Quel giovanotto, come ben ricorderai o lettore, era il figlio dell'assassino di mia madre; immaginati il mio stato d'animo in quel momento.
Quando fu alla mia portata mi diressi a lui e con voce alterata esclamai: «Ehi pertichino, chiama a te i cani, altrimenti...»; con questa frase io speravo provocare la sua collera, dar luogo ad un litigio, per freddarlo di poi con una fucilata e dire, e uno, ma Iddio non volle.
Il giovine patrizio fermò il cavallo, smontò, chiamò a sè i cani, poi venne alla mia volta e mi salutò domandandomi perché gli avevo detto di chiamare i cani, e se questi arrecavano danno.
«Sicuramente signor Don Ferdinandino, risposi io, poiché essendo il grano in fiore, dove mette piede il cane, rompe il tenero stelo e la spiga va perduta, e ciò a tutto danno nostro poiché il padrone di danni non vuol saperne e sull'aia si paga colla misura».
«Vi assicuro che non sapevo ciò, soggiunse il Signorino, e vi ringrazio della lezione, di grazia come vi chiamate bel giovanotto?».
«Sono Carmine Donatelli Crocco per servire vostra signoria».
Il signorotto montò a cavallo e partì di galoppo; verso sera venne da me certo Vito De Feo, massaro di pecore alla fattoria La Torre, pregandomi di favorire dal signorino Ferdinandino C... che aveva bisogno di parlarmi.
Non volevo si potesse lontanamente supporre ch'io avessi paura, onde indossai la giacca, mi assicurai che vi fosse il coltello ed in compagnia di compare Vito mi avviai alla Torre.
Fui ricevuto come non credevo, un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro avana ed invitato a sedere su d'una comodissima poltrona.
Don Ferdinando portò il discorso sulle disgrazie di mia famiglia facendomi diverse domande; per tutta risposta gli presentai un manoscritto nel quale era per filo e per segno narrata la storia delle nostre sventure.
Il Signorino lesse e senza dimostrarsi contrariato mi disse:
«Ieri avete cercato adunque di provocarmi?».
«Se vostra signoria ieri adoperava il frustino come soleva
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