- 386 —
sima state a Napoli per vedere te, il tuo signore, ed il padre mio '! vescovo fiorentino (1): ma, come già ti dissi, per non essere chiamato seguace delle felicità, stimo di non farne nulla.
Il tuo carme contro i Fiorentini vidi e lodo; imperocché dici il vero, e Dio volesse che a'tuoi e miei concittadini fosse noto com'è a me; forse non andrebbe a vuoto. Ma non so se io dica che siamo condotti o strascinati dal fato, o piuttosto che volontarii andiamo incontro allo esterminio. Niente di buono, niente di giusto, nessuna fede, punte senno, il divorante livore e la cupidigia dello avere lasciarono al Senato e agli altri. Le asiatiche delizie un tempo ai Greci, e poscia ai Romani furono cagione della loro rovina; le nostre mandano noi in malora e dalla florida cima ci riducono e ci ridurranno al fango! Oh vergogna ed ignavia! o ridicola alterigia di certuni, che uomini effeminine ìi, dediti ad incestuosissima Venere, con una specie di stolta finzione, spacciano per nati sotto la stella del fiero Marte Così Dìo metta pace ne' miei travagli, che avendo forse per l'avvenire da viaggiare, già m'è più caro il cognome da Certaldo che non da Firenze. Prego la pietà dei Celect; che riguardi e lume infonda agli erranti.
Dopo tante cose, aspetti sapere ciò che io faccia, dimorando in così dubbia città? Eccolo : secondo il solito, tra pubbliche e private occupazioni me ne sto oltre il volere agitato; imperocché poco dopo la tua partenza, come spesso aveva fatto anche per l'innanzi, m'ero assai bene acconciato, a mio parere, e per mediazione di Seneca, con la povertà; ma di recente un tenue sibilo di miglior fortuna rupp, ad un tratto l'accordo, e me, già libero, ridusse nei primi lacci, ed operò sì che io, che aveva cominciato a vivere sicuro di me, ora, quasi straniero a me, dubitassi oscillando. Qual uomo io sia, tu il vedi: spero tuttavia che Dio a questo pure dia fine. Scusa, ti prego, la mia prolissità, richiesta dalla rarità delle mie lettere e dalla materia. Raccomandami a chi vuoi, e massime al nostro Barbato, e lungamente sta bene, o mio maestro. Firenze, 13 d'Aprile (1353). — Trad. del Corazzini, riveduta sul testo. -*
I1) Angelo Acciainoli. CIt. p. 100.