Ventitré giorni dopo l'azione incriminata il Tribunale di Guerra del III Corpo d'Armata in Ponte di Legno emise la sentenza (20 ottobre 1916) che comminava 20 anni di reclusione militare per i graduati, ai quali vennero riconosciute le attenuanti per l'inettitudine al comando e per la tardiva esecuzione degli ordini; per i cinque alpini incensurati ed analfabeti, braccianti e contadini tra i 22 e i 28 anni, venne disposta la condanna a morte mediante fucilazione al petto1 per il reato di sbandamento, ritenuto particolarmente grave perché commesso prima dell'azione, e non dettato dal panico dal quale si può essere assaliti durante l'azione.
I cinque alpini, appartenenti al "Monte Mandrone" rimasero per venti giorni insieme ai loro compagni, come se nulla fosse accaduto, quindi furono chiamati a scendere alle salmerie del battaglione di Ponte di Legno. Credendo di essere stati destinati ad un servizio speciale entrarono in un'osteria, dove furono arrestati dai Carabinieri. I cinque alpini analfabeti dopo la lettura della sentenza non compresero neppure cosa significasse "pena capitale". Quando il cappellano militare del 39° fanteria, Don Pagnini, glie lo spiegò uno dei condannati svenne. La fucilazione ebbe un effetto disastroso sul morale della truppa e, secondo la regola, fu eseguita dai soldati della stessa compagnia dei condannati, i quali li abbracciarono piangendo; uno dei condannati chiuse la testa nella mantellina aspettando la morte; un altro consegnò ad un componente del plotone di esecuzione il suo anello d'oro, dicendogli di ricordarsi di vendicarlo.
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