Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
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DANTE ALIGHIERIConvito. Del tempo che Dante ritrasse e che si specchia nel suo poema, non crediamo necessario dir altre parole : età titanica veramente, nella quale la cristianità, per delirio d'amore e per impeto di pie* toso e tremendo entusiasmo, cercò di trasumanarsi e di snaturarsi. E veramente di questa ascetica barbarie sono e saranno sempremai paurose e odiose le memorie agli epicurei del cristianesimo ed agli stoici del sensualismo. 11 Lamartine, e in ciò ei risponde drittamente all'indole francese, che il Fauriel e il Villemain avevano temperata con lunga pazienza di studii, prova per l'epopea dantesca lo stesso turbamento che avrebbero destato in un Ateniese le mostruose mobilità di Valmiki e le architettoniche caverne d'Elefanta. Di questo solo non sappiamo risolverci, come mai un discepolo di Chateaubriand abbia potuto mettere poco meno che in canzone le estasi del Paradiso dantesco, ove, lo dice egli stesso, è descritto l'indescrivibile. Ma innanzi tutto, chi legga le opere poetiche del Lamartine e quei suoi quadri dove non è mai limpidamente delineato il doppio mondo dei sentimenti e dei sensi, che si riverberano vicendevolmente la vita, ma dove invece la natura è annegata in una sfumatura di colori sopra colori, impastati e stemperati nelle idee, e per converso l'anima è piena delle inconsapevoli armonie e della cosmica attonitaggine della natura esteriore, indovinerà tosto che questo fantastico pittore di nebbie pensose e di trepidi orizzonti non è fatto per comprendere Dante. E peggio se in Dante ei debba giudicare un rivale. Anche il signor Lamartine, egli stesso ce lo racconta lungamente (pagg. 355-367), immaginò, covò e tentò una divina commedia, l'epopea dell'anima, il poema della terra e dei cieli, concepiti di lampo, una sera, ai piedi di Montealbano. « Sembrommi un tratto, dice il Lamartine, che il sipario del mondo materiale e del mondo morale si squarciasse davanti agli occhi della mia intelligenza; io sentii il mio spirito far quasi a dire un'esplosione improvvisa in me ed inalzarsi altissimo in un firmamento morale, come il vapore d'un gaz più leggero dell'atmosfera, di cui siasi sturato il vaso di cristallo, e che si slancia in fumo leggero nell'etere ». Questa visione poetica significata dal Lamartine con quel suo tremolìo di sopracolori e quel mezz'ombrare che toglie ogni fermezza ai contorni ed ogni rilievo alle cose, a che riesce poi ? Alle meraviglie paurose e deserte dell'astronomia, all'infeconda vastità di mondi esistenti pel telescopio di Rosse e morti al pensiero, all'incerta e timida supposizione c^egli spiriti astrali e cosmici, alle metempsicosi purificatrici ed espiatrici degl'Indiani, alla scienza infine e alla teologia: se non che, invece di essere la teologia cattolica, nutrita per tanti secoli della migliore sostanza dell'umano pensiero, è la teologia vagabonda d'Hennequin odi Jean Reynaud. — Quale giustificazione di Dante! e quale dimostrazione vittoriosa, che le grandi opere della poesia sono del tempo più ancora che del poeta ! Tentare una divina epopea nel nostro secolo, è voler che l'albero dia fiori nel tardo autunno. Dante apri la vita nuova: Goethe ha chiuso la canora vendemmia. Ornai l'anima umana ha bisogno di nuovo succhio d'opere e di pensieri, per poter credere di nuovo ai suoi presentimenti, e raccoglierli, e consacrarli. Lamartine
e gli altri nobili ingegni dei nostri tempi, coi loro concepimenti sconfinati, colla sapienza delle intenzioni, coll'impotenza di stile, di fede, di volontà, ci ricordano Apulejo e Claudiano. Ma tant'è: non v'è genio di poeta che possa ai di nostri cantareTemp'era del principio del mattino.
E molti secoli passeranno prima che un nuovo Dante splenda, come la stella del mattino, negli albori d'una nuova civiltà. La poesia per questo ci appare più divina, perchè ella è fatale, come la sua eterna compagnia, la gioventù e l'amore.
XV. Paralipomeni danteschi. — Rimangono i paralipomeni di sì gran tema. L'Alighieri per la sua trilogia scelse la terza rima, metro contessuto d'endecasillabi a rispondenze rinterzate, il quale, a giudizio dei più autorevoli maestri, e citiamo il Foscolo, è sopra tutti gli altri metri difficile, nemico delle riempiture e delle amplificazioni, serrato e scultorio: imperocché non riposando l'attenzione più sull'uno che sull'altro verso, ciascuno vi ha un proprio ed intero valore. Ancora devesi osservare che nessun metro più di questo rende immagine, mercè la continuata intrecciatura delle rime, di un processo e d'un trascorrimento non interrotto di moto e d'una successione di figure, non incorniciate e contorniate in quadri diversi, come avviene nelle ottave, ma collegate e schierate, conforme appunto avevano a passar le cose nell'immortal viaggio dantesco. Nè vuoisi tacere che la terzina co' suoi versi architettati a perpetua alternazione ha una gravità quasi sacra e una monotonia solenne che fu assomigliata al risponder delle litanie ed al fragore intercalato delle onde marine rotte al lido. — I canti della Divina Commedia sono 100; 34 della prima cantica; 33 per ciascuna delle altre due. Ogni canto ha da 30 a 40 terzine. Tutte e tre le cantiche finiscono colla medesima rima e colla stessa parola stelle. Del titolo vero del poema si fa gran disputa. Dante lo chiamò conmedia in contrapposto di tragedia, che così fa chiamare da Virgilio stesso VEneide. Ma con ciò parve piuttosto voler indicare il genere dello stile e dell'argomento, che dare il proprio e specificato titolo dell'opera, che in più luoghi appella poema sacro, e di cui indica il tema con quel celebreDescriver fondo a tutto l'universo.
In alcune edizioni del 400 troviamo apposto il titolo Le cantiche dtìla Commedia, in altre semplicemente Dante, a cui nell'edizione di Venezia del 1478 è aggiunto l'epiteto di venerabile. L'edizione di Aldo (1502; evita la questione del titolo ponendo nel frontispizio Le terze rime di Dante. Nell'edizione di Venezia del 1512, emendata dal Figino, troviamo per la prima volta dato a Dante il titolo di divino poeta. Infine, nel 1516, lo stesso Figino arrischia l'intitolazione di Divina Commedia (edizione di Venezia per Stagino di Monferra), non adottata subito, anzi non ripetuta che quarant'anni dopo nell'edizione del Giolito diretta dal Dolce (V enezia 1550) e consacrata poi nella celebre edizione della Crusca (1595). Il Torricelli (£/ttdii sul poema sacro di Dante Alighieri, volumi 2, Napoli 1850-1853) argomenta che il vero titolo del poema sia La monarchia di Dioy fondandosi principal-
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