Ringrazio ovviamente Sua Eccellenza il Signor Prefetto per avermi dato l'opportunità di tratteggiare pubblicamente il profilo di questo valoroso figlio della Guardia di Finanza. Tratteggerò rapidamente la vita di Umberto Adamoli soffermandomi sulla battaglia per la quale egli fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Quinto di 11 fratelli, Umberto Adamoli nasce a Teramo, nei pressi di Frondarola, il 10 maggio 1878, da Gelasio e Carolina Marotta. Trascorsa l'infanzia tra Rocciano e Tempera (L'Aquila), si appresta ad entrare in seminario ma in seguito a lutti familiari e difficoltà economiche del padre, che è costretto ad abbandonare la fonderia di rame che gestisce, nel 1892 si trasferisce con la famiglia a Giffoni Vallepiana (Salerno), paese di origine della madre, dove non gli è possibile frequentare una scuola. A soli 17 anni presenta la domanda per intraprendere la carriera militare, scegliendo il corpo della Guardia di Finanza, ed al compimento del diciottesimo anno di età, entrato nelle Fiamme Gialle parte per Maddaloni. Superati gli esami viene destinato ad Oria, sul lago di Lugano, dove nei turni liberi dal servizio si dedica agli studi interrotti anni prima, e frequenta la casa dello scrittore Antonio Fogazzaro, conosciuto sul piroscafo che frequenta per lo svolgimento del proprio servizio. Con la morte del padre, avvenuta nel 1899, è costretto a congedarsi dalla Guardia di Finanza per motivi familiari, ma è successivamente riammesso nel corpo e destinato prima a Cavallasca (provincia di Como), quindi a Firenze, dove è ripristinato nel grado.
Dopo la perdita della madre, avvenuta nel 1904, viene ammesso alla Scuola per Allievi Ufficiali di Caserta, e supera il corso dopo due anni di frequenza. Destinato prima a Grosseto e poi ad Ascoli Piceno, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, dopo un corso sulle mitragliatrici svolto a Parma, viene destinato al centro di mobilitazione di Torino e passa l'intero corso del conflitto in prima linea, col grado di tenente, comandante della Sezione Mitragliatrice della Regia Guardia di Finanza. Viene decorato in seguito alla partecipazione ad importanti azioni di guerra svoltesi sul Costesin nel maggio del 1916 con la seguente motivazione: "Comandante della Sezione Mitragliatrici, distintosi più volte per calma e coraggio cooperava efficacemente a mantenere al proprio posto i propri uomini durante un continuo e violento tiro dei grossi calibri nemici, dando prova di grande spirito di sacrificio e di elevato sentimento militare. Durante il ripiegamento, avendo il nemico attaccato in coda la colonna, portava prontamente in posizione l'arma che ancora gli era rimasta intatta e apriva con essa prontamente il fuoco operando efficacemente ad arrestare l'inseguimento. Costesin 20-21 maggio 1916".
Ora dò lettura di un breve stralcio del discorso col quale il Capitano della Guardia di Finanza Amos Meucci, nel corso della cerimonia di decorazione, illustrò i fatti che dettero luogo alla concessione della ricompensa. Queste le sue frasi:
"Verso la metà dello scorso maggio il tenente Umberto Adamoli si trovava con la sua sezione mitragliatrici dirimpetto a Forte di Luserna in vista della Vallagarina, quand'ecco scatenarsi contro quelle montagne, contro quei valichi, la terribile minaccia dell'avversario. Ecco la furia spaventosa dei grossi calibri e delle altre infinite artiglierie, ecco l'impeto insistente accanito delle innumerevoli orde che i nemici avevano ammassato in quella zona al fine di rompere ad ogni costo il nostro argine e straripare nella Pianura Veneta, portando con loro, insieme con la devastazione, con la morte e con la desolazione, un danno enorme, irreparabile, un'onta senza nome per il nostro paese. Per ben otto giorni e cioè dal 14 al 21 Maggio dinanzi a un bombardamento infernale che svelleva gli alberi, che frantumava orribilmente gli uomini, che cambiava aspetto alla montagna, dinanzi a reiterate e furiose ondate nemiche, decise di impadronirsi di quelle posizioni a qualunque prezzo. Per ben otto giorni stettero salde le nostre linee prima di cedere, e mentre essi ormai esausti e sopraffatti si accingono a ripiegare, il tenente Adamoli coi suoi degni cooperatori si induce ancora al suo posto da cui largamente ha mietuto e tuttora miete tra le fila avversarie. Ma il furore delle cannonate nemiche non si arresta un istante, e già una delle sue mitragliatrici colpite in pieno da un grosso calibro è sconquassata. Già buona parte del suo materiale distrutto, già il suo eroico manipolo è decimato. Egli indugia ancora al suo posto, forse perché è uno strazio per il suo cuore di soldato il pensiero di indietreggiare dinanzi al nemico, forse perché egli conserva ancora la nobile illusione di ributtare definitivamente la bieca marea che sempre ritorna, piena, violenta, irresistibile. Ma le sue forze sono purtroppo di gran lunga inadeguate al compito che egli si è assunto, perché la marea continua a salire, e già lo avvolge. Ora la lotta che egli combatte non ha più lo scopo di ributtare il nemico ormai soverchiante per numero, bensì ha lo scopo di trattenerlo al palo, di impedirgli l'inseguimento, di dar tempo alla nostra colonna di fanteria di ripiegare in ordine. Ed è in questo terribile momento che rifulge di luce purissima il valore che ora viene premiato: i nemici già hanno attorniato la posizione da cui indica calmo e alacre, manovra la sua mitragliatrice arroventata per l'uso prolungato. Già gli stanno addosso. Un cadetto sbucatogli alle spalle gli intima di arrendersi e gli si avvicina per ghermirlo. Il tenete Adamoli, senza scomporsi, senza cessare dalla sua funzione sterminatrice, e senza neppure guardarlo, lo respinge con una gomitata sul petto. Il cadetto ritorna risoluto a finirla col suo insolente avversario, ed è allora che il finanziere Cavagnolo lo afferra per la gola, e in un impeto di sacra ferocia gli configge le unghie nella carne, lo atterra e non lo lascia se non quando l'ha visto esanime, strangolato. Finalmente il Tenente Adamoli, avuta dai suoi superiori precisa informazione di ripiegare ,ubbidisce, portando con sè la sua mitragliatrice superstite, tutto il materiale rimastogli e i suoi uomini. Ubbidisce, e rientra per ultimo nelle nostre nuove linee quando già tutti lo credevano morto o prigioniero".
Al termine del conflitto è destinato, con il grado di capitano, nel borgo di Servola, lasciato dopo un anno per raggiungere Chieti. Dopo il matrimonio con Clarice Cameli, in attesa della promozione a maggiore, viene trasferito da Chieti a Messina, quindi nel 1928 lascia il Corpo della Guardia di Finanza con il grado di Tenente Colonnello. Ritiratosi con la famiglia a Silvi Marina, viene chiamato in qualità di Podestà a capo del comune di Silvi, dove rimane per 3 anni. Tornato a Teramo, nel 1939 diventa Podestà della città, carica che conserva fino alla caduta del regime fascista, e distinguendosi per un atto di eroismo nel periodo dell'occupazione tedesca. Difatti si era offerto in ostaggio ai tedeschi che intendevano operare una rappresaglia nei confronti di cento cittadini teramani inermi, dopo i fatti di Bosco Martese, cioè la prima battaglia in campo aperto tra partigiani e tedeschi, i quali ultimi ebbero la peggio.
Dopo la scomparsa della moglie Clarice avvenuta nel 1951, senza figli, trascorre tra Teramo e Silvi gli ultimi anni della sua vita, dedicandosi a diverse attività in enti cittadini e cimentandosi come scrittore di romanzi storici ('I banditi del Martese'), testi teatrali di ispirazione storica ('Berardo di Pagliara', 'L'Angelo del Gran Sasso') ed autobiografica ('Veglia al confine', 'Il bimbo di Oria'), aggiudicandosi nel 1960 il premio Nazionale Gastaldi per il teatro con 'La voce delle Carceri'. Muore a Teramo il 27 settembre 1962.
Concludo con uno stralcio della prefazione del suo libro autobiografico pubblicato nel 1947 dal titolo "Nel turbinio di una tempesta" che forse rappresenta a livello di memorialistica l'unica testimonianza del periodo dell'occupazione nazista a Teramo:
"L'amore per il luogo natio, che sempre eleva ed infiamma, mi induceva ad accettare la carica di Podestà, quando in una tranquilla vita, potevo rimanere a godere, nella verde campagna, in cui mi ero ritirato, un placido riposo.
'Fuggi' poteva sussurrare, ansioso, lo spirito dei pavidi, ma non trovava ascolto. Non si fugge neppure la morte nell'adempimento sacro del dovere, nella visione superiore della vita.
Non fuggivo, come non dovranno fuggire da quel posto, qualunque gli eventi, i successori vicini e lontani. Successori che vi dovranno giungere, quindi, senza inganno, ma con animo mondo da ogni viltà, libero da ogni egoismo, puro da ogni bassa ambizione. Vi dovranno giungere, in un'alta concezione, con il cuore aperto a tutte le voci, pronto a rispondere a tutti i doveri, a compiere tutti i sacrifici.
Non degno si dimostrerebbe, adunque, dell'alta onorifica carica, chi non sapesse scrivere su la propria insegna, e non serbarvi fermamente fede, il motto: «Nulla per sé, tutto per gli altri, anche la vita».
Giornata della Memoria 2024 a Teramo