Nella primavera del 1843 giungeva ad Aquila, dai monti del
comasco, un giovane su i ventitré anni (ne aveva invece 33 poiché
era nato nel 1810, n.d.c.), Giuseppe Adamoli, alto, snello,
bruno, dall'aspetto nobile, dai tratti gentili. Raramente
compariva nelle vie, nei ritrovi cittadini. Non usciva
generalmente dalla casa che per recarsi verso la campagna, per
ammirarvi le acque, le valli, i monti, che gli ricordavano le
acque, le valli, i monti della sua forte provincia. Molto
camminava, ma faceva anche, qua e là, sui poggi, ai margini dei
boschi, sulle rive del piccolo lago di Vitoio, lunghe soste.
Doveva correre, forse, col pensiero afflitto, in quel
raccoglimento, ai suoi monti, alla storica Valsassina, alla sua
Narro, che, quale cospiratore e perseguitato politico, per
sfuggire all'arresto, da parte della brutale polizia austriaca,
aveva dovuto, con tutta fretta, lasciare. E doveva pensare alla
famiglia, alla mamma, agli altri fratelli, viventi pure essi in
esilio, e agli altri compagni di congiura, sventuratamente
catturati, alle sciagure della patria schiava, smembrata,
torturata di suoi sette tiranni.
Quella vita, tinta di romanticismo, ma priva di operosità, con i
fermenti patriottici che gli riscaldavano l'animo, non lo
soddisfaceva. Talvolta lo pungeva il rimorso per l'allontanamento
da quella lotta, nella quale, nonostante il lugubre minaccioso
capestro, erano serenamente rimasti i suoi compagni. Si sentiva
umiliato, avvilito, senza una propria personalità, solo nella
vita solitaria. Era tenuto, inoltre, in sospetto dalla polizia
borbonica, che lo pedinava.
Anche i cittadini lo scansavano. Vi erano già state, per essersi
confidati con sornioni forestieri, dolorose sorprese, con
arresti, condanne, deportazioni.
Non poteva continuare in quella vita, che viveva tra molte
diffidenze e senza scopo. Pensava, quindi, di tornare alle sue
montagne, per riprendervi, a qualunque costo, anche della vita,
il suo posto di combattimento. Quando, però, sapeva che anche ad
Aquila si cospirava per spezzare le catene della schiavitù, per
riconquistare l'unità e la libertà, rinunciava alla partenza. E
a mano a mano che ne penetrava i segreti, aumentava per quel
popolo la sua simpatia, la sua ammirazione, maggiormente quando
sapeva che da esso erano state tentate molte insurrezioni, spente
nel sangue. L'ultima, che risaliva alla primavera del 1841, era
fallita, non per colpa degli Aquilani, ma per il mancato
concorso, promesso con solenne impegno, dei congiurati delle
vicine province e della stessa Napoli. Vi era caduto, però, il
Comandante militare borbonico, degno rappresentante dei tiranni
d'Italia.
Dopo di ciò, il lombardo, che aveva ormai rivelato ai nuovi
amici la sua vera identità, chiedeva ed otteneva di entrare a
far parte del nobile movimento meridionale.
In tali nuove condizioni si giungeva ai primi di luglio. In una
di quelle sere, dopo un tramonto, dietro alle montagne, rosso di
sangue, molti di quei giovani, tra cui l'Adamoli, per vie
diverse, alla spicciolata, dalla città si dirigevano verso il
piccolo villaggio di Tempera, situato a cinque chilometri, sulle
rive del fiume Vera, breve di corso, ma ricco d'acqua, di verde,
di poesia. Vi giungevano quando su l'abitato, in un cielo
stellato, sovrastava alta la notte, alto il silenzio. I
cospiratori nobilissimi s'andavano a raccogliere, come d'intesa,
nei locali di una fonderia, di proprietà dell'industriale
Domenico Strina. Tra i convenuti vi era, anzi, un suo figlio,
ingegnere Isidoro.
In quella notturna riunione si doveva, tra l'altro, ascoltare un
emissario del valoroso bolognese Livio Zambeccari, per
determinare il concorso che la patriottica Aquila avrebbe dovuto
dare all'insurrezione, fissata, per tutto il territorio
nazionale, dalla Sicilia al Piemonte, dal Lazio alla Lombardia,
per il prossimo mese di agosto.
Dallo stesso emissario sapevano i particolari dell'insurrezione,
che sarebbe stata condotta decisamente sino in fondo, sino alla
vittoria.
Sapevano anche che ai nuovi cimenti avrebbero partecipato, oltre
l'animatore Zambeccari, il corso Alessandro Cipriani, il modenese
Nicola Fabrizi, creatore della legione italiana, il nizzardo
Ignazio Ribotti, con molti altri ufficiali, reduci dalla
sollevazione di Spagna, i livornesi Michele Palli e Gian Paolo
Bartolomei, i bolognesi fratelli Pasquale e Saverio Muratori, il
marchese Pietramellara, e i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera,
irredenti, dell'armata austriaca.
Era da qualche tempo oltrepassata la mezzanotte, quando, concluse
le discussioni, decidevano di sciogliersi, elevando il pensiero
alla grande patria, che piangeva in schiavitù, per la
liberazione della quale essi congiuravano, offrivano la giovane
vita.
Fuori si svegliavano già, nella notte debolmente rischiarata
dalla luna falcata, sorta da poco, i primi segni di vita. Sul
fiume, le acque del quale scorrevano in un lieve mormorio, vi
camminavano, con piccoli lumi, i pescatori di trote. Qualche luce
appariva qua e là, dalle finestre delle case, che si
sovrastavano sul piccolo colle. S'udiva, pure, il calpestio di
persone, che, per la raccolta della legna, s'avviavano, con i
muli, verso i boschi della montagna. Dal forno usciva un fascio
di luce, che si proiettava su la piccola piazza, in fondo al
villaggio.
I cospiratori dovevano agire, quindi, con circospezione, per non
essere scoperti dai realisti borbonici, sempre in vedetta,
numerosi nella contrada. Da una piccola imprudenza potevano
essere rovinati. All'alba ognuno rientrava, senza incidenti,
nella propria casa.
L'inviato dello Zambeccari partiva soddisfatto della missione così
bene compiuta. Era suo convincimento che gli Aquilani, dal sangue
sabino, avrebbero scritto un'altra bella pagina, nei prossimi
avvenimenti, nella loro storia.
La sua attenzione era stata attirata, in modo particolare, da
quel lombardo, che aveva parlato poco, in verità, ma che doveva
molto ponderare, meglio operare.
Nelle famiglie Strina Adamoli
Nei giorni che seguivano s'iniziava, con fede e fervore, il
lavoro di preparazione. Lavoro che molto affaticava, dovendosi
svolgere, tra le molte difficoltà, con avveduta prudenza. Un
piccolo fallo poteva condurre alle più dolorose conseguenze. La
polizia, sempre sospettosa, vigilava con occhi bene aperti,
specialmente su coloro che erano già segnati, come il giovane
ingegnere Strina, nel libro nero dei ribelli. Bisognava, poi, ben
guardarsi da coloro che si presentavano in veste di patrioti, non
trattandosi, il più delle volte, che di autentiche infami spie.
Questo giovane ingegnere, distinto nei tratti, bello nella
persona, il più attivo ed il più coraggioso ed entusiasta dei
congiurati, apparteneva a quella famiglia Strina, che era giunta
ad Aquila, qualche anno prima, dalla provincia di Ascoli Piceno.
Gli antenati erano però, di Capri, ed appartenevano alla nobiltà
napoletana, con seggio a corte. Famiglia, quindi, molto antica ed
illustre.
Avevano ad Aquila, precisamente a Tempera, ove allora abitavano
una parte dell'anno, con cartiere e fonderia di rame, una ricca e
ben rimunerativa industria.
Il nostro ingegnere, non appena laureato, nonostante vivesse nei
trambusti e nei pericoli politici, s'ammogliava. Sceglieva a
compagna un'altra forte italiana, ricca proprietaria di Tempera
stessa, donna Angelamaria Bizzoni. L'amore per la patria
disgregata e schiava, diveniva talvolta in essi più forte
dell'amore per la famiglia, più acceso dell'amore per il
godimento degli agi, offerti dalla ricchezza.
Il giovane Strina, infiammato sempre più di nazionale fervore,
si era stretto al lombardo con vincoli di fraterna amicizia. Lo
ricercava, con affettuosa premura, vi si intratteneva, faceva con
lui, quasi coetaneo, lunghe passeggiate, in luoghi solitari, per
parlare più liberamente delle loro aspirazioni, dei loro arditi
pericolosi progetti. Qualche volta lo conduceva anche in casa,
ove conosceva, oltre la giovane moglie, anche i genitori sempre
in dolore per le sventure della patria, sempre in ansia per
l'audacia del figlio. Vi conosceva un altro fratello, Giacinto,
laureato anche lui, ma consacrato, per forte inclinazione, servo
di Dio, nell'ordine dei Francescani, con il nome di padre Emidio.
Appariva forte nella sua fede, saggio nei suoi giudizi, dignitoso
nel suo severo abito. Non disdegnava il movimento nazionale,
determinato dal risveglio del passato, nei nuovi più progrediti
tempi.
Vi conosceva anche, e con queste il bel quadro si completava, le
due sorelle, Febronia e Doralice, quasi bionde, gentili, bene
educate, molto belle nella loro elegante, disinvolta semplicità.
La conversazione diveniva, ad ogni nuovo incontro, sempre più
intima, sempre più viva e cordiale. Non mancavano mai in essa
accenni, come era naturale, alla quistione politica e nazionale,
ai soprusi della polizia, alle infamie dei governi di Napoli e di
Vienna, e al castigo di Dio, di cui, prima o dopo, sarebbero
stati colpiti.
Quando il lombardo si ritirava a notte nella sua stanza, non
poteva non ripensare a quelle conversazioni, alle nobili persone
di quella famiglia amica, a quelle due gentili giovani,
specialmente alla Doralice, che aveva per lui un particolare
fascino.
Ripensava anche alla casa lontano, sentendo più vivo,
nell'esilio, l'affanno della solitudine, della stanza vuota. Come
volentieri, nei palpiti che vibravano sempre per la donna
nell'animo umano, avrebbe costituito, nella santità delle leggi,
la sua nuova dolce famiglia!
Il pensiero, le facoltà sensibili s'assopivano lentamente nella
visione della patria dolorante, della madre in pena, della
giovane bionda, che diveniva sempre più dolcemente imperiosa
nella sua deserta vita.
Poiché gli erano state rivolte spesso domande, un giorno, anche
lui, dava maggiori notizie sul conto suo e della sua famiglia.
Diceva che gli Adamoli, secondo i dati desunti dalla storia,
d'origine normanna, avevano in quel tempo il loro principale
centro a Bellano, bianco villaggio, che si rispecchiava nelle
limpide acque del poetico lago di Como. Quel lago colmo di
bellezza e di leggende, che aveva offerto le più sensibili scene
ed i maggiori personaggi ai due romanzi, da poco pubblicati: - I
Promessi Sposi - di Alessandro Manzoni, scrittore e poeta molto
amato in Lombardia, e il - Marco Visconti - di Tommaso Grossi,
altro gentile poeta, di Bellano, amico, quindi, di famiglia. E'
vero che, per ragioni della sua professione di notaio, viveva a
Milano, ma d'estate tornava, puntualmente, per un giocondo
riposo, alla paterna casa, che usciva, come una deità, quasi
dalle acque fresche e chiare del lago.
Ma se la famiglia aveva casa a Bellano, aveva pure casa e
possedimenti a Narro, a dieci chilometri, su la montagna. Da lassù
la vista spaziava per la vasta Valsassina, popolata da bianchi
villaggi, avvolti di boschetti e di silenzio, in fondo alla quale
scorreva, tra il verde, il fiume Pioverna. Contrada ricordata dal
Manzoni, appunto nel suo romanzo, per la visita festosa fattavi,
nel 1600, dal cardinale Federico Borromeo. Ricordata anche per
trovarvisi il tenebroso Castello dell'Innominato, i ruderi del
quale erano ancora in vista, come a richiamare alla memoria le
antiche bricconate, che vi erano state compiute.
Contrada pure benedetta, poiché lassù, nei suoi boschi, nei
suoi sperduti casolari, nelle sue caverne, molti perseguitati
politici trovavano sicuro esilio. Vi si era rifugiato, prima che
lui partisse, lo stesso Tommaso Grossi, ricercato dalla polizia
austriaca, per i suoi ideali di unità nazionale e di libertà.
Il ramo degli Adamoli, al quale apparteneva, si trovava in
Lombardia da tre secoli circa. Prima viveva nello Stato
Pontificio, a Roma, godendovi ricchezze ed onori. Aveva reso con
i componenti, importanti servizi civili e militari alla Casa
della romana Chiesa ed alla Casa Colonna. Avevano pure i suoi
partecipato alle Crociate, per la liberazione del Sacro Sepolcro.
Perseguitati, in seguito, per manifestazioni di idee troppo
liberali, dal Sacro Ufficio, con la confisca di tutti i loro
beni, erano stati costretti, per sottrarsi a provvedimenti più
gravi, a rifugiarsi nella Lombardia.
Il ramo della stessa famiglia, rimasto a Roma, si estingueva nel
1810, con Maria Adamoli, Superiora delle Certosine.
Ed altro raccontava, destando sempre più viva simpatia nella
famiglia Strina.
Accennava anche, con molta semplicità, alle peripezie incontrate
nella fuga di allontanamento dal paese natio, sotto gli occhi
quasi della polizia, da cui era ricercato.
In un primo momento, seguendo l'esempio degli altri profughi,
voleva dirigersi, attraversando la Svizzera, verso il Piemonte,
faro di italianità. Essendo, però, difficile lo sconfinamento,
per l'alta neve, che copriva in quell'inverno le montagne,
prendeva la via più facile del mezzogiorno.
Il distacco dalla mamma, dagli altri familiari, dalla casa
diletta, dalle valli, dai suoi monti, nella notte nera, gli
faceva sanguinare il cuore. Non era possibile riprodurre con
parole, neppure in parte, i sentimenti tumultuati, in quel
momento, in fondo all'animo in tempesta.
Si metteva in cammino, nella buia notte, con pochi oggetti,
chiusi in un sacco da viaggio, e con il danaro, in monete d'oro,
cucito nella cinghia dei calzoni.
Non era solo, nella dolorosa marcia. Lo accompagnava altro
fratello, profugo anche lui, che si era fermato in Toscana. Il
viaggio era stato compiuto quasi tutto a piedi, scansando le vie
maestre. I fiumi, specialmente quelli di confine, erano stati
attraversati su barche, in posti nascosti; qualche volta anche a
guado. Aveva dormito nelle campagne, in poveri casolari, tra
persone spesso, per la loro diffidenza, pericolose. Si era potuto
salvare dall'arresto, dal quale qualche volta si era sentito
minacciato, per l'avvedutezza, la prontezza dei suoi atti.
Ed ora era là, senza notizie dei suoi, in attesa
dell'adempimento di quegli eventi, che accarezzavano le speranze
di tutti i buoni.
Negli eventi di Tempera
Mentre i rapporti, tra l'Adamoli e la famiglia Strina, divenivano
sempre più cordiali, s'avvicinava il giorno fissato per
l'insurrezione armata, che doveva iniziarsi, appunto, il 31
luglio, nello Stato napoletano, per quindi estendersi, nei giorni
successivi, nel territorio degli altri Stati. Ma le vedette
aquilane, collocate in punti elevati, nella notte dal 31 luglio
al primo agosto, guardavano invano le cime dei monti, che, come
segnale dell'inizio della lotta, si sarebbero dovute illuminare,
con grandi fuochi, come per la notte di S. Giovanni. Non si
illuminarono quelle cime né quella notte, né nelle notti
successive. L'Austria, sempre maleficamente attiva, che aveva
scoperto le file della congiura, si era affrettata di darne
avviso agli altri governi, impedendo così, con atti ferocemente
repressivi, ogni altra azione.
I nostri, che stavano a Tempera, pur avendo avuto perquisizioni
in casa, si erano potuti salvare dai consueti provvedimenti di
polizia.
Si trovava in quel tempo a Tempera la famiglia Vicentini, della
quale faceva parte il giovane Ascanio, altro fervido patriota e
cospiratore, capo del Comitato della morte, costituitosi a
Paganica "per distruggere" come si leggeva in un
rapporto della polizia "il governo, il Re, l'ordine".
Come avviene sempre tra giovani, che s'incontrano in piccoli
centri, anche l'Ascanio, che si distingueva per prestanza fisica
e per i nobili lineamenti, s'avvicinava e si legava d'amicizia
con il lombardo, che sempre esercitava su gli altri, per la
compostezza, la serietà, la vigoria ed il maschio accento
comasco, molto ascendente.
La piccola brigata, spesso aumentata con i giovani della vicina
Paganica, sede del comune, passavano molte ore sulle rive del
Vera; più spesso spingevano le gite verso i colli, verso i
monti, coperti di boschi, colmi di canti, tenendo molto in
orgasmo la sospettosa polizia, che sapeva in ognuno di essi un
attivo congiurato. In verità appartenevano a quella setta
irrequieta, di cui il Vicentini, il più acceso, era capo.
In quelle riunioni, apparentemente innocenti, vi si discutevano
proposte, vi si esaminavano progetti, tendenti a creare, con una
estesa rivoluzione in ogni parte d'Italia, l'ordine nuovo.
Vi erano anche ore, in cui ognuno si raccoglieva nei propri
pensieri. L'Adamoli, anche se circondato da così buone amicizie,
non poteva non considerare melanconicamente la sua condizione; la
lontananza dalla sua terra, calpestata dal barbaro piede
austriaco; la lontananza dalla famiglia, della quale, per ragioni
appunto politiche, non poteva avere notizie.
Pensava anche a quell'evento, circoscritto entro la sua
esistenza, nel quale doveva sciogliere i voti segreti del proprio
animo, per condurre la vita al principale suo scopo. Appariva
nella sua mente, in tali fantasticherie, sempre più chiara la
figura di quella bionda, già cara al suo cuore. Volentieri
l'avrebbe condotta dinanzi all'altare, se altre fossero state le
sue condizioni, tanto più che anche lei manifestava per lui una
aperta viva simpatia.
Più fortunato appariva l'Ascanio, già fidanzato alla Febronia,
anch'essa bella nella sua semplice disinvolta grazia, nel suo
fresco gioviale carattere.
Su i sentimenti della Doralice aveva modo di meglio assicurarsene
quando una sera tornavano, in comitiva, dalla campagna. La notte
aveva già disteso le sue ombre nel piano, su i colli, su i
monti. Il ruscello, che fiancheggiava la strada, entro il quale
si riflettevano le stelle, mormorava flebilmente nel suo corso.
L'ora d'intenerimento, in cui vibravano le gentili anime
innamorate, li incoraggiava alle dolci confidenze, ai cari sogni.
E sognarono. Ma l'amore, confermato in quella dolce sera, doveva
rimanere, ancora per qualche tempo, nel segreto del loro cuore.
Intanto l'autunno scendeva dai monti con il suo freddo, la sua
melanconia. Dopo la vendemmia, in ottobre, mentre le foglie
ingiallite cadevano, la famiglia Vicentini tornava ad Aquila.
L'Adamoli rimaneva a Tempera, essendo entrato a far parte, in
qualità di socio di quell'industria, che gli Strina colà
avevano.
Questo accordo, davvero provvidenziale, gli procurava
quell'impiego, che lo toglieva dalle preoccupazioni economiche;
che legittimava, in qualche modo, di fronte alla polizia
borbonica, la sua dimora nel regno di Napoli; che gli agevolava
quella domanda, che egli intendeva presentare alla famiglia
Strina.
Nella primavera del 1844 si celebravano ad Aquila le nozze
Vicentini-Strina. In quell'occasione l'Adamoli, incoraggiato dai
consigli di autorevoli amici, chiedeva ufficialmente in isposa la
sua Doralice. I genitori, che avevano già intuito quell'amore,
si riservavano di dare più tardi una risposa definitiva.
La quistione nazionale subiva, nel frattempo, un altro rinvio,
anche per il doloroso episodio dei fratelli Bandiera e dei loro
eroici compagni, che, nel giugno, sbarcati a Crotone per
accendervi il fuoco dell'insurrezione, erano stati traditi,
sopraffatti, arrestati e fucilati.
Nel luglio seguente, ad ogni modo, le nostre famiglie, strette
ormai da vincoli di parentela, si ritrovarono a Tempera, per
trascorrervi l'estate.
Nel settembre, nel giorno della festa della Madonna, gli Strina
davano il consenso per il fidanzamento della signorina Doralice,
con il signor Giuseppe Adamoli, loro socio in quell'industria,
bene sviluppata. In conseguenza, i due promessi sposi, avendo
maggiore libertà, potevano intrattenersi più a lungo, nelle
loro conversazioni, e potevano fare anche solitarie passeggiate
lungo il Vera, alberato di salici e di pioppi, tra i quali
s'aggiravano le libellule e cantavano i fringuelli e le capinere.
Talvolta si spingevano ad una delle sorgenti, la maggiore, che,
ad un chilometro, scaturiva dal fianco di una collina rocciosa,
spumosamente rumorosa, bianca come neve, unendo al canto
dell'acqua, il canto intimo dei loro animi, vaganti nei sogni.
Nel dicembre, prima delle feste, rompendo ogni altro indugio,
nell'intimità familiare, si celebravano le nozze Adamoli-Strina.
Non consentivano i tempi un qualche lontano viaggio. Gli sposi
felici, quindi, dopo una visita alla storica Sulmona, rientravano
a Tempera, per iniziarvi una nuova vita.
Egli, l'Adamoli, riprendeva, nell'azienda, con maggiore fervore,
il suo posto di lavoro; lei, la Doralice, si metteva
coraggiosamente a capo della casa, ponendo nel miglior modo in
atto quelle cognizioni apprese dalla buona mamma.
Potevano essere felici, pienamente, se altri fossero stati i
tempi.
Fedele alle sue idee, viveva, invece, il lombardo, come vivevano
i cognati Isidoro ed Ascanio, in uno stato di particolare
turbamento. Uno stesso spirito di ribellione e di lotta
continuava ad infiammare i tre cognati, ferventi seguaci di
Garibaldi e del mistico Mazzini.
Amavano i tre la famiglia, nel significato più nobile, ma
anch'essi non sentivano, nelle agitazioni del tempo, che la voce
accorata che saliva, come invocazione, dalle torture della patria
schiava. Spesso si riunivano, con altri fedeli amici, tra cui i
signori Rodrigo de Paulis, Gioacchino Volpi, Giovanni Antonelli,
Luigi Cirilli, Camillo Nicola Vespa e Raffaele de Vecchi, per
esaminare i messaggi segreti, che giungevano dagli altri Comitati
rivoluzionari nazionali. Si riunivano anche per provvedere alla
propria difesa, contro le insidie e le minacce del molto attivo
partito realista borbonico, diretto a Paganica, principalmente,
dai signori Giocondo Vivio, Giacinto Centi, Daniele
Masciovecchio, Giovan Battista Centi, Raffaele Berardi, Girolamo
Giusti, Mattia Pompilio, Luigi Vivio e Andrea Biordi.
Non mancavano con essi zuffe, contenute, però, dai nostri per
ragioni di prudenza.
In tal modo, tra congiure, contro congiure, perquisizioni, fermi,
interrogatori ed altre aspre forme di persecuzione politica,
trascorreva il 1845. Prima che si chiudesse l'anno, quando le
campagne, le valli, i monti erano coperti di neve e di silenzio,
precisamente il 25 dicembre, giungeva ad allietare la casa
Adamoli a Tempera un bel maschietto, al quale si dava il nome
lombardo di Gelasio.
Nel 1846 gli eventi, nell'ordine politico e religioso,
culminavano con l'elevazione al soglio pontificio, dopo la morte
di Gregorio XVI, del cardinale Giovanni Mastai Ferretti, bello
della persona, affabile, di tendenze liberali. Molti ne gioivano.
I neo-guelfi, partito sorto in contrapposto a quello
rivoluzionario mazziniano, ne erano entusiasti, sperando di
raggiungere la meta, conformemente al loro programma, attraverso
l'opera del papa, in via pacifica. L'entusiasmo aumentava quando
il 16 luglio, come primo atto, Pio IX, con l'editto del perdono,
nuovo negli annali della Chiesa, concedeva una generale amnistia
a favore dei detenuti politici.
Ma le belle promesse e le tante speranze di popolari riforme
naufragavano in seguito, per le mene degli Stati reazionari, tra
cui la perfida Austria.
Nel 16 gennaio del 1847, nell'anno degli inutili moti, la casa
degli Adamoli era allietata dalla nascita di altro maschietto, al
quale si dava il nome di Luigi. Anche le case di Isidoro Strina e
di Ascanio Vicentini, i più irrequieti tra i cospiratori, erano
messe lietamente a rumore da una bella nidiata di sani vispi
bambini.
Si giungeva, in tal modo, al 1848, all'anno in cui si iniziavano
tutte quelle insurrezioni e quelle guerre, che dovevano rendere
sempre più sacro, con il fiume del sangue versato, il diritto
del riscatto nazionale.
Attorno ai nostri, segnati nei registri neri, si esercitava dalla
polizia, ed anche dagli zelanti realisti, la più oculata
vigilanza. Non se ne scoraggiavano, né si preoccupavano dei
provvedimenti che, da un momento all'altro, potevano essere
adottati ai loro danni.
Nel seguente 1849, tanto glorioso quanto sfortunato nei nuovi
moti e nella nuova guerra contro l'Austria, la vendetta dei
tiranni colpiva inesorabilmente coloro, che non avevano
desiderato che l'unità, la libertà, la grandezza d'Italia.
Nel 28 ottobre, mentre il cerchio della polizia si stringeva
sempre più attorno a Tempera, nella casa Adamoli, come
determinate tappe di un fiorito cammino, nasceva Giovanni Maria,
biondo come la mamma, vispo e bello come gli altri fratelli.
Il 20 dicembre dello stesso 1849, la polizia borbonica,
irrompeva, con la sua violenza, a Tempera. Molti, avvertiti in
tempo, tra questi il Vicentini e l'Adamoli, riuscivano a
sottrarsi all'arresto con la fuga verso la montagna; non
riusciva, invece, lo Strina a sottrarsi alla cattura.
Dalla istruttoria, che si iniziava subito contro di loro,
risultava:
1. che i cospiratori erano stati spesso visti riunirsi anche nel
caffè di Giacinto Pietrangeli, nel forno di Camillo Visca, nella
farmacia di Giandomenico Tascione, nella casa di D. Andrea Rossi
e nel Giudicato regio;
2. che scopo di tali riunioni era di tenere accesa, quali
appartenenti al Comitato segreto della morte, di cui era capo il
Vicentini, l'agitazione, tendente ad atterrire i realisti, a
distruggere la sacra persona del Re e della reale famiglia, di
rovesciare il governo e di stabilire la repubblica;
3. che in periodi diversi dagli stessi agitatori erano stati
commessi atti di violenza, anche contro la Gendarmeria reale,
assalendo la loro caserma e portando via le loro armi.
Vi erano, inoltre, le accuse secondarie che i realisti, per odio
di parte, presentavano numerose.
Tutto ciò, quantunque fosse nelle previsioni, pur non mancava di
gettare un certo turbamento nelle tre famiglie, le quali, per
sottrarsi ad altre violenze, pure da parte della soldatesca
borbonica, che aveva occupato militarmente Tempera, si ritiravano
ad Aquila. Anzi, una compagnia di quella soldataglia si collocava
nella casa degli Strina, saccheggiandovi quanto vi si trovava.
Gli stabilimenti, per l'allontanamento dei dirigenti e di molti
operai, anch'essi compromessi, dovevano sospendere ogni attività.
Ma quella bufera, presentatasi così fosca, non toccava, non
deprimeva gli animi forti dei generosi colpiti. Non emettevano un
lamento quando lo speciale tribunale condannava l'ingegnere
Isidoro Strina, già padre di cinque figli, a sette anni di
relegazione, da espiarsi nell'isola di Ponza, ove era subito
trasferito.
Tutti gli ideali, tutti i sogni di progresso, di felicità
familiare, di unità e di libertà, cadevano ancora una volta
sotto i colpi dell'umana malvagità. Ma non cadeva la speranza,
che fiammeggiava sempre viva nel cuore, della riscossa e del
trionfo della causa santa.
Gli Adamoli nel loro destino
Il lombardo e patriota Giuseppe Adamoli, distaccandosi, in quel
frangente, dai suoceri e dai cognati, nella primavera del 1850,
si rifugiava, con tutta la famiglia, nelle montagne del teramano,
precisamente a Tossicia. Apriva successivamente, sul vicino fiume
Mavone, con gli operai profughi anch'essi da Tempera, altra
fonderia di rame. Idea ottima, poiché quell'attività lo
liberava non soltanto dai morsi del bisogno, ma anche dai
sospetti, di cui erano sempre circondati i forestieri.
Nella nuova dimora, alle falde del Gran Sasso, dalle valli
fresche di acque limpide, dai boschi folti e musicali, vi era
molta poesia, ma anche molta solitudine. Non vi erano strade, né
mezzi di trasporto, e Teramo era molto lontano. Appariva un vero
posto per esiliati.
Ciò nonostante, confortati dalla bella stagione e dai tre vispi
bambini, che tenevano allegra la casa, gli Adamoli non se ne
affliggevano, non disperavano. Quell'industria, d'altra parte,
essendovi a Tossicia, e nei villaggi vicini, molti lavoratori di
rame, già clienti di Tempera, vi si ebbe subito ad affermare, a
prosperare.
Rendeva disagiata e dura quella vita, in primo tempo, l'inverno
eccezionalmente cattivo: cattivo con le abbondanti nevicate; con
il freddo intenso, che ghiacciava le acque dei torrenti e dei
fiumi; con le bufere, che scendevano violente dai monti,
seminando rovina, ove passava. Non mancava il pericolo dei lupi,
cacciati dalla neve e dalla fame dalle loro tane, e il pericolo
dei briganti, che si aggiravano, feroci come i lupi, per la
contrada.
Ma anche quell'inverno, che aveva maggiormente segregato la
montagna dalla pianura, passava. Con la primavera, con l'azzurro
del cielo ed il verde dei boschi canori, la natura ritrionfava
nella rinnovata divina giovinezza.
Anche i nostri, in quel santo risveglio, rinascevano alla vita ed
alla speranza.
L'Italia, intanto, dopo le fiammate gloriose, ma sfortunate del
1848-49, con le restaurazioni assolutistiche, si trovava nel 1851
di nuovo prostrata sotto la sanguinosa reazione, capitanata dalla
spietata Austria. L'Adamoli, quando poteva rimettersi in
comunicazione con L'Aquila, sapeva i nomi di altri amici,
mandati, come il cognato Isidoro, nelle sofferenze delle Isole
del Mediterraneo. Tra essi figuravano il barone Cappa e due dei
sette fratelli Castrucci, altra famiglia di eroi nazionali.
Ma sapeva anche, dolorosamente, la morte del suocero, avvenuta
nell'agosto, ucciso dalle ansie, dalle sventure domestiche e
nazionali.
Scompariva con Domenico Strina, prematuramente, un uomo di
eccezionale attività, che era stato cittadino integerrimo,
marito e padre esemplare, creatore di quell'industria ricca, per
la contrada di Paganica e per i lavoratori, di tanti benefici.
Scompariva quell'uomo, tanto stimato ed amato, ma le sue virtù
si trasmettevano, vive, nei figli. Si trasmettevano in padre
Emidio, religioso di singolari doti, di vasta cultura, di
infiammata penetrativa parola, di alto spirito di carità, santo
nelle opere e nei costumi. Si trasmettevano in Isidoro, ingegnere
di grandi qualità, che, seguendo le orme paterne, scriveva nella
storia del patrio riscatto, con il proprio ardimento ed il
proprio sacrificio, una luminosa pagina, di cui la discendenza
doveva essere fiera, onorata. Si trasmettevano nelle figlie
Sempronia e Doralice, di alto nobile sentire, mogli e madri
esemplari, dal forte spirito religioso e patriottico.
Ma quella scomparsa procurava alla famiglia Strina, vivente ora
ad Aquila, oltre l'acerbo lutto, preoccupazioni anche di
carattere economico, avendo la proprietà non libera, gli
stabilimenti chiusi, il capo relegato nelle isole maledette.
Non trovava conforto, pel momento, che nella bontà degli altri
parente, e nella speranza di giorni migliori.
Con il tramonto dell'estate, nel pieno melanconico autunno,
precisamente il 23 novembre dello stesso 1851, altro bambino,
Aldobrando, si aggiungeva alla schiera, che teneva già
allegramente in iscompiglio, a Tossicia, la famiglia degli
Adamoli.
L'invernata, che seguiva, era, nel complesso, meno cattiva per i
nostri, abituati ormai a quei luoghi, ed agli usi di quegli
abitanti, sempre con essi rispettosamente ospitali.
Nel 1852, con il ritorno sul trono di Francia di Napoleone III,
andava a capo del governo del Piemonte, faro sempre acceso di
italianità, con grandi speranze, il saggio e scaltro Camillo
Benso, conte di Cavour.
L'Adamoli, che seguiva attentamente gli eventi, sperava sempre
che un qualche miracolo giungesse a modificare le sorti
nazionali, e a metterlo in condizione di poter tornare, almeno
per una volta, a rivedere la sua Valsassina, il magnifico lago, i
parenti, l'adorata mamma. Aveva ricevuto qualche notizia, ma non
sufficiente per soddisfare il suo desiderio, per calmare la sua
ansia.
In quello stesso anno, il 12 agosto, un raggio di luce giungeva
ad illuminare la desolata casa Strina, con il ritorno in essa,
dopo tre anni circa di duro carcere, di Isidoro, per grazia
ottenuta, per intercessione della regina, alla quale si era
rivolta la buona moglie Angelamaria. Tornava in quella casa in
cui, come si legge in uno scritto del tempo "...estintosi il
signor Domenico, la superstite famiglia, allora composta dalla di
lui vedova, della nuora, moglie del figlio Isidoro, già padre di
cinque viventi figliuoli, con esemplare virtù ed abnegazione,
seppe dignitosamente mantenersi all'altezza della sua sociale
condizione".
Era stata la scarcerazione sempre un bene, quantunque vincolata
da una rigorosa sorveglianza di polizia e dall'interdizione
dell'esercizio professionale, ciò che durava sino alla
liberazione d'Italia.
"Nonostante un tale incubo politico e morale" come si
legge in un altro scritto del tempo "che durò sino al 1860,
egli, colla sua intemerata condotta, seppe riscuotere
l'ammirazione ed il plauso dei suoi conterranei, e nell'esercizio
professionale d'ingegnere, a cui si dedicò con capacità e
probità esperimentata, si creò, mercé il proprio onorato
lavoro, dopo le tante perdite, la nuova agiata condizione".
Nel febbraio del 1853, nel decimo anno dalla partenza dalla sua
Lombardia, l'Adamoli vedeva cadere ancora una volta un nuovo
tentativo di riscossa nazionale. L'insurrezione, infatti,
promossa dai repubblicani, con a capo Giuseppe Mazzini, a Milano,
nella città sempre generosamente pronta a compiere disperati
atti, era brutalmente spenta nel sangue ed in nuove dure
condanne.
Nondimeno le speranze, sostenute da una forte fede, non
diminuivano, né s'affievolivano.
Nel frattempo, il 22 settembre, il primo giorno di autunno, mite
e dolce in quelle valli, giungeva ad ingrossare ancora la schiera
dei piccoli, con molta gioia per i genitori, la graziosa Maria
Cristina.
Nel considerare il loro stato gli Adamoli capivano, però, che
per un migliore loro avvenire e dei loro figli, dovevano uscire
da quell'isolamento, tanto più che la persecuzione politica era
stata rallentata nei loro confronti.
Nella primavera del 1854, mentre a Parma lo squilibrato Carlo III
cadeva sotto il pugnale dell'operaio Antonio Carrara, l'Adamoli,
sollecitato anche da amici, tra cui un lombardo, si recava a
Teramo, per esaminare sul posto un eventuale trasferimento nelle
sue vicinanze. Pensava di aprirvi altra fonderia, in conseguenza
di ciò s'incontrava con un tal Giandomenico Spinozzi,
stabilendo, di comune accordo, che essa fonderia sarebbe sorta su
un suo terreno, nel territorio di Rocciano, sul fiume Tordino,
ove esisteva già un mulino.
La costruzione, sotto la direzione tecnica del lombardo, non
tardava ad iniziarsi.
Durava quel lavoro, per le tante difficoltà da superare, due
anni. Finiva nel 1856, anno in cui nasceva in quella famiglia
altra bella bambina, Marta, ma che, procurando un forte dolore,
non sopravviveva a lungo alla nascita.
Prima che l'inverno giungesse a chiuderli a Tossicia, i nostri si
trasferivano nella nuova residenza. In un primo tempo avevano
determinato di conservare anche la fonderia della montagna; ma
essendo stata depredata, negli ultimi giorni, dai briganti, che
infestavano la zona, mutavano parere.
Nella primavera del 1857, poco prima che Carlo Pisacane e
Giovanni Nicotera, sbarcassero, per farsi gloriosamente
massacrare, con i loro eroici compagni, nel nome santo d'Italia e
della libertà, nella funesta Sapri, nella vallata superiore del
Tordino si rompeva quel silenzio, che vi regnava solenne da
secoli. Il rimbombo improvviso dei magli, voce viva del lavoro,
gettava nella contrada un non so che di briosa festività e di
scompiglio. Gli uccelli, all'insolito rumore, svolazzavano,
spaventati, di ramo in ramo; i cani ululavano, mentre il
contadino, appoggiandosi alla zappa, si toglieva il cappello, ed
il viandante, arrestando il cammino, benediva la voce, che saliva
da quel nuovo lavoro: lavoro, festa della vita, sempre fecondo di
prosperità, di serenità, di pace.
La contrada, che usciva dal sonno, si animava anche per le molte
famiglie degli operai della fonderia, che vi erano giunte da
paesi diversi.
Gli Adamoli, alla loro volta, sentivano di starvi meglio, con una
maggiore fede in sé e nell'avvenire. Potevano provvedere,
inoltre, per la vicinanza della città, ad una migliore
educazione dei loro figli, che intanto crescevano robusti e
vispi.
Il primo, Gelasio, molto vivace ed intelligente, contava già
dodici anni. Il secondo, Luigi, piuttosto mite, non dava segno di
speciali doti. Giovanni, che era il terzo, appariva il più
delicato ed il più serio. L'ultimo, Aldobrando, si dimostrava,
con i suoi sei anni, il più irrequieto, il più discolo. Della
piccola Maria Cristina, profumato fiore di quel giardino, nulla
ancora si poteva dire. Ma dagli occhi luminosi e belli, sin
d'allora s'intuiva la gentilezza, la dolce bontà, che
germogliava in fondo del tenero animo.
Tutto nel complesso andava bene, e non era trascorso un anno che
già avvenivano nell'azienda, che prosperava, notevoli mutamenti.
Per agevolare i clienti s'apriva in città un deposito di quei
prodotti, che uscivano dalla fonderia. S'istituiva, impiegandovi
altri operai, un laboratorio, per l'ulteriore lavorazione del
rame, in modo da venderlo direttamente al pubblico, a prezzi più
favorevoli.
Tutto ciò era notato e favorevolmente commentato dalla
cittadinanza, che vedeva in questo laborioso, probo, onestissimo
lombardo, una sicura promessa per l'avvenire industriale di
Teramo.
Di molto rispetto era circondata donna Doralice, della quale i
teramani conoscevano la bella storia di famiglia, e ne
conoscevano il fratello, l'austero e dotto padre Emidio, che
tante volte, applauditissimo, era stato a predicare, nei
quaresimali, nel loro Duomo.
Uno di questi figli, in questo tempo, il Gelasio, che si
dimostrava, nella sua esuberante adolescenza, sempre più
vivacemente irrequieto, a cura, appunto, dello zio padre Emidio,
era rinchiuso in un istituto di educazione dell'Aquila.
Il tramonto
La benedizione del cielo pareva che sovrastasse quella famiglia,
illuminata, nella sua bontà, dalle più belle virtù. Ma il
destino, spesso cieco, quasi sempre beffardo, continuava nel suo
fatale andare. Sul principio del 1859, mentre i loro animi
s'aprivano fidenti alle più liete speranze, anche per l'avvenire
della patria, già avvolta dai canti e dalle fiamme del riscatto,
il mite Giuseppe, l'uomo giusto e generoso, ammalava. Una
polmonite metteva in pericolo, con la sua vita, la vita della
nascente sua industria, della sua famiglia, appena in formazione.
I medici lusingavano, i familiari s'illudevano, ma egli sentiva,
con accoramento, la gravità del male, la brutalità del suo
destino, e fantasticava.
Nel letto del dolore, mentre fuori la natura ringiovaniva nella
primavera, non poteva non risalire, melanconicamente, alle
vicende della sua vita movimentata. Non poteva non risalire alla
fanciullezza, quando, dopo la scuola, nella calda stagione,
correva spensierato, con piccoli amici, di poggio in poggio, di
boschetto in boschetto, nella vasta pittoresca Valsassina. Non
poteva non risalire al tempo in cui, disceso con la famiglia a
Bellano, si tuffava d'estate nelle acque di quel lago di Como,
sogno sempre degli innamorati e dei posti. Nel crescere negli
anni e nel vigore, acceso dai più generosi fremiti, si rivedeva
inscritto tra coloro, che, come Tommaso Grossi, tramavano
coraggiosamente contro i tiranni, oppressori della patria. E
ricordava la notte angosciosa, nella quale, giovane ormai,
riusciva, come per miracolo, con altri, a sottrarsi al cerchio,
che i Croati stavano stringendo attorno ad essi, in solenne
riunione, per allargare i limiti della congiura; notte in cui,
per evitare la cattura, doveva prendere la via del duro esilio.
Ricordava, con viva tenerezza, l'addio, nella notte fredda,
serena e vivida di stelle, alla cara madre, al buon padre, alla
famiglia tutta; l'addio mesto ai suoi monti, alle sue valli, al
bel lago, con il vago nero presentimento che non vi sarebbe più
tornato. Le peripezie del lungo viaggio attraverso la Lombardia,
l'Emilia, la Toscana e le Marche, l'arrivo nella terra, dalla
quale si sentiva fatalmente attratto, rivivevano, con tutti i
particolari, nel suo animo, acceso dalla febbre. E vivi gli
sfilavano, nella mente turbata, gli episodi, gli eventi svoltisi
nella nuova terra.
Si rivedeva a Tempera, sulle rive del poetico Vera, dalle acque
chiare e tranquille, sorvolata dalle tenue libellule, e riviveva
nell'incontro, con la gentile donna, fata benefica e conforto
della sua vita solitaria, gioia e luce della sua nuova famiglia.
Ma riviveva anche nella nuova pericolosa operosità, nelle nuove
angustie politiche, verso le quali si era sentito
irresistibilmente attratto dall'amore verso la tormentata
spezzettata patria.
Gli si rifaceva alla mente la nuova fuga, resa difficile dalla
neve, che copriva i monti, e il soggiorno, quasi tranquillo, di
Tossicia, e il trasferimento sulle rive del Tordino, ove contava
di dare nuova agiatezza alla famiglia, uno stato più elevato ai
cari figli.
Se ne andava, invece, quando non era che a metà, nel suo cammino
terreno, e non erano stati compiuti che in parte i santi doveri
verso la famiglia, la società, la patria. Quella patria sempre
bella, maggiormente amata nelle sue sventure, che proprio in quei
giorni, con eroiche gesta, stava per spezzare le catene della sua
lunga, penosa schiavitù; stava per sciogliere le campane al
suono della conquistata libertà ed unità.
Se ne andava senza aver potuto rivedere, almeno ancora per una
volta ancora, i suoi monti, la verde vallata, il lago, il dolce
luogo natio; senza aver potuto riabbracciare, per una sola volta
ancora, gli amici di lassù, i parenti, la cara dolce madre.
Se ne andava davvero il nobile mite Giuseppe, in una serena
giornata di giugno, dopo aver confortato, con elevate affettuose
parole, colei che gli era stata sempre vicina, che aveva con lui
diviso le ansie più vive, le gioie più pure. Tramontava dopo
aver parlato agli addolorati figliuoli, che ne circondavano il
letto, sull'adempimento di quei doveri, che rendono, anche nelle
vicissitudini e nella sua brevità, bella e benedetta la vita.
Mentre le armate latine, liberata la Lombardia, avanzavano verso
il Mincio, Giuseppe Adamoli, il credente sincero, il profugo di
Narro, il cospiratore dell'Aquila, l'iniziatore a Teramo di una
fiorente industria, il marito e il cittadino dalle non comuni
virtù, saliva a dormire l'eterno sonno, lassù, nella piccola
silenziosa chiesa di Rocciano.
Saliva lassù, al bianco villaggio, attraverso i valloncelli, nei
cui cespugli di biancospino cantavano gli usignuoli. Saliva per
la collina coperta di ginestre e di ulivi, accompagnato dal piano
del popolo, dalla pietà, dall'affetto, dal dolore degli amici e
dei parenti.
Per qualche giorno la vallata del Tordino, con l'arresto dei
magli, ricadeva nel silenzio. Poi tornavano i rumori, la vita, le
speranze.
La fierezza di una madre
Mentre l'Italia, con la forza del diritto e delle armi, correva
verso la nuova gloriosa sua storia, all'Aquila, presso la
famiglia Strina, presieduto dal buon padre Emidio, sempre
presente nelle sventure, si adunava una specie di consiglio, per
esaminare e per provvedere sul luttuoso caso di Teramo. Le
determinazioni che ne seguivano, suggerite, certo, dal buon
religioso, risultavano umanamente fraterne, ma non erano
accettate dalla dolorante fiera madre. Ognuno, presa la sua via,
la doveva percorrere in armonia dei decreti del proprio destino.
Non si sarebbe, ad ogni modo, mai allontanata, qualunque gli
eventi, dal luogo, nel quale il suo nobile compagno dormiva il
suo eterno sonno.
Anche i figli sarebbero rimasti presso di sé, nella propria
casa, nella loro libertà. Cedeva soltanto per la piccola Maria
Cristina, che il fratello Cappuccino collocava ad Aquila, in uno
istituto, retto da Suore.
Quella madre si trovava, in tal modo, sola dinanzi all'avvenire
suo e dei quattro figli, avendo ritirato dall'Aquila anche
Gelasio, che vi studiava.
Determinazione lodevole, da forte donna, ma quella madre
s'assumeva, con quell'atto, una penosa responsabilità. I mezzi
finanziari, per il sostegno della famiglia, derivavano
principalmente da quell'industria: industri che richiedeva, perché
rendesse e prosperasse, continua oculata vigilanza, capacità,
molta attività.
Essa, invece, per la sua nascita e per la sua educazione, nessuna
pratica aveva per gli affari, forse nessuna attitudine. Piccoli
erano i figli. Prima di addivenire, ad ogni modo, a
modificazioni, voleva trarre consiglio da un pratico esperimento.
Sperava di trovare adeguata cooperazione nel figlio Gelasio,
ormai di quindici anni, bene sviluppato, intelligente, e nei capi
operai.
Vane speranze. Non tardava ad accorgersi che per l'egoismo, che
sempre guasta l'umana natura, ognuno cercava di trarre, dalla sua
inesperienza, i migliori profitti.
Anche il figlio Gelasio deludeva. Non dimostrava, certo anche per
l'età, soverchia comprensione e serietà. Spesso, come
insofferente di quella vita, s'allontanava. Spesso, mentre i
magli battevano, con un berrettino rosso in testa, lo si vedeva
saltare i fossi, attraverso il fiume, arrampicarsi su per i
dirupi. Ricercava per la verde valle, per i poggi, per le
campagne, le belle ragazze, prendendo parte alle loro feste, ai
loro canti, ai loro balli. Era un ragazzo simpaticissimo, ovunque
bene accetto e vezzeggiato.
Nell'anno seguente, 1860, particolarmente colpito dall'entusiasmo
patriottico, che scuoteva l'Italia insorta vittoriosamente,
tentava, con altri ragazzi, una fuga, per raggiungere Garibaldi,
già in gloriosa marcia, per la conquista del regno borbonico. Il
sangue non mentiva. Nelle vicinanze di Napoli, però, per la
giovane età, era fermato e ricondotto a casa.
L'esperimento, dovendosi ritenere ormai concluso, ed in modo
sfavorevole, consigliava quella madre a modificare, anche se a
malincuore, i suoi progetti. Rinunciava, di conseguenza, alla
gestione della fonderia a favore degli Spinozzi, che l'avevano,
con insistenza, richiesta. Conservava solo per sé, nella
contrada della Cona, nei pressi della città, ove si trasferiva,
il laboratorio di rameria ed il magazzino di vendita.
Nuova vita, quindi, che se era ancora avvolta di mestizia e di
pianto, pur faceva trapelare, tra le nubi nere, una qualche luce
di speranza, per il prossimo avvenire.
Quale poteva essere questo avvenire? La sfinge, nel suo mistero,
non rispondeva. La buona mamma s'abbandonava, talvolta, con
spirito profetico, alle previsioni dell'avvenire. Ma vedeva che
doveva fare molto cammino, sulla strada dolorosa, prima
d'incontrare sprazzi di sereno.
Intanto la patria, a favore della quale gli Adamoli e gli Strina
avevano dato il loro entusiastico contributo, concludeva la prima
più importante parte del suo programma nazionale su i colli
insanguinati di Solferino e san Martino, gloriosamente.
Con i cinquecento, che, con Garibaldi, conquistavano all'Italia
il regno delle due Sicilie, vi erano stati della famiglia ben due
Adamoli, studenti universitari: Giulio e Carlo. Vi sarebbe stato
anche Gelasio, se maggiore fosse stata la sua età.
Nella vallata del Picentino
Si giungeva, così, senza notevoli mutamenti, al 1865, quando
Gelasio, giovane ormai di venti anni, tendente alle avventure,
s'arruolava nelle milizie, che operavano contro il brigantaggio,
infestanti il meridionale.
Di contrada in contrada, come dal destino sospinto, arrivava su
le montagne, fitte di boscaglie, del salernitano. A Giffoni
Vallepiana, nella vallata del Picentino, ove era una specie di
presidio militare, si incontrava con un altro lombardo, cugino
del padre, Antonio Adamoli, che vi esercitava una complessa ricca
industria. Dopo la festa dell'inaspettato incontro e dopo i
racconti, lo invitava a congedarsi e a rimanere con lui, offrendo
fraterne condizioni.
Il nostro Gelasio accettava si per porre fine alla movimentata
vita, sia per la bellezza della contrada, ricca di acque, di
verde, di aranci.
Nella Pasqua del 1868, che cadeva d'aprile, mese sempre caro ai
poeti e agli innamorati, aveva un incontro gentile. Nella chiesa
di San Lorenzo, ove si era recato per ascoltarvi la messa della
resurrezione, lo colpiva la vista d'una giovane alta, snella,
dagli occhi e dai capelli nerissimi, raccolta nella sua preghiera
aristocraticamente bella. Ve la rivedeva nelle domeniche
successive, sempre più bella nella sua serietà ed elegante
semplicità.
Anche lui non era sfuggito a quella giovane, che, nei suoi
diciassette anni, schiudeva allora il suo animo, come un fiore di
maggio, ai palpiti, ai sogni della vita.
La dea benefica, alla quale, nonostante la gioiosa
spensieratezza, aveva pure pensato, era comparsa luminosa, sulla
sua via, ma accompagnata da molte difficoltà. Apparteneva essa a
quella famiglia Marotta, che discendente, con superbi titoli da
forti feudatari, viveva, anche se decaduta, nel tradizionale
orgoglio. Pareva che non si potesse ad essa avvicinare chi non
avesse una storia, non possedesse un feudo ed un blasone.
Né era possibile avvicinare la bella Maria Carolina. Non usciva
di casa che accompagnata dalla madre, o, come gendarmi, da due
severe zie, Maria Gesù e Maria Concetta, rimaste zitelle per
debolezza, appunto, di casta.
Quando le poteva far giungere un biglietto, era consigliato di
rivolgersi ai genitori, ciò che egli faceva a mezzo del parente
Antonio, che godeva nella contrada molta riputazione e rispetto.
Quando il nostro giovane era ammesso in quella casa, poteva
osservare da vicino i segni davvero superbi dell'antico casato.
La storia dei Marotta, che risaliva ai secoli, pur attraverso le
vicende tumultuose del regno delle Due Sicilie, non si era mai
offuscata. I protagonisti avevano sempre conservato, con
l'autorità ed il censo, alte cariche di responsabilità e di
comando. Ed avevano conservato il titolo di duca di Castelnuovo,
del quale era stato insignito don Pasquale Maria Marotta,
trasmissibile ai suoi discendenti.
Molti e vasti possedimenti avevano avuto a Giffoni, a
Montecorvino Rovella, a Castelnuovo e in altre contrade della
feconda Campania e della montagnosa Calabria: possedimenti, dei
quali non rimaneva, però, dei Marotta, che soltanto il nome, un
tempo tanto temuto e rispettato.
Tra i feudi perduti, figurava, in provincia di Avellino, il monte
Partenio, sotto la vetta del quale era fiorito, nell'antichità,
il Tempio di Cibele, molto famoso, visitato anche dal mistico
Virgilio, che vi si intratteneva a lungo, in filosofiche
conversazioni, con i suoi austeri sacerdoti. Quel Tempio che,
avvolto da un paesaggio incomparabilmente bello, era in seguito
trasformato, con una ricca Abazia, nel celebre Santuario di Monte
Vergine.
Di quel feudo, però, ricevuto in legittima eredità dal
consanguineo barone Scarpa, non risultando chiare le ragioni
della perdita, era in atto, per il ricupero, una vertenza
giudiziaria: vertenza che si disperava di condurre avanti, per le
ingenti spese che richiedeva.
Sapeva anche, nel doloroso racconto, specialmente dalle vecchie
zie, accese di santo sdegno, che la perdita dei beni avveniva non
molto prima, determinata dal loro padre, don Donato,
nell'ostinatezza di un pericoloso giuoco d'azzardo. Una notte,
quella stessa in cui esse nascevano, circuito da disonesti amici,
che ricorrevano per vincere anche alla frode, perdeva una somma
così elevata da pregiudicare notevolmente il loro patrimonio.
Con la fatale caduta dei Borboni, verso i quali i Marotta si
erano sempre conservati fedeli e devotamente affezionati, era
pure caduta, e per sempre, ogni loro speranza di un risorgimento.
Questi racconti non potevano non scuotere, nell'ascoltarli, il
sensibile Gelasio, il quale pensava anche che senza quelle
vicende, per la sua qualità di forestiero, non sarebbe stato,
forse, mai ammesso in quella casa. Casa che con le sue mura
massicce munite di fortini e di feritoie, come castelli
medievali, con i pavimenti di granito, con le soffitte dorate,
con l'austerità che spirava da ogni cosa, da ogni oggetto, da
ogni persona, stava bene a ricordare il tradizionale orgoglio, la
possanza, i diritti non violabili del sangue di quella rigida
antica famiglia.
Anche lui, con un certo patriziato, poteva vantare sangue non
comune, ma era sempre forestiero. Nel rimirare la gentile
bellezza della donna che stava per far sua, non poteva non
benedire, nel suo segreto, quel don Donato, che, con il suo
cervello balzano, aveva reso possibile, nella decadenza,
l'accoglimento della sua domanda.
Comunicava, con gioia, quell'evento a Teramo. Ma la madre non se
ne commuoveva di molto, né interveniva alle nozze, celebrate,
con austera semplicità, nell'estate del 1869, in quella stessa
chiesa di San Lorenzo, ove era avvenuto il primo incontro.
Gli sposi, dopo il rito, spiccato il tradizionale volo,
s'andavano a posare, nella loro giovinezza e felicità, su i
colli profumati dell'incantevole Napoli. Dall'alto di quei colli,
nel mitico Vomero, tuffavano, i loro animi, quasi smarriti,
nell'azzurro del mare, che spumeggiava di sotto; nell'azzurro di
quel golfo che pareva splendesse, con le delicate tinte, in una
sola manifestazione di divina poesia.
Ma scendevano anche lungo l'infiorato Posillipo, alla Tomba sacra
di Virgilio; ai ruderi delle città sepolte; ai tesori, che la
città raccoglieva e custodiva gelosamente nei suoi musei, nei
suoi segreti scrigni.
Tornavano, poi, nei doveri della vita, a Giffoni Vallepiana. Nei
giorni festivi, come continuando nel sogno, si isolavano ancora
andando per i poggi, per le valli folte di ulivi, di aranci, di
castani. Visitavano, commossi, le contrade, che avevano ancora il
nome dei Marotta; visitavano i villaggi, disseminati lungo la
vallata, discendente dai monti Mai; visitavano l'antico Castello
di Terravecchia, ricco di storia e di leggenda. Andavano alla
casa della mamma, donna Maria Concetta Curci, a Montecorvino
Rovella, grandiosa anch'essa ed antica; andavano a Castelnuovo, a
San Cipriano, a Salerno, ovunque fosse ancora un ricordo della
grandezza della decaduta famiglia.
Dopo un anno, poco prima che i bersaglieri conquistassero Roma
all'Italia, il 14 magglio del 1870, giungeva un figlio. Questa
nascita, che poneva la casa in festa, offriva l'occasione di
ricordare, con il nome di Giuseppe, il nobile padre, che dormiva
nella piccola chiesa di Rocciano.
A Giffoni, senza dubbio, stava bene. Ma la nascita di quel
bambino, al quale ne sarebbero seguiti altri, richiamava il
Gelasio a nuovo doveri. Doveva battere, per l'avvenire della
famiglia, altra via, tentare, altrove, altra fortuna. Ricordava
certe condizioni poste dalla madre agli Spinozzi, quando cedeva
loro la fonderia di Rocciano. Pensava, quindi, ora che ne aveva i
mezzi e le capacità, di far valere a suo vantaggio quelle
condizioni, di tornare a gestire, per suo conto, quella fonderia.
Le pratiche, iniziate subito, potevano essere condotte a termine,
per le difficoltà da superare, dopo circa due anni. Partiva per
Teramo, la nostra famiglia, quando un altro bambino, Antonio, era
giunto ad allietare la casa.
Il distacco da Giffoni non poteva non essere, per la Maria
Carolina, doloroso. Lasciava i parenti, i fratelli, la mamma,
che, con lei, era stata sempre buona ed affettuosa, e i cari
luoghi della sua nascita e della sua giovinezza. Prima di partire
aveva voluto visitare il convento dei Cappuccini, lassù in alto;
la chiesa dell'Annunziata, ove si conservava una delle spine del
martirio di Gesù; la chiesa di San Lorenzo, ove aveva
partecipato, sin da bambina, a tutte le funzioni, cantando nei
cori con la sua chiara bella voce.
Nel momento di partire non poteva non avere dinanzi a sé, con
l'animo in tumulto, che la visione di un paese sconosciuto, di
gente nuova, in una nuova vita.
La nostra famiglia, in cammino con molte speranze, giungeva da
Foggia in vista dell'Adriatico, mentre sorgeva dall'acqua, che
palpitava, scintillante e maestoso, il sole, regolatore del
tempo, confortatore delle anime in pena. Quell'Adriatico, su i
fremiti del quale correvano, vicino e lontano, vaghe come
farfalle, le vele ardite dei pescatori.
Da Giulianova proseguivano il viaggio per Teramo in carrozza, non
essendovi ancora il treno. L'incontro con i familiari non era
molto festoso. La madre, donna Doralice, che pur si trovava
dinanzi ad una bella nuora e nobile, e a due vispi nipotini, uno
dei quali portava il nome dello scomparso compagno, conservava un
contegno riservato, se non freddo.
L'inizio non era lieto, ma non aveva importanza. I nostri
proseguivano, per vivervi soli, verso la fonderia di Rocciano. Là,
donna Maria Carolina dei duchi di Castelnuovo, aveva un'altra
delusione. Non vi erano attorno all'abitazione occupata da lei,
modesta essa stessa, che poche case rustiche; non vi si vedevano
che i contadini, che lavoravano nelle vicine campagne; non vi si
udiva che il rumore uguale, monotono dei magli della fonderia,
che era nel basso, nella valle, sulle rive del Tordino. Non
poteva scambiare parole, in un dialetto che non capiva, che con
la famiglia di Candeloro Broccolini, la più vicina e la più
civile.
Intanto la notizia dell'arrivo dalla Campania di questa signora
correva nella contrada. Giungevano, a mano a mano a visitarla,
dai vicini villaggi, molte famiglie. La visitavano: da Rocciano
alto donna Francesca Spinozzi, signora anch'essa, bella e
simpatica, nata Sciarrone, di Mosciano San'Angelo; da Frondarola
la signora D'Antona e la signora del farmacista Tobia Mattucci;
da Villa Ripa le signore Guerrieri di Di Bartolomeo.
Col passare del tempo andava, in tal modo, adattandosi,
affezionandosi a quella vita, a quelle persone non prive di
cortesia e di bontà; a quei posti, che erano, nei paesaggi
pittoreschi, pur belli; a quella vita, molto movimentata.
Rientravano, nell'attività della casa, oltre l'importante
fonderia, ove lavoravano molti operai, anche un mulino ed un
podere, esteso e produttivo. A carico della casa vivevano,
inoltre, molte altre persone, addette ai diversi servizi.
La fortuna, non favorevole a Giuseppe Adamoli, pareva che, in una
diversa forma, fosse benigna al figlio Gelasio.
Così era stato superato l'inverno, in verità molto rigido,
molto diverso, certo, dagli inverni, a clima primaverile, del
salernitano. Non aveva mai visto, la Maria Carolina, tanta neve
coprire, quasi festosamente, strade, alberi, campagne.
Sopraggiungeva, con il verde e con i fiori, la dolce primavera,
ma la suocera, che non poteva non ammirare in segreto le virtù
della nobile nuora, non mutava con lei contegno. Degli altri non
si poteva lagnare. Molto educato appariva Giovanni, e molto buona
la moglie Annunziata De Marco, che aveva, per la cognata venuta
di lontano, molta simpatia, molto affetto. Non scortese si
mostrava Aldobrando, da poco tornato dal servizio militare. Anche
Luigi, sposato in campagna, a Maria Grazia Falcone, appariva
rispettoso. Nulla poteva dire di Maria Cristina, passata due anni
prima, per profonda fede, dal collegio di Aquila, a monaca di
clausura, in un convento di Firenze.
La casa, in cui vi era tanta abbondanza, e vi viveva attorno
tanta gente, pareva che corresse sicura, verso il suo migliore
avvenire.
La buona figliuola, lieta, lo scriveva alla madre, laggiù, nel
salernitano.
Nella certezza di quell'avvenire, nella gioia di quella prosperità,
negli anni che appena seguivano, quella madre regalava alla
famiglia altri due bambini: Ciriaco e Maria Concetta, sani e
belli, come i primi, che intanto crescevano.
Dopo nasceva Umberto, il quale continua, per suo conto, queste or
meste or liete memorie.
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