A cura del Comitato Permanente della Resistenza della
Provincia di Genova con la collaborazione del Comune
di Bornasco, si è ricordato, il 21 aprile scorso l’Eccidio
qui avvenuto il 24 aprile 1945
Venticinque detenuti politici il 23 aprile 1945 furono
caricati dalle SS su di una corriera per essere trasferiti a
Bolzano. C’erano tra di loro molti uomini di spicco
della Resistenza Ligure. Giunti a Bornasco, frazione
del Comune di Vidigulfo (PV),il convoglio venne attaccato
da aerei alleati, mentre la scorta si metteva al riparo,
i prigionieri furono lasciati esposti al mitragliamento,
quattro di essi furono colpiti: il Gen. Cesare
Rossi, il magg. Gian Franco Stallo, Giovanni Napoli, il
dott. Renato Negri, mentre altri due (Raffaele Pieragostini
e Rinaldo Ponte) furono uccisi mentre tentavano
di fuggire.
Raffaele Pieragostini era nella IV Sezione del Carcere
di Marassi a Genova, il numero 2959, all’appello rispondeva
con dignità e fermezza, anche se ormai aveva
il volto tumefatto dalle percosse, i polsi ormai ridotti
ad una piaga (da più di 70 giorni era ammanettato), vacillante
sulle gambe per la fame patita.
Gelasio Adiamoli futuro Sindaco di Genova, in una
sua testimonianza ricorda così quei tragici giorni:
«…Fu durante la mezz’ora che si concedeva ai prigionieri
di prendere aria e non so come, quel giorno, il
nostro compagno Pieragostini non era stato portato
via dal corto cubicolo riservato agli isolati speciali. Improvvisamente
vidi il suo volto, segnato dalla sofferenza
di settimane di torture e isolamento, appoggiato
contro le sbarre del cancelletto. Mi aveva visto ed i
suoi occhi esprimevano l’ansiosa attesa che lo individuassi.
È in quella circostanza che, fra l’altro, riuscì a
dirmi di un momento del suo dramma, uno di quei
momenti che possono bastare per caratterizzare un
uomo. La Polizia aveva trovato nelle tasche del nostro
compagno una chiave. Si trattava dell’alloggetto di via
Luccoli in cui in forma pienamente legale, come si diceva
allora, aveva trovato dimora. Io sapevo di quella
cameretta, sapevo della padrona, una vecchietta che si
era affezionata a Pieragostini e che aveva per lui premure
come se fosse un figlio, orgogliosa di avere ospite
quell’avvocato (questa era la professione scritta sui
documenti legalmente falsi), così gentile così discreto.
La polizia fascista e le SS scorsero in quella chiave chissà
quale strumento per giungere ai segreti della Resistenza
genovese. E non poche delle tremende sofferenze
del nostro compagno furono legate a quella
chiave e alla domanda ripetuta per giorni e giorni sotto
le torture: “Quale porta apriva quella chiave”. Pieragostini
mi disse che anche nei momenti in cui si sentiva
abbandonato da ogni forza e lucidità era riuscito a
resistere, a tacere della famosa porta. Nella nebbia della semi incoscienza vedeva sempre il volto umano, materno,
della vecchietta di via Luccoli e gli era inaccettabile
la visione degli sgherri di Veneziani e di Kuck
che irrompevano in quell’alloggetto portando certo
terrore, forse la morte. Quella vecchietta nulla ha mai
saputo della tragedia che anche per lei un comunista
stava vivendo. Ma se avesse saputo, forse non si sarebbe
stupita. Aveva considerato un figlio quell’uomo così
rispettoso ed era giusto che fosse stata considerata
da lui una madre. ... Il mattino del 23 marzo ho avuto
occasione di vedere Pieragostini profondamente addolorato
dopo il prelevamento di 20 detenuti destinati
alla fucilazione fra i quali v’era il compagno Franco
Diodati, da lui conosciuto fanciullo in Francia. Mi disse
che aveva sofferto come un padre per il figlio. Diodati
riuscì a sfuggire alla fucilazione e son certo che
neanche la propria liberazione gli avrebbe potuto recare
maggior piacere». Più avanti ricorda ancora:
«Sempre “all’aria” in aprile, quando i nostri aguzzini
avevano allentato la sorveglianza, mi parlò della sua
compagna, di Lina, mi disse del figlio che attendevano.
E non potrò mai dimenticare il tono della sua voce,
i suoi occhi chiari, venati di commozione, quando
mi disse: “il mio dolore più profondo è che forse non
potrò mai conoscere mio figlio”. Debbo a Pieragostini,
nelle conversazioni lungo via Corsica, tanta parte
della mia formazione. Ma gli debbo soprattutto il
grande insegnamento umano e morale che riuscì a
darmi anche attraverso le sbarre di un cancelletto...».
Tutti i tentativi per liberarlo intrapresi dal CLN furono
sempre vani. Le ultime sue due lettere alla compagna
Lina Fibbi portano le date del 28 e del 29 marzo 1945:
«Cara Lina, carta, tempo e vigilanza m’impediscono di
dirti tante cose. Sii forte e coraggiosa. Abbi cura del
nostro prossimo figlio e se io non potrò vederlo né conoscerlo,
sappi che già ora lo amo tanto. Il dolore di
non poterlo un giorno stringere nelle mie mani è grande,
ma non dispero del tutto. Comunque educalo alla
scuola di suo padre e alla tua e chiamalo Gianni. Saluta
tutti i compagni e per te tanti baci e abbracci».
«Cara Lina, i nostri biglietti, il mio del 28 e il tuo del
21 si sono incontrati lungo il cammino ed io esaudisco
il tuo desiderio espresso in quelle poche righe. Sono
lieto di saperti in buona salute e tutta intenta a preparare
e a prepararti per il nostro bimbo. Non ti ripeto
quanto ti scrissi ieri. Sono in attesa di tutto e di nulla.
Ringrazio tutti per quello che si fa per me e anelo fortemente
una riuscita per poter riprendere posto nella
nostra famiglia e partecipare alla ricostruzione del nostro
paese. Abbi cura e abbine per il nostro bimbo qualora
io non ci fossi. Tanti baci a te e al nostro piccolo
quando nascerà. Saluti a tutti».
Ritornando alla cerimonia, dopo la Messa celebrata
nella Chiesa parrocchiale, e dopo un breve saluto del
Sindaco di Bornasco, Michele Degnoni, l’orazione
ufficiale è stata affidata alla prof. Maria Pia Bozzo dell’Istituto
Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età
contemporanea. Un corteo ha quindi raggiunto
il cippo che ricorda i Caduti per la deposizione delle
corone.
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