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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   correzioni e aggiunte. . 584
   l'urbanitas ? Perchè gli stessi malevoli pensarono di fare insinuazione e sperarono che la facesse presa % Questo dubbio è a mio credere il più grave che si possa sollevare contro l'ipotesi, del resto ingegnosissima e plausibilissima del Betti.
   A pag. 342, § 19. Alle timide affermazioni che qui\ fa 1' autore si può, non dico contrapporre, chè in fondo non c' è discordia, ma sosi tuire affermazioni assai più positive, sol che si consideri più davvicino il passo del libro decimo di Quintiliano, che l'autore stesso*cita. Da questo passo si ricava con la più perfetta sicurezza, che almeno la Medea è di L. Anneo Seneca il filosofo. È naturale poi che le altre tragedie, se non altro il maggior numero di esse, seguan la sorte della Medea
   In quel quadro mirabile, che Quintiliano fa nel decimo libro della sua istituì !one oratoria, della letteratura greca e della romana, quando vien la volta di enumerare i pricipali tragici e le migliori tragedie romane, tocca di Azzio e Pacuvio, quindi di Vario e di Ovidio, e tosto colla menzione di Pomponio Secondo chiude la ben povera enumerazione. Eppure egli ben conosceva la Medea, che egli stesso diceva essere di Seneca, qualunque dei Seneca fosse costui (nel libro IX, cap. 2, 9 8, dice: ut Medea apud Senecam), e non gli sarebbe dovuto parer vero di poter ingrossare un poco il magro conto delle tragedie romane, che tanto sfigurava a fronte della mirabile ricchezza del teatro greco ; e sarebbe poi dovuto parer naturalissimo, a lui così amante dei giusti paralleli (vedi p. es. X, 1, 22), tostochè avea dato conto della Medea, di Ovidio, trattare di quella di Seneca. Come dunque spiegare questo strano silenzio'? Non è chiaro che questo dovè avere qualche secondo fine?
   Orbene, un silenzio consimile ei serba circa le orazioni di L. Anneo Seneca . filosofo e gli altri di costui scritti, ed alia fine del capitolo esce poi in queste parole: « Ho fatto apposta a differire fino a questo punto il parlar di Seneca, e a ometterlo sempre, benché a proposito d'ogni genere di componimento l'avrei dovuto rammentare; e l'ho fatto apposta per aver qui occasione ed agio di fermarmi a dar conto di una voce che è corsa di me, ch'io cioè l'avessi molto molto a noja » E dopo spiegato in che senso e perchè e fino a che punto egli avesse combattuto Seneca, e'ripiglia: « D altronde avea molte e grandi qualità, ingegno facile e abbondante, moltissima
   cura, molte cognizioni..... e percorse in lungo e in largo tutto, si può dire, quel
   che è oggetto degli studii ; giacché di lui van per le mani degli studiosi e discorsi e scritti poetici (poémata voleva dir tutto, anche le produzioni drammatiche: Non satis est pulchra esse poèmata, dulcia sunto Et quocumque volent animum auditoris agunto) e lettere e dialoghi » ecc., ecc.
   Or non è evk.ente che quella tal Medea Senecana, della cui omissione non ci si sapeva render ragione, è stata da Quintiliano omessa là dove n'avrebbe dovuto far parola, appunto perchè la era di quel Lucio Seneca il filosofo, di cui s'era proposto di non parlare se non in complesso ed all'ultimo'? Non è ora evidente che quei poèmata di Lucio Seneca sono appunto la Medea e le altre tragedie senecane?
   Questa lucida argomentazione, che ci siamo i ìdustriati di esporre alla meglio, l'abbiam sentita ora è sei anni esporre dal nostro dottissimo maestro, prof. Comparetti; e in un'occasione assai solenne; perciò non ci siam peritati di riferirla qui senza neanche domandarne, come avremmo pur fatto se il tempo ci fosse bastato, il consentimento all'insigne filologo.
   A pag. 378 — Paneaerieo — leggi Panegirico.
   A pag. 491, alla riga quarta dell'ultimo alinea, invece di supposto avvenuti leggi supposti avvenuti.
   A pag. 496, apprincipio del § 89, leggi cosi: Abbiamo una raccolta di Pan. vel., che commeia con quello di P. e prosegue poi con quelli relativi ecc., ecc.
   A pag. 497, verso la metà, leggi ))ancgyricu$ regi Ostrogothorum-