Stai consultando: 'Storia Letteraria d'Italia I primi due secoli', Adolfo Bartoli

   

Pagina (5/555)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (5/555)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia Letteraria d'Italia
I primi due secoli
Adolfo Bartoli
Francesco Vallardi Milano, 1880, pagine 552

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   ORIGINI DELLA UNGI \ ITALIANA. '.)
   Altri BM>c vello nomare e respingere ogni influenza germanica, olio operasse, comecchessia, sulla lingua latina. E fu tra questi il Muratori, il quale, come ognun sa, trattò con tliiìUsioiie il (Ufficila argomento, dando prova anche in esso della mente perspicace e della grande dottrina che segnalarono quel sommo padre e maestro della storia italiana (1). Secondo lui, fino dai primi secoli dell'era volgare la lingua latina era in Roma stessa scaduta dalla sua naturale purità, ed aveva presso il volgo contratto 1111 colore di barbarie, sia per la influenza delle lingue parlate prima della conqu sia romana e non estinte mai, sia ancora per la naturale tendenza che hanno le lingue a cangiare e lentamente trasformarsi. Questa mutazione andò operandosi a poco a poco, e si accele ò poi nei tempi delle invasioni barbariche. Così, quanto più l'italiano fu vicino alle sue origini latine, tanto meno ebbe di novità e meno da esse discordò; mentre quanto più andò allontanandosene, tanto più divenne dissomigliante, ed ammettendo parole straniere, e cambiando terminazioni e forme di dire, prese come un colorito di lingua nuova e diversa. Per il Muratori è cosa manifesta ed incontrastabile che l'italiano, il francese e lo spaglinolo nacquero dalla corruzione del latino, 0, per usare le parole sue proprie, uscirono dal sepolcro di quello. Fu uno svolgimento naturale e spontaneo, furono leggi generali e necessarie che trasformarono la lingua latina negli idiomi neo-latini.
   Questa opinione, che accoglie in sé una gran parte del vero, che può anzi dirsi vera, pur che sia meglio determinata e circoscritta, questa opinione ebbe tra i moderni non pochi sostenitori, i quali però, in luogo di perfezionarla, ci sembra che la guastassero, specialmente quelli, come il Fernow ('2), che pretesero dare una grande importanza agli antichi dialetti italici, a quei dialetti di cui la maggior parte ed i più importanti rimangono tuttavia un'incognita per i linguisti. Udiamo un italiano, sostenitore di questa opinione, il quale ne dice che i dialetti indigeni « equilibrando le forze proprie col dialetto latino, com' esso andava deponendo il suo carattere letterale, agirono con mutua vicenda e s'influirono in guisa, che tanto gli uni comunicarono del proprio carattere all'altro, quanto questo veniva perdendo di autorità » (3). Tali parole riassumono in qualche modo la teoria di quegli scrittori i quali, nell'italiano, come nelle altre lingue romane, non vollero vedere che una vittoria de' dialetti preesistenti al latino, sul latino stesso che gli aveva per un momento soffocati, non vinti mai né distrutti. Senza parlare del Duclos e del La Ravalière, noi sappiamo essersi fatto strenuo campione di questa teoria il Bruce Whvte (4), il quale vide il celtico dappertutto, e principalmente dal celtico derivò le lingue romane. Tali sistemi, osserva giustamente uno scrittore moderno, 11011 hanno più bisogno di essere confutati (5). É questa una di quelle teorie a priori che oggi fortunatamente sono rejette dalla scienza, la quale, dopo avere per troppo lungo tempo vagato ne' campi nebulosi della deduzione, si è finalmente appropriato il metodo induttivo, e con questo solo vuol procedere innanzi, calma, ferma, sicura. Per sostenere predominante l'influenza dei dialetti indigeni dell'Italia, occorrerebbe prima avere stabilito con sicurezza quali popoli abitassero la penisola e quali lingue parlassero. Ma con tutti gli studi già fatti e con tutti quelli che seguitano a farsi, la questione rimane insoluta: segno, se non altro, della somma sua difficoltà. Gli scrittori più recenti e più autorevoli ci parlano di Japigi, di Etruschi, di Italioti; e della lingua degli Japigi confessano non essere ancora decifrata; di quella degli Etruschi non sapersi ancora nemmeno come classificarla; ignorarsi quasi affatto quale dialetto parlassero i Marsi, i Yolsci, i Sabini, e ben poco conoscersi dell' uni-
   (1) Antiquit. Ital. Medìi Aevi, Diss. 32.
   (2) Rómische Studiai. Ciò non toglie che non sia un libro molto sapiente quello del Fernow.
   (3) Emiliani Giudici, Stor. della Lett. Ital., Lez. Ia.
   (4) Eistoire des Langnes Romanes. — Paris, 1841.
   (5) II Burguy, nella Introd. à la Gramm. de la langue d'oìl.