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Un delitto rimasto impunito per più di quindici anni, quello che nel 1883 sconvolse non solo la comunità di Atri, ma l'intero Abruzzo, e sul quale riferì anche la stampa della capitale del Regno. Ma non un delitto avvolto nel mistero, perché sin dal ritrovamento il cadavere del dodicenne Luigi Scena, la voce popolare fece correre sulle proprie bocche nomi precisi.
Luigi Scena la sera del 18 gennaio 1883 non fece rientro a casa, e la madre Elisabetta Cerbone, molto preoccupata, si recò presso la stazione dei Reali Carabinieri, ritenendo che potesse essere stato attratto da Gaetano Cherubini.
Capo d'Atri, posta alla porta del paese, a fine ottocento era un largo fronteggiato da case e da un terreno coperto di erbetta; qui nella notte tra l'1 ed il 2 febbraio ci fu chi notò uno strano movimento per la via; qui, nell'acqua di un fosso, rinchiuso in un fagotto, viene ritrovato il corpo straziato di Luigi: l'autopsia compiuta dal medico di Atri G.B. Bindi, gettando nel raccapriccio la popolazione, aveva accertato che il ragazzino era stato sequestrato per diversi giorni, ripetutamente stuprato da più persone, ed infine soppresso con un colpo contundente datogli sulla fronte. Il medico appurò anche che quando fu rinvenuto il corpo, la morte era sopraggiunta già da un paio di giorni.
Un delitto quindi che non passò inosservato, ma che l'omertà di molti atriani consentì che il misfatto restasse per un tempo lunghissimo senza un colpevole; il processo non fu istruito a causa dell'insufficienza degli indizi e, come riferì il “Corriere Abruzzese”, a causa del “denaro, profuso a piene mani, le promesse, le corruzioni e subornazioni d'ogni specie, le intimidazioni e le minacce, influenze d'ogni natura.
La sera della sparizione di Luigi la madre aveva fatto al maresciallo Catelli il nome del Cherubini, ma non era il solo nome che correva nella voce popolare. Anche sul fattore di questi, Vincenzo Parente, che già nel passato si era macchiato per alcuni atti di libidine compiuti nei confronti di una ragazzina, correvano dei sospetti. Ma non sarebbe stato il solo...
Il maresciallo Catelli aveva raccolto queste voci, ma evidentemente non erano solo delle semplici voci. Aveva in mano degli indizi... Già dopo l'esito dell'autopsia il maresciallo volle compiere delle indagini mirate. Egli si era spinto fino all'abitazione del Cherubini. Nevicava da molti giorni, ed il carabiniere non ebbe modo di notare né sulla campagna, né sulle gradinate della casa, alcuna orma di passi. Le persiane erano chiuse, ma le vetrate erano aperte. Nessuno si era mosso da quella casa negli ultimi giorni, quindi? Al maresciallo Catelli quella circostanza non bastò a scacciare i dubbi che aveva sul Cherubini, e li espresse chiaramente al pretore Mellone, il quale però non ritenne gli indizi sufficienti per procedere all'arresto. Si trattava evidentemente solo di voci, e di alcuni giudizi poco lusinghieri sull'ambiguo comportamento del Cherubini e di un altro individuo di nome Moschioni, come quello espresso da Luigi Mazzitti, pittore si stanza, il quale poco prima del barbaro assassinio di Scena riferì di aver subito una serie di “attentati al suo pudore”.
Le indagini proseguirono tra le reticenze dei testimoni, ma contro il Cherubini non si giunse alcun provvedimento, che invece colpì circa un anno dopo Vincenzo Parente, il fattore del Cherubini, che però fu successivamente rimesso in libertà; gli indizi che erano stati invece raccolti sul Cherubini rimasero invece dei semplici indizi, per l'atteggiamento omertoso dei molti testimoni, che temevano eventuali ritorsioni. Cosa che accadde ad un parente del ragazzo assassinato, al quale arrivò una offerta di denaro da parte di un emissario di Cherubini, tale Giovanni Moschioni, affinché egli mantenesse il silenzio sulle notizie di cui era a conoscenza. Il suo rifiuto aveva avuto la conseguenza di vedere notevolmente decimata la clientela nella sua bottega di barbiere, oltre a non avere più frequentatori nella sua “società di lettura”.
L'inchiesta fu archiviata senza alcun esito, e dovettero passare ben 16 anni perché la vicenda fosse riaperta e si giungesse ad un processo. Fu la morte del Cherubini avvenuta nel maggio 1897 che riuscì a rompere il muro dell'omertà? Il Cherubini faceva parte di quella “combriccola di signorotti notoriamente devoti alla Venere infame” ai quali il ragazzo era stato offerto da chi lo aveva rapito? Fatto sta che, dopo che già nel 1889 il processo era stato riaperto una prima volta ma chiuso per mancanza di elementi sufficienti, è proprio tra il finire del 1897 ed i primi mesi del 1898 che vennero meno “i più potenti ostacoli”, e furono riprese le indagini, pur sempre tra nuovi ostacoli, intimidazioni e minacce; chi sapeva trovò il coraggio di dire chiaramente ciò che sapeva, ed infine furono arrestati il fattore di casa Cherubini Vincenzo Parente, Giovanni Moschioni e Giulio Grue; vennero coinvolti nel processo come imputati a piede libero, anche coloro che avevano taciuto le circostanze decisive ai fini dell'accertamento della verità.
Vincenzo Parente fu Sebastiano, di circa 60 anni, era già stato condannato nel passato per atti di libidine commessi ai danni di una bambina di 9 anni; quando il processo era stato riaperto il Parente, presagendo il suo arresto imminente, vendette tutti i suoi beni mobili ed immobili. Giovanni Moschioni fu Domenico, sulla quarantina, viene descritto come persona di “figura distinta” e che “parla bene”, mentre il Giulio Grue fu Aurelio è invece persona sulla cinquantina, e di lui si riferisce che anch'esso “parla correttamente”.
Gli imputati a piede libero erano Mariano Centorami, Anna Domenica Sichetti, Gaetano Serrani, Antonio Capritti, Maria Pavoni) erano coloro che a vario titolo, con il loro silenzio, totale o parziale, davanti al Giudice Istruttore del Tribunale Penale di Teramo, avevano impedito che fosse istruito il processo contro i responsabili dell'efferato delitto, processo al quale il Cherubini, portandosi la sua colpa e forse i suoi tormenti, sfuggì a causa della morte avvenuta un paio di anni prima della Corte di Assise che si svolse a Teramo nell'aprile del 1899.
Furono quindi gli imputati a piede libero, che infine con le loro ammissioni, permisero di fare piena luce su coloro che furono visti con fare furtivo nella notte del delitto a Capo d'Atri. Mariano Centorame ed Antonio Capritti, guardie daziarie, erano di servizio proprio presso la porta di Capo d'Atri nella notte tra l'1. e il 2 febbraio 1883, e videro gli imputati andare verso il fosso dove il Parente gettò un 'fagotto' che racchiudeva il corpo del povero giovanetto. L'anziana Domenica Sichetti, e Gaetano Serrani, pregiudicato, avevano in varia misura manifestato ad altri di aver visto i movimenti dei tre nella notte del delitto (il Serrani lo aveva pure confidato ad un brigadiere dei carabinieri, ritrattando); davanti al giudice istruttore avevano negato di sapere qualcosa, o si erano rimangiati ciò che avevano già rivelato ad altri. Maria Pavoni, già amante del Moschioni, aveva saputo proprio da lui il coinvolgimento nel delitto; la donna lo aveva riferito ad altri, ma infine si rimangiata il tutto.
Il processo, che fu celebrato e porte chiuse e durò 22 giorni, vide sfilare un gran numero di testimoni: i teste a carico furono un'ottantina, mentre quelli a discarico furono una sessantina. Al termine del processo quasi tutta Atri era passata davanti alla Corte di Assise di Teramo. Certamente la responsabilità degli imputati venne finalmente in piena luce, ma l'esito del procedimento giudiziario fu una vera farsa, in quanto per alcune circostanze attenuanti che erano state concesse per la benevolenza dei giurati, la pena veniva estinta per prescrizione, in omaggio al Codice penale del 1859, che era in vigore nel momento in cui era stato commesso l'omicidio. Ed infatti la richiesta avanzata dal Procuratore del Re Semmola di comminare 30 anni di reclusione a ciascuno degli imputati di omicidio nel processo del 1899 fu vanificata dalla Corte, che ritenne estinto il reato. I tre imputati Parente, Moschioni e Grue furono scarcerati la sera stessa!
Il cronista del “Corriere Abruzzese” che dava notizia dell'esito del processo, riferiva amaramente che “un avvocato paragonava i tre scarcerati ai tre ladri della 'Gran Via' che scappano dall'altro lato della gabbia e... deridono i giurati. E' la nota comica che non manca mai, anche nelle cose più serie!...”
Alla sentenza tuttavia ricorse il Procuratore Generale Cisotti che contestò l'applicabilità della prescrizione del reato. In particolare veniva contestato il fatto che la Corte avrebbe dovuto applicare il principio della prescrizione ventennale, essendo il delitto compiuto punibile con l'ergastolo. (segue)
Federico Adamoli
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