Del vitto e delle cene di Giuseppe Averani
DELLA DISPOSlZrOflE OTLLA CENA ECC. 79 moltitudine, onde Seneca pien d'onta e di dispetto scrisse: Non ti maravigliare, che innumerabili sieno i morbi: conta i cuochi. Manca ogni studio, ed i professori delle liberali arti, quasi da tutti abbandonati, 8e ne stanno in un angolo ritirati? Quanta solitudine nelle scuole de' rettorici, e de'filosofi ; quanta folla nelle cucine ; quanta calca intomo a'focolari degli scialacquatori! Ed in vero quanta calca dovea essere nella c ucina di Dario, che eziandio per viaggio con duceva dugensettantasette cuochi ! Per la qual cosa Se-ceca, dopo avere annoverato la gran moltitudine de' serventi alla tavola, soggiugne : Adiice obsonatores, qui-bus dominici palati noùitia subitili» est: qui sciunt cuius rei illum sapor excitet, cuius delectet ospectus : ntius novitate nauseabundus erigi possit9 quid iam ipsa satietate fastidiat, quid ilio die esuriaL Dalle quali parole si comprende quanta cura ed attenzione avessero i cuochi e gli spenditori, di servire al palato del padrone. A quest' intendimento Marziale:
Nsn satis est ars sola coquoy servire palato:
Namque coquus Domini debes habere gulam.
Santo Ambrogio, nel trattato del digiuno, ci rappresenta uno spenditore vagante per la città qua e là avanti giorno, e procaceiante dove un fagiano, dove un pesce fresco, e dove altre leccornie por soddisfare 1' appetito del padrone. Quanto più saggiamente Alessandro Magno licenziò i cuochi eccellentissimi da Ada a lui donati, dicendo che Leonida, suo aio, di migliori cuochi l'aveva provveduto, della corporale esercitazione pel desinare, e della frugalità del desinare per la cena. Or questi tanti cuochi avevano un capo, che lor soprastava, e si appellava Archimagiro, con nome tratto dall'idioma greco, ma usato da Giovenale.
Venuta l'ora della cena si dava il segno non altra-
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