Storia di Roma di Ettore Pais

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      721) CAP. Vili. - DALLA RESA DI NAPOLI ALL'lNTERV. DI PIRRO.
      Quanto fu immaginato dagli annalisti come Fabio, e dai poeti quali Ennio dura in parte tuttora. Passeranno ancora molti anni prima che la critica, che non si arresta davanti a nessun ostacolo, od a nessun culto, ottenga che si riconosca che più di una volta, e non solo nell'antica Roma, si è ripetuto il fenomeno di un popolo giovane e rude, che in breve tempo è riuscito a conquistare il mondo. Scorrerà ancora qualche tempo, prima che i giuristi, innamorati della gravità e della rettitudine latina, si trovino unanimi con i più avveduti di loro nel constatare che ciò che sino ad ieri, e che in parte anche oggi si considera come fonte di sapere quasi divino, è il tardo frutto di frequenti innesti di dottrine, di speculazioni e di esperienze greche su un tronco robusto ma barbaro.
      L'ostinazione stessa, con cui una parte degli studiosi, soprattutto se nati nella Penisola, si affanna a salvare una costruzione imagi-naria, che è ben lungi quindi dall'aver basi sicure, trae pur forze e vita da quei nobili sentimenti e da quell'educazione civile che gli antichi ci hanno tramandato.
      I racconti che ci parlano dell'antica grandezza e lealtà romana non sono infatti il risultato di semplice falsificazione storica. Essi sono anche eco sincera della grandezza d'animo e della nobiltà di sentire di un'intera nazione, i cui annalisti e poeti, sia nella leggenda sia nella storia, misero sempre in rilievo i sentimenti abituali della nazione, inspirati a grandezza d'animo, a dignità, e si mostrarono sempre compresi dell'amore della patria e del giusto. (*) Della
      (x) Ciò. de off. I. 18, 61: u maxiineque ipse populus Romanus animi magnitudine excellit „. V. anche le caratteristiche parole di Plinio, XII. XXIX, 17.
      Con questo sentimento della dignità romana si accordano anche le disposizioni rigorose per il tempo più antico intorno al modo di apparire in pubblico ed i giudizi poco benevoli su quei magistrati che vestivano alla greca o che si esprimevano nella lingua dei vinti.
      Intorno alla severità del contegno in pubblico, ancor più che ai rimproveri mossi a Scipione e poi a Vene, ad Antonio, è il caso di pensare alle ragioni che un Sulpicio, un Antistio, un Sempronio, avrebbero addotto per repudiare le proprie mogli, Val. Max. VI, 3, 10 sqq. Rispetto alla convenienza da parte dei magistrati di non parlare in pubblico la lingua dei vinti, porge certo un esempio assai caratteristico quanto ci è riferito su Catone, che sebbene sapesse il greco, ad Atene si valse del latino e di un interprete (v. s. parte I, p. 50).


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Storia di Roma
Parte Seconda
di Ettore Pais
Carlo Clausen Torino
1899 pagine 746

   

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da: Storia d'Italia dai tempi più antichi alla fine delle guerre puniche




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