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capitolo Siii.
stata quella delle scuole o 1' altra delle cancellerie. Clic se nella Storia di Firenze è facile e sciolto, nella Storia d'Italia Ba ' latinismo allo stato cronico.
Un'eguale altalena potremmo mostrare negli altri storici minori: ci contenteremo di ricordare che il Davanzati portò all'estremo la tendenza al volgarismo ; e, sforzandolo, spesso lo deforma.
Ma più chiara la tendenza che abbiamo accennato vede nel Bern , e nei suoi imitatori e in parecchi tra i commediografi c novellieri toscani; soprattutto pui nel Ccllini. Qui era la materia stessa che persuadeva di ricorrere allo schietto linguaggio del popolo ; ma gioverà pur notare che il Berni e la sua scuola reagivano nell'ordine delle idee e dei sentimenti ai Petrarch.st e n genere ai vagheggiatori d'ideali superiori; e di necessità quindi doveano reagire anche nell'ore! le del linguaggio; c al purismo petrarchesco, che nfugge dalla più piccola volga: ità, doveano contrapporre lo sboccato e sgrammaticato parlare della plebe fiorentina e toscana.
E ciò chc il Berni e i bernicsch facevano in Toscana, il Ruzzante e il Calmo facevano a Padova e a Venezia, il Lomczzo a Milano, e altri altrove.
Chi guarda pertanto l'insieme dello svolgimento della nostra lingua in questo secolo, deve conchiudere che ad esso più ancora che al secolo di Dante e dovuta la costituzione e l'ampliamento della lingua italiana; anche per ciò che nel cinquecento, oltre l'uso vivo delle corti e dcgl: scritti, se n'ebbe un'accurata analisi nelle opere grammaticali, critiche e storiche di cui essa fu oggetto.
Allora, infatti, per determinare le leggi di questa lingua, si sentì la necessità preliminare di fermare un criterio direttivo dell'opera, di avere, cioè, un'idea esatta sulla natura di quella 'ingua, di chiarire in quaj document essa principalmente si trovasse, di orientarsi nella sua storia, di studiarne gli elementi compostivi, c delmeare l ambito della sua vita.
Una schiera di ci itici animosi affrontò tutti questi problemi e 1 discusse, soffermandus in specie a determinare se questa lingua fosse una cosa sola col dialetto di Firenze e dovesse quindi chiamarsi fiorcntma, come volevano i Fiorentini; o se piuttosto ella fosse un linguaggio spettante a tutta l'Italia, almeno all'Italia eulta, e dovesse qu adi esser detta, come infatti c avvenuto, taliana. La questione, diremo così, guelfo-federale e ghibellinio-unita a, che vedemmo agitarsi tra gì scrittori di politica, si r movo o piuttosto si rispecchiò anche nella lingua, e divise i critici e i grammatici in due campi, l'uno soster tore della sua italianità, l'altro della sua toscanità e fiorentinità.
Fin dal principio del secolo un Vincenz > Calmcta, in uno scatto Della volpar poesia che non ebbe l'onore della stampa, consigliava chi volesse acquistare il possesso dolila lingua poetica d'imparar prima il volgar fiorentino, di darsi qu id allo studio d; Dante e del Petrarca, e di recarsi infine alla corte di Roma per acquistarvi l'ult mo affinamento di questa lingua, ch'egli però chiamava cortigiana. A Roma, infat„,. (egli diceva), concorrono i cortigian d tutta Italia, vale a dire ,. fiore delle corti provinciali: vi i meg o parlanti italiani mettono insieme il loro tesoro lingr stico e ne formano un parlar unico, che c il meglio trascelto da tutti, e può dirsi la quinta essenza del fiorentino scritto, del fiorentino parlato e di tutti i volgari d'Italia (1).
La lingua delle cori in genere pareva anche al Castiglione, che vi avea passato tutta la vita, pri, na a Mantova, poi ad Urbino, poi a Roma, la migliora e la più sicura chc uno scrittore potesse segui;e; ed egli nella prefazione al suo Cortegiano < .'chiara di non voler scrivere nella lingua del Boccaccio, nè nel viti) Vedi specialmente L. Castclvetro, Giunta decima al libro primo dello Prose del Bembo, e di nuovo nella Correzione di alcune cose nel dialogo delle lingue di B. Varchi, pag. 56 e segg. (Padova, 1711). E cfr. Barbieri, Bell'origine della poesia rimata, pag, 29, dal quale sappiamo che il libro era dedicato ad Elisabetta Gonzaga, duchessa d'Urbino.