16 CAPITOLO PRIMO.
queutiani gosluut. Denique etiam hodie niulieres Rornanae indie,io meo elegantissime loquuntur, et parius certe qlhm viri. Et quamquam non literatus sit earum sermo, potest tameii ligura ipsa difendi nitorque verborurn eloquentiam adiuvare. Me au-dicnto matrona quaedain romana qnod se antecederet plebeja mulier indignnbatur : proli deum, inquit, (inam omnis observautia, omnisque consuetudo laudabilis per )iacc tempora deficit! quam confusi sunt ordmes cuncti gradusque dignitatis ! Denide ronversam ad eam, quam indignabatur, tunc, inquit, cum sis plebejo patre, plebe-joque viro, ine equestri familia ortam equitique romano nuptam, antecedere non eru-bescis? Sed quid ego de me, iam si deo placet, etiam te patritiis rnulieribus ante-pones\ Haec Sila puro nativoque romano proferebat sermone, ita ut admodum sim equidtun delectatns, cum et verba nitorem gravitatemque sententiae et pronunciatio ipsa vernaculam quandam liaberet suavitateni. Hoc ego modo filiis matres et nu-trices alumnis profuisse ad elegantiam puto. Non quod casus inflecterent ac verba variarent ac terminarent literate. Sed quod purum et nitidum ac minime barbarum sermonem infunderent. Nam et liabet vulgaris sermo commendationem suam, et apud Dantem Poetam et alios quosdam emendate loquentes, apparet. Ilaec ad libellum tnum respondisse volui, quibus si te in sententiam traxi, satis dictum puto; sin per-stas in opinione tua, nec rationum necessitati cedis, plura etiam polnceor in eam sententiam me esse dicturum. Yale.
Noi non vorremo oggi per certo convenire in tutte le opinioni del dotto e sottile aretino, e specialmente in quella che la plebe romana non intendesse la lingua delle commedie, e andasse agli spettacoli scenici per vedere non per udire. Neppure crederemo inintelligibile alla plebe la lingua letteraria, la lingua politica, la lingua del senato, de'comizi, delle concioni (1). Ma remosse queste esagerazioni, resterà sempre nella epistola del Bruni un fatto di somma importanza, cioè l'avere e 'di per il primo accennato alla distinzione tra la lingua scritta e il dialetto parlato. Questa distinzione da lui intraveduta e secondo le forze sue dimostrata, aprirà il campo a studi e ricerche ulteriori (2). Seguiamo intanto brevemente gli scrittoli italiani che si occuparono di questo argomento. Poiché oggi sventuratamente l'onore di tali studi passò in altre terre, raccogliamo almeno con amore le memorie che ci ricordano quello che pensarono e scrissero i nostri antichi: e ciò possa essere eccitamento e rimprovero a questa odierna « leggerezza che ci fa essere ultimi dove potremmo essere primi.»
Ricordiamo avanti agli altri un libretto di Celso Cittadini (3). In esso egli prende a dimostrare che in Roma furono sempre due sorte di lingua, l'ima rozza e mezzo barbara, propria del volgo, l'altra coltivata dall'arte e propria degli scrittori; e raccoglie prove e testimonianze non poche, esaminando buon numero di iscrizioni e passi di scrittori, e sottoponendo gli uni e le altre alla sua critica filologica, la quale se non è sempre giusta e scevra di dubbi o d'errori, sembra però a noi, per l'età nella quale il Cittadini viveva, degna di ammirazione. Non sarebbe forse inutile che ci fermassimo un poco sulle pagine di questo insigne senese del secolo XYI, per mostrare quante sieno le osservazioni da lui fatte intorno alla storia della lingua latina, che sono confermate oggi dalla scienza moderna. Ma poiché «la via lunga ne sospinge», contentiamoci di citare le parole che riassumono in questo libro le precedenti ricerche. Il Cittadini conclude che in Roma furono sempre due maniere di lingua, l'una pura latina, e solamente de' nobili e de' letterati; l'altra mescolata di barbarismi e di falsi latini, del volgo, de'cittadini, de' contadini
(1) Che i cittadini però, anche sotto l'Impero, non fossero intesi naturalmente dai rasaci, lo abbiamo da Dione (Hist. LXXI, 5). Cf. Galvani, Studio 9.° pag. 339.
(2) Non sono molti anni ehe un illustre italiano parlando di questa lettera del Bruni dieeva che nessuno gli invidierà questo sogno da eruditi. Siamo stati sempre in Italia troppo facili a ehiamar sogni aneo le eose più serie, non so se per dispensarci dallo studiarle, o per altra ragione.
(3) Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua, Roma, 1721.