Non erano solamente le clamorose ribellioni a scatenare la reazione delle autorità, perché anche un semplice atto d'insubordinazione, uno scatto di rabbia, un atteggiamento ritenuto strafottente, oppure un semplice borbottio, potevano indurre un ufficiale a passare all'uso delle armi.
Una relazione della Commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto (1917) riportava, tra l'altro: “Qualche colpo di fucile in aria alla partenza per la trincea era divenuto abituale. In certi reggimenti ogni segnale di tromba veniva accolto da fischi. Spesso la fine di qualche conferenza di propaganda veniva fischiata. […] talvolta si udiva gridare: «Vogliamo la pace! Viva la pace! Abbasso la guerra!»”. Anche la profonda frattura che esisteva tra i soldati e gli ufficiali inferiori era uno degli elementi che potevano scatenare la ribellione (e nello stesso episodio della fucilazione degli alpini della 244a Compagnia del “Val d'Intelvi” ebbe un peso non indifferente). Alcuni ufficiali, magari giovanissimi, che da poco erano avanzati di grado e nutrivano il desiderio di far carriera, o che a causa di una preparazione inadeguata non erano in grado di interpretare i bisogni dei soldati, mostravano un atteggiamento sprezzante di superiorità, che poteva sfociare anche in un vero e proprio abuso di potere. In tal senso non mancarono infatti anche i procedimenti nei confronti degli ufficiali stessi.
Chiudiamo queste brevi note riportando l'episodio della fucilazione dei cinque alpini, “quasi senza motivo”, citato da Antonio Adamoli nel suo diario di guerra.
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