguzzavo lo sguardo, per iscorgere un sintomo della battaglia: ma invano. Finalmente, sboccando sul Tevere, mi apparve Roma, ma tranquilla, silenziosa, ravvolta nella sua impassibilità solenne: alla stazione, l'omnibus dell'Albergo di Roma mi trasportò, come in qualunque altro giorno dell'anno, traverso le vie e le piazze spopolate; il signor Valenti, direttore dell'albergo, che io mi arrischiai interrogare con circospezione, mi rispose evasivamente, stringendosi nelle spalle. Poco dopo arrivò il Guerzoni, anch'egli alloggiato al Roma, anch'egli sotto altro nome e con passaporto di Malta; mi menò in camera, e mi disse dei tentativi falliti al Campidoglio, a piazza Colonna, alla caserma Serristori; della presa di porta San Paolo, per la quale si escì alla Vigna Matteini, ove, in cambio di fucili, furono trovati appostati i gendarmi papalini; di Ripetta, inutilmente occupata per tutta la notte dagl'insorgenti, che ivi aspettavano i fratelli Cairoli; di questi, finalmente, che non erano giunti, ma dei quali si prevedeva male, perché poco prima, dal terrazzo della casa dello scultore Lombardi, in via degli Artisti, ov' egli era salito con Cucchi, essendo impossibile uscir di porta del Popolo o andar su al Pincio, militarmente tenuti dalle truppe, si udivano distinti i colpi di fucile oltre via Flaminia. Di altro egli non sapeva dirmi nulla.
       Cucchi, che vidi più tardi, calmo, come se avesse passata la nottata in un salotto, e non ai piedi della gradinata del Campidoglio, sotto le scariche della guardia rinforzata, spediva messi da per tutto, a fin di conoscere la sorte toccata ai Cairoli; ma in quei frangenti non era punto facile venir subito e pienamente a capo del vero.

       Come ciò sia avvenuto, dirò più innanzi. Prima io voglio raccontar le peripezie malnote delle armi di Vigna Matteini. Quei fucili provenivano da Follonica, ove, in numero di ottocento circa, erano stati da un paio d'anni affidati a Niccolò Guerrazzi. Garibaldi li aveva messi a disposizione del comitato d'insurrezione, e il comitato, fattili ripulire, riparare e provveder di munizioni, ne aveva ordinato, nel settembre, l'imbarco notturno sopra una tartana, comperata a Livorno, che dal capitano marittimo Capocci, di Pisa, doveva essere condotta a Fiumicino.
       Ma, compromessa nella sua stabilità dal peso enorme delle casse, nascoste sotto uno strato di carbone, la tartana incontrò ogni sorta di traversie, e più volte, per più giorni, la si credette perduta. Bisognò riparasse a Portoferraio, e scontarvi la quarantena del colèra, poi a Civitavecchia, donde un ordine imperioso di Cucchi l'obbligò a ripartire, nonostante l'infuriar del vento. Arrivata a Fiumicino dopo molto ritardo, e oltrepassata la dogana, mercè la connivenza delle guardie, la tartana risalì il Tevere sino a Tor di Valle, sotto San Paolo. Qui un certo Antonio Musetti, che ne aveva avuto incarico dalla giunta, impressionato alla vista di una pattuglia di gendarmi, la fece senz'altro approdare, ne sbarcò le casse, e le seppellì frettolosamente nella sabbia, contrariamente al mandato, che era quello di spinger la tartana sin nei pressi di Ripetta, donde i fucili sarebbero stati introdotti in città, per alcune brecce nelle mura di villa Medici.
       Avvertito del contrattempo, il Guerzoni ne fe' subito parola a Benedetto Raffo, il quale, insieme con altri patrioti, escito di città la notte del 20 ottobre, tolse via dalla sabbia quante armi e munizioni gli fu possibile, e le trasportò parte a Vigna Matteini sopra il ponticello, parte in un grottone presso Tor di Valle. Ma lì altra sorpresa: mentre si dispongono le casse, in fondo della grotta, al chiaror delle fiaccole, ecco affacciarvisi i boari, soliti a pernottare colà; e il Raffo, perciò il segreto non sia tradito, rinchiude, insieme con i fucili, uomini ed animali, e fa tutti custodire a vista.
       I duecento fucili di Vigna Matteini caddero, come è noto, nelle mani dei pontificii la notte stessa del 22. Dei rimanenti, deposti nel grottone, venne fatta, non si è mai saputo da chi, denuncia alla polizia più tardi.
       A dir tutto in breve, le armi di Terni furono arrestate dalla interruzione della ferrovia fra Orte e Passo Corese, nè le poche, affidate ai Cairoli, andaron oltre i Monti Parioli: e quelle di Follonica, giunte all'ultimo momento, parte andarono perdute nel Tevere, parte caddero nelle mani de'nemici. In conclusione, gli insorgenti iniziaron la sommossa con poche rivoltelle, che alcune patriottiche signore, come Luisa Morlacchi e Adele Narducci, avevan recate in città, sotto i cuscini di un ampio carrozzone prelatizio. Non è quindi da meravigliare se il tentativo della sera del 22 ottobre degenerò in un tafferuglio, che fu rapidamente sedato.

       Quando, dopo il tristissimo mio arrivo, calaron le tenebre, Roma, muta e deserta, pareva del tutto una città abbandonata, perchè i cittadini eran tappati nelle case, e le truppe concentrate a porta del Popolo da un lato, al Vaticano dall'altro. Io, indispettito di esser mancato ai fatti del giorno innanzi per l'indugio di una notte sola, dolorosamente colpito da tanti sciagurati avvenimenti, dei quali in poche ore avevo già avuto notizia, mi ero appena ritirato nella mia camera, quando, proprio a me accanto, avveniva l'arresto di Luigi Cucchi, fratello di Francesco, che certo non contribuiva a mettermi animo.
       Luigi Cucchi, dopo una prima sosta a Roma, era tornato a Firenze, donde, il mattino del 15, era ripartito insieme col Rossi; e avendo avuto la fortuna di passar prima che la ferrovia fosse stata interrotta, aveva potuto consegnare al comitato insurrezionale la somma, di cui ho detto, e il seguente biglietto in cifra:

       “A qualunque costo, e senza perdere un istante, fate. Non contatevi: le sorti del paese dipendono da voi. Fate le fucilate anco in dieci.
       “FABRIZI”

       Sebbene Luigi Cucchi viaggiasse con passaporto spagnuolo, che lo qualificava per mercante di granaglie, pure monsignor Randi, il 19, lo chiamò a Montecitorio e gl'impose, per suo bene, com'ei soggiunse, di abbandonar la città. E Luigi Cucchi, di rimando, gli affermò esser desiderosissimo di togliersi a quell'ambiente torbido, e affatto deciso di partire l'indomani.
       Partì difatti, in carrozza, solo, ma per giungere non oltre Cantalupo, la sera dei 20, abboccarsi coi fratelli Cairoli, rientrare in Roma pel 21 prima di notte, e partecipare ai moti del 22.
       La sera del 23, rincasando, fu avvisato dal portiere che i birri lo aspettavano su per le scale. Ei proseguì, mostrando la più assoluta indifferenza, e rientrò con essi nella sua camera, protestando di non saper nulla di nulla. I gendarmi, dopo aver da lui accettato un generoso rinfresco, lo tradussero nelle carceri di Montecitorio, situate precisamente nell'emiciclo dietro la fontana.
       Malgrado le sguaiate insinuazioni di un agente provocatore, egli non tradì sè stesso, nè fu tradito o compromesso dall'Acquaroni, colà menato gravemente ferito, nè dal Cariolato, arrestato anch'egli, e insieme con l'Acquaroni cacciato nello stesso camerone del Cucchi. Il giorno dopo i gendarmi lo accompagnarono sino al confine, non rifinendo di ringraziarlo della sua liberalità a riguardo loro. Per poco che avesse insistito lo seguivano sino a Firenze.
       Luigi Cucchi occupava, all'Albergo di Roma, il numero 98; io ero all'attiguo numero 99. Udii pertanto tutto il dialogo dell'arresto, e tenni dietro a tutto il tramestio de' poliziotti nel frugare ch'essi fecero le robe dell'amico; e confesso, che al pensiero di vederli probabilmente entrare anche da me; e di dover quindi declinare quella ingrata storia del nome e del passaporto inglese, mi sentivo supremamente seccato, e tutt'altro che indifferente. Quando Gesù volle, essi andaron via, e io mi addormentai.
       Al mattino del 24, Guerzoni ed io uscimmo dall'albergo, decisi di scoprire qualche cosa di sicuro di quanto doveva pur essere accaduto fuori le mura; e dandoci l'aria di semplici curiosi, parlando fra noi in inglese, attraversate le file di soldati, che non si diedero carico di noi, infilammo, per porta del Popolo, la via Flaminia. Per un buon tratto non vedemmo anima viva; ma più in là ci si fecero incontro cinque o sei giovanotti, che subito riconoscemmo per lombardi, ed ai quali accennammo di entrare nell'osteria allato della strada, e di prender posto in una panca staccata dalla nostra. Eran due fratelli Rosa, di Brescia, due Vacchelli, di Cremona, e non rammento chi altri, tutti compagni dei Cairoli, che in breve, e cautamente, ci raccontarono il tragico fatto dei Monti Parioli, e i loro casi. Noi indicammo loro un indirizzo, ove poter riparare in città; alcuni vi giunsero liberamente, altri pur troppo furono arrestati.
       Poco per volta venimmo in chiaro di tutti i particolari della impresa de' fratelli Cairoli. Il dottor Angelucci, membro attivo e valoroso del comitato, ci recò le notizie di Giovannino, ricoverato all'ospedale di Santo Spirito, ov'era curato con riguardo, e visitato assiduamente da monsignor Stone, prelato inglese, che lo aveva preso sotto la sua speciale protezione. Ma non tentammo di vederlo, perché l’Angelucci dichiarò che una simile imprudenza ci avrebbe compromessi tutti. Sapemmo che il cadavere del povero Enrico giaceva onoratamente in un feretro, e che senza dubbio sarebbe stato posto a disposizione della famiglia. Anche dei compagni feriti o prigioni avemmo esatti ragguagli, ma non potemmo avvicinarli.

       Il 25 ci sorprese, non aspettata, la catastrofe di casa Aiani, e lì ancora non ci fu dato prestare in alcun modo l'opera nostra. Appena avvertiti, Guerzoni ed io corremmo in Transtevere; ma il cordone dei soldati, steso tutto intorno al teatro della strage, ci respinse brutalmente, obbligandoci a rimanere inerti raccoglitori delle dicerie della folla. Brutto momento, che non solo mi provocò nell'animo un'angoscia profonda, ma valse a riconfermarmi nella convinzione, che, alla prova, avrei potuto ben poco giovare alla causa di Roma, perché nuovo alla città, ignaro dei costumi e affatto ignoto alla maggior parte di que' popolani.
       Le fasi di quel dramma sanguinoso son registrate nelle pagine della storia, la quale attinse, per questo come per tutti gli avvenimenti dal 22 al 30 ottobre, a quella fonte originale, che è il manifesto agli italiani, dal titolo Gli ultimi avvenimenti di Roma, in data del dicembre 1867, con la firma del "Comitato romano d'insurrezione", stampato su di un foglio grande di carta velina, e riprodotto dal giornale La Riforma di quell'anno stesso: manifesto che venne dettato dal Guerzoni. Ma poiché non è noto parimenti di quel dramma tutto l'epilogo, che si svolse molto più tardi, io lo richiamo qui in breve alla memoria del lettore.
       Il processo dell'Aiani, condotto di pari passo con quello di Monti e Tognetti, era anch' esso finito, negli ultimi mesi del 1868, con la condanna capitale, riempiendo di nuovo orrore gli animi degl'italiani, già dolenti per la esecuzione di quei due animosi popolani. Ma prima che la sentenza si eseguisse, Cucchi e Guerzoni maturarono il proposito di dichiararsi solidali dell'Aiani e dei suoi compagni, e di costituirsi nelle mani del governo pontificio, a fine di provocare il giudizio su la loro responsabilità per il fatto del 25 ottobre.
       Il deputato Asproni si affrettò di portare da Firenze a Roma la nuova della minaccia, comunicandola ai suoi amici, quei tali prelati, a' quali aveva fatta allusione monsignor Randi nel suo colloquio con Francesco Cuochi: ossia, monsignor Sagretti, e il padre Tosti, abate di Montecassino; e costoro, a loro volta, ne riferirono al cardinale Antonelli, il quale, atterrito al pensiero di aver su le braccia i due irrequieti rappresentanti al Parlamento italiano, e di attirarsi in casa un vespaio di quella fatta, si decise a proporre la grazia dell’Aiani a Pio IX.
       Monsignor Sagretti, è da notarsi, apparteneva a una famiglia, che nutriva antico astio con i Mastai di Sinigaglia: un fratello del prelato, maggiore dei gendarmi, aveva, in altri tempi, perquisita la casa paterna del futuro pontefice; circostanza, che Pio IX non aveva dimenticata neppure sul sacro soglio. Dell’abate Tosti, animo buono e ingenuo se altro mai, nulla io devo dire, perché egli, tuttora vivo, è caro agl'italiani di ogni partito.
       Io raccomando allo studioso, che vorrà narrare la storia degli avvenimenti di Roma del 1867, di non trascurare i moltissimi episodi e gli aneddoti d'ogni genere, perfino le dicerie e le invenzioni, se avrà in mente di offrire al lettore il carattere e lo spirito di quel tempo. Troverà nell'un campo e nell'altro, nel liberale e nel clericale, copiosi materiali; ma si affretti a raccoglierli, perché la generazione che può darglieli di prima mano, va assottigliandosi rapidamente. Non ne solleciti però la pubblicazione, perché le passioni e i rancori, le gelosie, i sospetti non sono del tutto spenti; anzi, molto acume e lunga meditazione occorreranno per cavare fuori un racconto onestamente imparziale, ma interessantissimo. Elementi abbondanti gli saranno forniti dai manoscritti, e dagli stampati; ma i documenti più preziosi egli troverà su la bocca di coloro, che tuttora sopravvivono.


Capitolo Nono: Mentana (1867)

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