Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
1?SDECENILENE — DECENZA
servizio militare e civile ; nel 365 av. Cristo il loro numero fu portato a dieci, cinque patrizii e cinque plebei (Liv., vi, 37,42) ; e successivamente a quindici (quindecemviri), ma non se ne conosce la data precisa. Siccome però nell'anno 82 av. Cr., in cui fu consunto da un incendio il Campidoglio (Dionys., I. c.), vi erano i decemviri, i quali si mantennero nello stesso numero anche ai tempi di Cicerone (Ad Fani., vili, 4), così è probabile che da dieci diventassero quindici sotto Siila (dall'81 al 79 av. Cr.), sendo certo d'altronde che costui aumentò il numero di parecchie altre corporazioni religiose. Giulio Cesare ne aggiunse ancor uno (Dion., xui, 51), ma l'esempio non ne fu poscia imitato, e quindi il collegio constò sempre in appresso di soli quindici membri. Era inoltre obbligo di cotesti decemviri e quinde-cemviri il celebrare i giuochi in onore di Apollo e i secolari (Liv.,x, 8; Tac., Ann.,xi, 11 ; Hor., Cartn. scec., 70), venendo conservati come sacerdoti di Apollo, e conservando perciò ciascuno di essi un tripode nella propria casa, dedicato a questo nume.
Vedi Servius, Ad Virg. (m, 332).
DECENILENE (chini.). — Nome dato da Reboul e Truchot ad un carburo (C^H'8) della serie C°H2"-2, preparato con scaldare per sei ore in vasi chiusi il decilene monobromurato con tre volte il suo volume di potassa alcoolica.
DECENNALI (archeol.). — Antiche feste romane che celebravansi dagl'imperatori ad ogni decimo anno del loro regno, con sacrifizii, giuochi e largizioni al popolo. Augusto fu primo ad istituire queste solennità, nel che fu imitato da' suoi successori. Il popolo vi faceva voti per l'imperatore e per la perpetuità dell' impero, che perciò si chiamarono vota decennalin. Il fine di Augusto nello stabilire le decennali si fu di conservare l'impero e il potere supremo con un'apparenza di libertà nel popolo; giacche durante la celebrazione di tali feste egli usava di rinunziare ad ogni sua autorità nelle mani del popolo, il quale, pieno di gioja e contento di tanta bontà d'Augusto, gliela riconsegnava immediatamente, come s'aspettava senza fallo che avrebbe fatto.
DECENZA (etic.). — Stando al valore etimologico della parola, la decenza consisterebbe nel dare alle nostre azioni quell'esteriore forma che loro conviene, nel serbar negli usi e nei costumi quel decoro che è come un omaggio reso al sentimento naturale del pudore. Ma in che precisamente debba consistere questa qualità, non è facile determinare, perchè ciò che conviene, quod decet, non va apprezzato soltanto dal merito intrinseco delle opere, ma sì ancora dai tempi, dai luoghi, dal sesso, dalle condizioni. La decenza impone, è vero, degli obblighi che sono inviolabili, come la morale da cui derivano, ma è costituita eziandio da certi atti il cui valore è soggetto a notevoli cambiamenti.
Questa qualità essenziale all'uno e all'altro sesso, benché i suoi precetti siano più rigidi per la donna, consiste nel rispetto costante pel buon costume e per le convenienze, nella cura di conformare tutte le azioni alle leggi, agli usi, alle pratiche della società, di cui una buona educazione fa contrarre l'abitudine.
La decenza ammette modificazioni secondo i paesie i climi, salvo però il buon costume. La nudità di una fanciulla di Sparta si giudicava decente secondo le leggi date a quel popolo, ma era indecente secondo quelle del buon costume naturale. Presso i Romani, al contrario, il pubblico pudore esigeva dalle donne un'attenzione particolare a nascondere le loro attrattive ad ogni sguardo.
La decenza è all'abbigliamento ciò che la modestia è allo spirito ; essa ne il più bel complemento. Le donne che si allontanano dalla decenza nel modo di abbigliarsi possono bensì riuscire singolari, ma perdono sicuramente della stima che dovrebbero cercar sovrattutto d'inspirare. Fu detto che lo stile è l'uomo stesso; si potrebbe dire con altrettanta g'ustezza, che la teletta è la donna. Agli occhi di un osservatore esperto, essa disvela nel suo acconciamento le sue inclinazioni e il suo pensiero. È quasi impossibile che uno spirito onesto, un pensiero casto regnino in una donna che offende il pudore e sprezza la decenza. Le mode impongono talvolta certi obblighi da cui uno non si potrebbe esimere senza incorrere nel ridicolo; ma è tempre possibile di adattarvisi soltanto in ciò che ragionevolmente esigono. Le donne ben nate possono sostituire alle sconvenienze della moda la loro modestia e quella decenza assai più onorevole che sta nel linguaggio, negli sguardi e nel portamento. Sarebbe un eccellente studio per le donne quello dei diversi costumi in uso presso i differenti popoli, paragonati ai costumi del giorno e della propria nazione ; esse vedrebbero che si andò sempre lontano dalla virtù quando si andò lontano dalla decenza.
DECENZA (rett.). — La decenza per chi parla o scrive consiste nell'esporre le cose per modo che non disconvengano nè al dicitore o scrittore, nè a chi ascolta o legge. Vuoisi perciò saper scegliere ciò che può riuscire gradito, e fuggire ciò che può offendere e ripugnare. Se, per es., s'ha da parlar d'una piaga, dicasi ch'è viva ; se d'un cadavere, descrivasi come livido e insanguinato, ma nulla più ; poiché l'immaginazione ributta tutto ciò che ingenera fastidio ai sensi, e più alla vista e all'odorato. Il Tasso perciò scrisse a questo proposito : t Deve scegliere il poeta cose gratissime alla vista ed agli altri sensi, e schivar quelle cose che sono spiacevoli ad alcun di loro, come doveva far Dante, il quale, chiamando il sole lucerna del mondo, ci fe' quasi sentire l'odor dell'olio ». Se non che il Tasso medesimo non seppe poi seguire questo giustissimo precetto là dove nella Gerusalemme descrive il fetore ch'esce dalla bocca di Plutone, che, per quanto la cosa sia poeticamente espressa, non lascia di generar ribrezzo in chi vi si ferma col pensiero.
Nè solamente la decenza richiede che nel discorso si rifugga dalle cose sordide e da ignobili concetti, ma eziandio dalle parole umili, quantunque oneste, principalmente quando sono collocate fuori di luogo. Longino rimproverò per questa ragione a Teopompo d'aver fatto un brutto miscuglio d'oro, di gemme, d'otri, giumenti, ecc., nella descrizione del passaggio del re di Persia per l'Egitto, dicendo che in mezzo ad un magnifico apparato finisce per offrirci l'immagine d'una cucina. D'uopo era adunque in questo caso, al dire di Longino, dalle cose piccole ed umili passare alle grandi e magnifiche. Si
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