Le lettere raccontano... (epistolario di famiglia)

Tarnopol e il vescovo Francesco Amadio (1978)

       Tarnopol: nei racconti di mio padre Giovanni questo nome riecheggiava sovente dalle sue labbra, nel ricordo del travagliato periodo della prigionia, apertosi all'indomani dell'armistizio (settembre 1943). Dello svolgimento di queste vicende parlò diffusamente in una relazione che egli stilò quando nell'agosto 1949 venne chiamato in causa dalla commissione militare che era incaricata di valutare il comportamento dei militari tenuto all'atto e dopo l'armistizio. Appartenente al 6. Corpo d'Armata, alla data dell’armistizio (8 settembre 1943) Giovanni si trova in Croazia, a Ragusa (Dubrovnik), che viene occupata dalle forze tedesche il 12 settembre. Inizia la prigionia, durata 11 mesi, come internato nei campi di concentramento polacchi e tedeschi: dopo la permanenza nel penitenziario di Zenica, inizia la lunga peregrinazione nei campi di Bad Orb (Germania), Tarnopol (Polonia), Biala Podlaska (Polonia), nuovamente in Germania in un campo nei pressi di Norimberga, quindi in altro campo nelle vicinanze di Paderborn, nella Westfalia.
       Ma è Tarnopol, prima tappa della sua peregrinazione, a lasciare nei ricordi di mio padre una traccia indelebile: è qui, come pure a Biala Podlaska, che egli ritrova diversi teramani, è da qui che fa giungere alla famiglia, a partire dalla fine di novembre, sue notizie: “Mi trovo ai confini della Polonia a Tarnopol dove il freddo non è come si sarebbe immaginato. In salute e in ispirito sto sempre bene. E voi? La guerra si avvicina sempre più a Teramo. Vi raccomando di avere tutte le precauzioni. Papà non si allontani più da Teramo e lasci stare Pescara od altre contrade: è sempre pericoloso”. “Dormo in castelletti di legno e fino ad oggi abbiamo avuto in dotazione due coperte pesanti, sì che dormire ci sia di conforto. Abbiamo due ranci al giorno e la colazione il mattino. Il rancio è costituito da brodo, rape, carote, odori campestri, qualche chicco di pisello ed altra leguminosa. Per secondo piatto, sempre del primo rancio, patate lesse, senza sale e l’ultima che mangio è quasi sempre amara. Forse è una regola. Ora voglio adottare il sistema di fermarmi nei pasti, sempre alla penultima patata. I ranci si consumano alle 11.30 il mattino e alle 4,30 il pomeriggio. Alle ore 21 siamo a letto ed il mattino alle 6 in piedi. Trascorro la giornata con una grammatica di lingua straniera, che voi mi inviaste a Ragusa. Vita sana come vedete”.
       Giovanni rientra nell'Italia occupata ad agosto del 1944 (a Riva di Trento) prestando servizio per otto mesi in Lombardia presso la Ragioneria Centrale del Ministero Finanze, mentre il ritorno a Teramo, che aveva lasciato il 3 settembre 1943, avviene solo il 15 maggio 1945.
       Dopo 35 anni il ricordo di Tarnopol torna prepotentemente, e questa volta lo spunto avviene in virtù del contatto che egli ristabilisce, anche grazie a Don Giovanni Saverioni (collega all'Istituto Comi), con colui che nel campo polacco era uno dei cappellani militari, oggi divenuto niente di meno che vescovo: Francesco Amadio.

       Francesco Amadio nacque a Montedinove (Ascoli Piceno) nel 1913 ed entrò nel seminario di Montalto, ricevendo l'ordinazione presbiterale nel 1936 e venendo destinato all'insegnamento nel seminario di Montalto. Mobilitato allo scoppio del secondo conflitto, fu cappellano militare in Jugoslavia, nel VI Corpo d'armata. Con l'armistizio venne deportato prima in Polonia (Tarnopol e Beniaminowo), poi in Germania (Sundbostel e Witzendorf). Rientrato in Italia al termine del conflitto, nel 1946 si laureò in Lettere a Roma e a partire dallo stesso anno venne nominato rettore del seminario di Montalto, incarico che mantenne fino al 1962. Divenne vescovo nel 1967 (titolare di Forconio e ausiliare di Valva e Sulmona) e nel 1972 assunse la guida della diocesi di Sulmona. Nel 1980 divenne vescovo della diocesi di Rieti, dove rimase fino al 1989, per ritirarsi a vita privata, a Montalto, dal 1990. Morì ad Ascoli Piceno nel 2000.

       Propongo quindi in questa pagina lo scambio epistolare che ci fu tra gennaio e marzo del 1978. Il 16 marzo mio padre ed il vescovo Amadio si incontrarono a Sulmona.

      
      Teramo 26 Gennaio 1978

      Eccellenza
       sono il prof. Giovanni Adamoli, oggi preside dell'Istituto Tecnico Commerciale "Vincenzo Comi" di Teramo.
       Svolgo il mio lavoro in questo Istituto dal 1945, sempre confortato dall'amicizia di tanti cari Sacerdoti e fra questi il Reverendo Don Giovanni Saverioni, latore della presente lettera.
       Nel 1943 fui Tenente Commissario presso il 6. Corpo d'Armata in Ragusa di Dalmazia - Dubrovnik - dove vissi le tragiche giornate della disfatta, dal 12 settembre 1943 quando quel mattino, nei vari alberghi, fummo catturati da soldati tedeschi e croati non più nostri alleati.
       Il Comandante Generale di Corpo d'Armata Sandro Piazzoni, scomparso solo da pochi anni, con molta abilità riuscì a destreggiarsi salvando la vita di molti di noi, mentre il Generale Amico, Comandante la Divisione "Marche" fu trucidato su una strada, così si seppe, di Trebinje. Noi lo vedemmo passare in macchina, quel mattino del 12 Settembre, dinanzi all'Albergo Excelsior, Quartiere Generale del Corpo d'Armata.
       Sapemmo della sua tragica fine durante la permanenza nel carcere di Zenica nella Bosnia, dove, come prigionieri, fummo convogliati molti ufficiali del 6. Corpo d'Armata. Per giorni e per settimane la tradotta fu la nostra abitazione sino a giungere, attraverso le cupe foreste teutoniche e le desolate stazioni della Polonia al Campo di internamento di Tarnopol dove fui assegnato alla baracca n. 6.
       Tarnopol: nebbia e filo spinato. Prima di entrare nel Campo, all'angolo di una strada, mi sembra di ricordare una immagine Sacra della Madonna. Simbolo di Purezza e di Fede fra tutti i popoli.
       Un Sacerdote era la nostra luce ed il nostro conforto. Ho scalfito nel mio cuore il ricordo della Sua dotta parola apportatrice di Amore e di Fede. Chiesi il nome di quel Sacerdote.
       Mi dissero: Amadio.
       Risposi: Si chiama pure Amadio, diventerà certamente Vescovo.
       Questi fatti si svolgevano prima del 27 ottobre 1943 perché a quella data, secondo le tristi regole della prigionia, fummo smistati per le destinazioni più diverse.
       Io finii a Biala Podlaska, dove si seppe della caduta di Tarnopol in mano ai Russi, non più di una settimana dopo, credo, della nostra partenza.
       Dopo tante vicende le più tristi, il Signore mi concesse di tornare in Patria e nella mia città Teramo, dalla quale non mi sono più mosso, forse quale pegno segreto di gratitudine per il mio ritorno.
       Perdonerà Eccellenza se mi sono permesso la esposizione di alcuni particolari ma desideravo offrirLe la possibilità di verifica sulla esattezza dei miei ricordi. Non può immaginare la mia gioia quando, negli anni che seguirono, lessi la designazione alla Diocesi di Valva e Sulmona del nuovo Vescovo Amadio. Ancora una volta dissi: Deve essere certamente Lui, l'indimenticabile Sacerdote ora Vescovo, apportatore, come sempre, di Amore e di Fede, di Umiltà e di Carità.
       Suo devotissimo
       Giovanni Adamoli

       ancora oggi Tenente Commissario perché nel 1955 circa, nonostante le mie due Campagne di guerra e la Croce al merito, fui dichiarato "non prescelto" per la promozione a Capitano Commissario.


       1. febbraio 1978
      
       Gent.mo e caro Professore,
       ella mi ha procurato un momento di autentica commozione con il suo preciso e affettuoso ricordo. Tutto vero quello che rievoca - tolto, naturalmente, quanto di merito mi attribuisce. Quel poco che riuscivo a compiere rientrava nell'ambito del mio dovere.
       Certo è che Tarnopol rappresentò per me, come per tanti amici, il primo impatto con la realtà della prigionia, il punto di partenza di una esperienza di significato eccezionale. Lì ci rendemmo conto di quanto era accaduto, a noi personalmente e all'intero paese.
       Lei mi ha riproposto, in una sequenza fedelissima, gli avvenimenti di Ragusa in quel mattino del 12 settembre 1943 e poi, via via, le varie tappe della nostra vicenda; il comportamento dei nostri Comandanti, la fine del Gen. Amico, la cattura dei nostri reparti dopo i combattimenti di quella tragica mattinata di domenica. Quanti particolari ho davanti! Poi Zenica, poi il lungo girovagare per l'Europa controllata dai Tedeschi, infine Tarnopol. L'unica imprecisione: l'abbandono e la caduta di Tarnopol avvennero in date diverse da quella da lei ricordate. La partenza del suo gruppo avvenne, come lei dice, il 27 ottobre. Noi rimanemmo a Tarnopol fino al 27 dicembre e fummo trasferiti a Beniaminowo, vicino Varsavia, poco prima che Tarnopol cadesse in mano ai Russi. Biala Podlaska fu luogo di soggiorno per molti che poi finirono in altri campi: io fui trasportato poi a Sundbostl e infine a Wietzendorf.
       Ma è forse inutile ricordare con precisione i vari luoghi: erano in fondo tutti uguali!
       Che cosa è rimasto, in noi, di quel tempo? Io credo molto, moltissimo. Se non altro, la gratitudine alla Provvidenza per qualsiasi atto di bontà che possiamo trovare nel nostro cammino, il gusto delle cose semplici, il piacere dell'onestà.... e tante altre cose.
       Come sarei lieto l'abbracciarla, caro Professore. Il buon Dio ci ha aiutato e gliene siamo gratissimi. Ricordare queste cose è un inno alla sua bontà. Se capita da queste parti non manchi di darmi una voce e sarà caro ad entrambi ritrovarci.
       Con affetto
       suo Francesco Amadio


      Teramo 6 febbraio 1978

       Eccellenza
       Le sono tanto grato per l'onore della risposta che mi ha concesso, ma il ricordo della Sua missione in me era rimasto così vivo, che il Signore ne ha voluto nel tempo un ritorno ed una rievocazione.
       E' esatta la Sua precisazione sulla data del 27 dicembre 1943, e non 27 ottobre, come io erroneamente ho scritto, pertanto anch'io, con altri Ufficiali, partii da Tarnopol il 27 dicembre mentre il mio Direttore di Commissariato, Colonnello Commissario Domenico Lisi era diretto, si diceva, a Wietzendorf, dove, sembra che sia deceduto.
       Ricordo infatti di avere trascorso a Tarnopol il Santo Natale di cui le Sue dotte e fervide conversazioni, nella baracca n. 6, ne erano state la preparazione con il commento e l'analisi delle relazioni tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento, analisi che nella sua completezza, riconfermava il fatto soprannaturale e l'atto di Fede.
       Mi sembra di ricordare che a Tarnopol, nel periodo natalizio, feci la Santa Comunione e credo di non confondermi con quanto sia avvenuto in altri campi di internamento effettivamente tutti eguali nel grigiore della loro uniformità.
       Dalle notizie pervenute nei campi stessi, si seppe ancora, che il Generale Amico fu sepolto in una fossa comune con un Maggiore al quale non aveva volto dare l'ordine di cessare il fuoco contro i reparti tedeschi opponendosi dignitosamente, ma col sacrificio della Vita, alla richiesta di alcuni ufficiali tedeschi. Mi perdoni Eccellenza se son tornato ad esporre qualche fatto particolare.
       Esatto, come Ella mi ricorda, dopo Zenica, il lungo girovagare per l'Europa controllata dai tedeschi.
       Non mancarono tuttavia manifestazioni di umana solidarietà fra la stessa popolazione di Ragusa nei giorni che sostammo a Gravosa prima di partire per Zenica e fra le popolazioni polacche, quando passammo sul loro territorio, popolazioni che sfidavano le percosse di agenti locali, pur di rifornirci di viveri e di quanto riteneva necessario.
       Rivive in me la sosta della tradotta, in una notte rischiarata dal manto immacolato della neve, alla stazione, credo, di Leopoli prima di giungere a Tarnopol: la Croce Rossa Internazionale, colà operante, ci somministrò, anche in gavette di fortuna, un caldo purè di piselli, che io riuscii a captare due volte rimettendomi in fila, incoraggiato dal sorriso anche se misurato e non disgiunto da una certa austerità, delle Crocerossine.
       Il Signore, nella Bontà e Misericordia infinite, mi consentì di rivedere tutti i miei familiari, compreso mio padre, che adoravo e che, nato il 27 ottobre 1887, tornava al Signore il 14 luglio 1946, dopo circa un anno dal mio ritorno.
       Sarà mia premura trovare la circostanza per poterla rivedere ed ossequiare informandoLa tempestivamente. Mi creda sempre
       Suo devotissimo
       Giovanni Adamoli


      15 febbraio 1978

      Grazie, caro prof. Adamoli, per le ulteriori precisazioni. Le invio, da parte mia, in fotocopia, una mia nota del 1946, pubblicata da un foglio che ora credo estinto e ripreso, lo scorso anno, a mia insaputa, dal giornale dell'Associazione ex internati.
       Nella speranza di abbracciarla presto, la saluto cordialmente.
       aff.mo + Francesco Amadio


BOLLETTINO UFFICIALE A.N.E.I. (novembre-dicembre 1976 n. 6)

Mons. Francesco Amadio
Natale a Tarnopol

      Il Natale era prossimo. I bollettini tedeschi, i soli che noi conoscevamo, parlavano di un attacco sferrato dai Russi nella zona di Zitomir: la città era stata perduta e poi riconquistata, ora appariva di nuovo in pericolo. E Zitomir non era tanto lontana da Tarnopol: i Russi sarebbero potuti arrivare da un momento all'altro.
       Che cosa avrebbero fatto di noi i Tedeschi? Ci protendevamo, in una ansia disperata oltre il nostro carcere a interrogare l'orizzonte, l'aria stessa per cercare una risposta alle domande che racchiudevano il nostro destino. Lo sguardo, valicando il reticolato, poteva posarsi unicamente sul terrapieno che sopportava la ferrovia. Oltre il terrapieno c'era la città: la indovinavamo dalle caratteristiche torri orientali e dalle grandi costruzioni, stranamente simili a fortezze, ma la città era muta per noi; non sapevamo neppure figurarcela simile alle tante altre che avevamo conosciute: ci sembrava una città morta. Solo quei treni erano eloquenti. Dai loro carichi noi argomentavamo, al di là degli annunci misurati e talora sibillini dei comunicati, l'andamento della guerra e pronosticavamo la durata della prigionia. Da qualche giorno non vedevamo più correre verso l'est vagoni carichi di carri armati di artiglierie, di automezzi; viceversa, tornavano dalla linea, avviati verso l'ovest, carri pienissimi di rottami e molti treni ospedali col loro triste peso.
       Non era facile capire se il Natale di prigionia l'avremmo passato a Tarnopol. Ma dovunque fossimo stati, volevamo che rompesse il fluire grigio del tempo sempre uguale e ci offrisse una evasione gradita.
       Mancavano solo tre giorni alla grande solennità. I Tedeschi ci comunicarono che l'avremmo trascorsa a Tarnopol. Ora noi pensavamo: avrebbero potuto negarci la soddisfazione di organizzarla a nostro modo? Non avevano essi i loro alberi di Natale? Potevano dunque consentire che avessimo il nostro Presepio! Ottenemmo di costruire il Presepio. Doveva riuscire bello, grandioso, attestazione concreta della ridesta coscienza, documento d'una ripresa nostra in atto. La Novena, assiduamente frequentata al mattino prestissimo, in una baracca vuota e fredda, aveva già dimostrato chiaramente che nessun sacrificio sarebbe apparso grave quando si fosse trattato di seguire il proprio spirito alla ricerca del suo alimento più vero. Ci si levava al mattino al buio dalle dure assi sulle quali durante la notte, si era forse solo vegliato o battuto i denti e meditato amaramente e ci si recava ad attendere, talora a lungo, davanti a quei reticolati infiorati di neve gelata l'interprete tedesco che aprisse il locale e assistesse alla Funzione, solo perché un potente bisogno di rinnovamento urgeva; e solo perché questo bisogno diventava ragione del nostro tempo, durante il giorno ci si ritrovava a leggere e a commentare i sacri testi. La Messa di mezzanotte attorno al Presepio doveva coronare l'interno lavoro.
       Mancava tutto: e tutto fu improvvisato e trovato; legname, materiale elettrico, necessario per gli addobbi, carta per l'impasto e, cosa di estrema importanza e rarità, farina per la colla. Anche la preziosa materia fu trovata: cinque chili, ci fu procurata da un buon diavolo di interprete. Con vero senso d'arte alcuni giovani scultori plasmarono con l'argilla le statuette: ancora fresche, (appena avevano avuto l'ultimo tocco di pollice o di stecca, senza essere cotta) un pittore le decorava finemente. Alcuni architetti disegnavano nel frattempo e apprestavano un piano di sostegno e l'altare. Mai forse un Presepio vide convergere su di sé l'opera di tanti artisti appassionati o fu sollecitato da tanto desiderio e affettuosa premura. Tutti se ne interessavano, ne facilitavano col proprio fervore l'ideazione e ne acceleravano con la propria impazienza la preparazione. Furono tre giorni febbrili.
       Non ci fu permesso di celebrare il Sacro Rito alla mezzanotte, bensì alle diciannove della sera della vigilia.
       Durante il giorno la baracca era anche riscaldata: la nota sagoma del Capitano italiano addetto al carbone con l'eterno pipone in bocca, era stata vista adoperarsi con mille ripieghi per stornare l'attenzione della sentinella tedesca di sorveglianza a quel servizio, mentre un bravo soldatino si affrettava a deviare colla carriola carica alla volta della baracca del Presepio.
       Quando i poveri Ufficiali prigionieri - (Tarnopol era Oflag) - vi entrarono, rimasero attoniti. Il Campo intervenne al completo, letteralmente pigiato dentro la sala insufficiente.
       La Sacra Funzione cominciò esattamente alle ore diciannove: bisognava far presto perché il soldato tedesco che presenziava la riunione, era smanioso di recarsi a far festa al suo reparto. Ebbene, nonostante la piccolezza d'animo che ci lesinava pur quel conforto, nonostante che il Celebrante avesse ricevuto l'ingiunzione di non rivolgere neppure una parola ai propri fratelli, anzi forse anche proprio per tutto questo, quelle due ore di mistico raccoglimento furono così suggestive che chi vi fu presente poteva mai dimenticarle, mai! Né forse, alcuno ci sarà, capace di farne rivivere con parole la potenza di commozione. Il tempo, i ricordi che accorrevano alla memoria di ognuno, i canti belli e bene eseguiti con felicissimo accompagnamento di archi e fisarmoniche, operarono negli animi quello che né le atrocità vedute e patite, né i disagi inumani, né la fame e né il freddo avevano provocato e lacrime consolatrici inumidirono le ciglia di tutti.
       Dove era il pensiero, quando assorti e attoniti si riudivano melodie antiche e sempre nuove o si compiva il gesto umile e grande di inginocchiarsi a ricevere dalle mani del Sacerdote celebrante quel Dio che ci sembrava come non mai ci era apparso, curvo sui dolori degli uomini, cioè attento a noi? Quale scena vedevano quegli occhi assenti, dilatati all'infinito? Esistevano ancora fuori di quel luogo, che ci sembrava benedetto, i reticolati, la tremenda realtà della guerra, la cattiveria umana, o non erano forse tutti come noi, gli uomini bisognosi di amore, di pace, di quella pace che gli Angeli avevano ripetuto dono preparato agli uomini di buona volontà?

       Il ricordo di quel Natale è vivissimo in tutti gli ex prigionieri di Tarnopol. Nei lunghi mesi che ancora la prigionia ci serbava, quanti, dopo separazioni durate più o meno a lungo, ritrovatici in altri Campi abbiamo avuto occasione di ricordare il primo incontro in quest'estremo lembo di Polonia, abbiamo anche dovuto far menzione di quel Natale in cui ci sembrò che Iddio fosse più che mai il compagno amoroso delle nostre sofferenze e delle nostre pene, il consolatore soave e generoso.
       Due giorni dopo lasciavamo Tarnopol.


       Come accennato, l'incontro tra mio padre ed il vescovo Amadio effettivamente ci fu, il 16 marzo di quell'anno. Così egli annotò nel registro di casa:

      16 marzo 1978 (giovedì) - Sono stato a Sulmona, ospite del Vescovo Francesco Amadio, con Don Giovanni Saverioni e Don Ludovico D'Attilio. Prima di arrivare a Sulmona ci siamo fermati a Scafa, in un caffè di un cugino di Don Giovanni.
       Nel lasciare l'Autostrada Bologna Canosa, al casello autostradale abbiamo appreso, con dolore, della strage degli agenti di scorta all'On. Aldo Moro e della cattura di questi da parte di terroristi di Brigate Rosse.
       Mio dono al Vescovo Amadio di una medaglia d'oro con sopra scritto: parte anteriore: A S. Ecc. Francesco Amadio Vescovo di Valva e Sulmona 1978 e parte posteriore: Preside Prof. Giovanni Adamoli Teramo ed al centro: Dubrovnik Tarnopol.1943
      

       Teramo 18 marzo 1978

       Eccellenza,
       dopo 35 anni ritrovarsi è stato meraviglioso.
       Fra le nebbie di Tarnopol e nel dolore che incombeva sui nostri cuori, la preghiera fu ben accetta al Signore che fu sempre presente fra noi. Sentimmo la Sua voce e sul filo della Speranza vivemmo di giorno in giorno fino al ritorno nella nostra Patria sconvolta e nelle nostre famiglie prostrate dall'angoscia dell'attesa.
       Ho vissuto a Sulmona, 16 Marzo 1978, vicino a Lei, Eccellenza, e ai cari Sacerdoti Don Giovanni e Don Ludovico una giornata di sogno. Ho toccato con mano la forza ed ho sentito nell'animo lo splendore della Chiesa Cattolica, la Roccia su cui poggia tutto l'Universo.
       I Suoi Vescovi, veri Principi della Chiesa, con mano salda tengono la spada che La rendono inespugnabile, con la Parola ne assicurano l'avanzata nella profondità della coscienza degli uomini, con l'azione leniscono le sofferenze dell'Umanità e asciugano le nostre lagrime.
       Ripetere e ricordare nomi e luoghi non potevano essere disgiunti dall'incontro di cui Ella mi ha voluto onorare, e ripetendo e ricordando nomi e luoghi in fondo ho pregato con Lei, nell'adorazione ed elaborazione più affettuosa di un passato, anello indispensabile segnato dalla Storia, per raggiungere l'attuale realtà sociale. Questa potrà essere superata e migliorata solo se l'uomo non si allontana da Dio.
       Nella Settimana Santa che già è all'inizio mi dedicherò alla lettura dei Vangeli, dall'Istituzione della Eucaristia alla Resurrezione ed ogni parola sarà da me meditata con la presenza costante della Venerata immagine ed indelebile ricordo del Vescovo Francesco Amadio.
       Grazie di tutte le cordialità, affettuosamente L'abbraccio e Le porgo gli auguri più vivi di una Splendida Pasqua.
       Un prigioniero di Tarnopol
       Suo devotissimo
       Giovanni Adamoli e famiglia


       Non ho trovato tra le carte di famiglia altre lettere o biglietti ricevuti dal vescovo Amadio in data successiva. Mio padre scomparve nel 1983, periodo nel quale Francesco Amadio era già divenuto vescovo di Rieti. E' da rimarcare l'aspetto che Francesco Amadio negli anni successivi, precisamente a partire dal 1990, quindi al termine dell'attività pastorale, si interessò del tema della religiosità dei militari internati nei campi di lavoro, partecipando a convegni internazionali e fornendo dei contributi in pubblicazioni che vertevano sugli Internati Militari Italiani.
       Ritroviamo infatti due suoi significativi contributi nelle seguenti opere:

       Francesco Amadio, "Valori e limiti dell'esperienza religiosa nei campi d'internamento germanici", in Biagio Dradi Maraldi e Romano Pieri (a cura di), “Lotta armata e resistenza delle forze armate italiane all'estero”, Milano, F. Angeli, 1990, pp. 589-601, ISBN 88-204-6324-5.
       Francesco Amadio, “La dimensione religiosa nei campi dell'internamento della Germania nazista”, in Nicola Labanca (a cura di), “Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista, 1939-1945”, Firenze, Le lettere, 1992, pp. 303-310, ISBN 88-7166-100-1.

       In alcune pubblicazioni relative alla vita degli IMI (Internati Militari Italiani) nei campi di lavoro nazisti viene sottolineata l'importanza della fede come elemento di sostegno morale:

       “Un’altra componente rilevante a sostegno della resistenza degli IMI, infine, è la fede religiosa, che nei campi viene coltivata e alimentata anche grazie all’opera incessante di alcune centinaia di cappellani militari anche loro internati. (...) Nei campi degli IMI sono presenti circa 250 cappellani militari internati, alcuni dei quali durante la prigionia diventano figure mitiche per gli internati, come il salesiano don Luigi Pasa, don Francesco Amadio, poi vescovo di Rieti” (cfr. Franco Avagliano, “La resistenza culturale e religiosa di Zampetti e degli ufficiali IMI”, in “Le porte della memoria", supplemento al n. 1/2 - 2022 a Liberi, pagg. 27-35).
       La prigionia provocò indubbiamente un aumento della professione religiosa, che si concretizzò da un lato nell’intensificazione della devozione da parte di coloro che già erano credenti e praticanti, dall’altro nell’affacciarsi per la prima volta alla religione da parte di coloro che non l’avevano mai conosciuta, né avevano dimestichezza con le sue pratiche. (...) le testimonianze dei cappellani sono concordi nel rilevare come la religione abbia prodotto nel contesto dell’internamento una maturazione autentica (...) Nel suo intervento al convegno internazionale di studi storici su “Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento”, tenuto a Firenze il 23-24 maggio 1991, Mons. Francesco Amadio (che fu internato nei lager tedeschi come cappellano militare) ha ammesso da parte sua, senza reticenze, che «c’era, nella condotta di alcuni della esagerazione, talvolta anche della superstizione»; e tuttavia ciò non toglie che i più vivevano la professione religiosa con ispirazione autentica e solida, e non come un rimedio purchessia all’angoscia e allo sgomento per la propria condizione.
       «L’internato di quei tempi tristissimi – spiega Mons. Amadio – era nella situazione migliore per rovistare nel suo spirito, pesare tutte le cause che l’avevano portato in prigionia ed esaminare le reazioni in lui suscitate dal disastro, insieme con le responsabilità che ne seguivano. E la sua ricerca era favorita e sollecitata da una assiduità collettiva per la quale le conclusioni di ciascuno erano saggiate su quelle del vicino, si urtavano con quelle di colui che gli era spiritualmente opposto, si arricchivano del contributo dei più avvertiti. E intanto negli animi metteva radici non estirpabili l’abito della riflessione che doveva aderire a ciascuno sì da sembrare natura, anche in giovanissimi ai quali il volto stesso veniva nuovamente plasmato. L’internato aveva visto troppe cose e troppe cose compreso per potersene rimanere inerte e non conoscere sentimenti salutari. Preparava in sé un terreno vergine per idee nuove. E si verificava in lui un progresso importantissimo: mentre inizialmente, astioso, tutti accusava fuorché se stesso, in seguito, in virtù di una riflessione dapprima impostagli e poi considerata consigliera benefica e pacificatrice, riconosceva i suoi torti, via via contrariato, poi tacitamente, infine con franca lealtà; torti che egli aveva avuto come privato e come cittadino» (…) «Attraverso l’efficacia moralizzatrice della sofferenza e la sua forza unica, gli internati credettero di nuovo, o con nuovo vigore, in Dio, nella sua Provvidenza, nel lavoro, nella probità della vita, nelle virtù che nobilitano l’esistenza e la fanno santa. Interi anni passati fra i reticolati resero tale visione non semplice velleità o vuota aspirazione, bensì risoluzione definitiva e decisione immutabile»
(cfr. Alessandro Ferioli, “Quel 'buon compagno di prigionia': l'opera di Don Luigi Francesco Pasa per gli internati militari italiani nei lager del Terzo Reich”).
       «Nei campi di prigionia ci si avvicinò alla Bibbia avidamente: ebbero luogo, ad opera di Cappellani militari particolarmente preparati, veri corsi di introduzione e di esegesi biblica che fornirono quel minimo di attrezzatura scientifica indispensabile per una retta intelligenza dei vari libri. Invero, pochi esemplari della Bibbia circolavano e tutti, o quasi tutti, editi da autori protestanti: ma in sostanza la Bibbia giunse a un gran numero di persone, fu conosciuta non solo dalla facciata storica e poetica, quella ordinariamente meno impegnativa e maggiormente apprezzata da un certo pubblico di lettori, ma fu considerata, come veramente essa è dal lato religioso e formativo, come la parola rivolta da Dio agli uomini, deposito autentico della Rivelazione cristiana» (AA.VV., a cura di Nicola Labanca, "Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945)", Atti del Convegno, Firenze, 23-24 mag. 1991, Firenze, Le Lettere, 1992, pagg. 307-308).
       La prigionia generò processi di autodeterminazione, anche in ambito religioso. “Ognuno improvvisamente venne a trovarsi solo di fronte a se stesso sciolto da esterni vincoli disciplinari e privo di ordini: una responsabilità personale da assumere, mentre il principio della responsabilità collettiva è per sua natura basato sulla gerarchia,” annota don Amadio in “Valore e limiti dell’esperienza religiosa nei campi d’internamento germanici” (cfr. Antonella De Berardinis, “I cappellani militari e la tematica etico-religiosa nelle memorie dell’internamento italiano nei Lager nazisti (1943-1945)”, Carte Italiane, 2(11), 2017, pag. 80).

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