Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
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DEMOSII — DEMOSTENEnotions of Logie (1839); Formai Logic, or the cai-culus of Inference; Necessary and Probable (1847). Quattro memorie sul Sillogismo pubblicate nei volumi 9° e 10° delle Cambridge Philosophical Transactions; ed un gran numero di scritti minori.
DEMOSII (archeol). — Schiavi pubblici di Atene che comperavansi dallo Stato. Alcuni di essi occupavano impieghi subordinati nelle assemblee e nei tribunali, e adoperavansi pure come araldi, amanuensi, ecc. Secondo Ulpiano, venivano ammaestrati a spese dello Stato, affinchè potessero disimpegnare le accennate funzioni. Siccome questi schiavi pubblici non appartenevano ad alcun individuo, cosi pare che godessero di alcuni diritti di cui non godevano gli schiavi privati. Altra classe di schiavi pubblici componeva la guardia della città, cui in-cumbeva di mantenere l'ordine nelle pubbliche assemblee, ed allontanarne ogni persona che i pritani avessero indicata. Chiamavansi generalmente arcieri (toltoci), o Sciti, per essere i più di questa nazione, od anche Speusinii, dal nome di chi primo stabilì quella truppa. Eranvi pure tra essi molti Traci ed altri barbari. Vivevano da prima in tende sulla piazza del mercato, poi sull'Areopago, e i loro uffi-ziali chiamavansi tossarchi (xo^ap/oi). Il loro numero fu da principio di 300, allorché furono comperati poco dopo la battaglia di Salamina, ma di poi fu portato a 1200.
DEMOSTENE (lat. Demosthenes, gr. Ar),AoOévo;, forza, il che corrisponde appieno alla sua devozione per la causa popolare) (biogr). — I. Nascita ed infanzia. — 11 massimo dei greci oratori, ch'ebbe per padre il generale ateniese dello stesso nome, nacque nel demo o comune attico Peania, della tribù Pandionide, e morì in Calauria, isoletta del golfo di Egina, ad un chilometro circa dal continente, nell'inviolabile tempio di Nettuno, il di 10 novembre del 322 av. Cristo. Precisa e certa al pari della data della sua morte non è quella della sua nascita, discordando gli eruditi nel fissarla al 381, 382, 383, 384 e 385 avanti Cristo ; ma la più accreditata si è l'ultima del 385, ed ha per sè il suffragio dei più accurati critici della classica letteratura, per esempio, Becker, Bòckh, Westermann, Thirlwall, ecc. Suo pad: e morendo lasciò la moglie Cleobule, figlia di Gilone, il figlio settenne Demostene ed una figliuolina di soli cinque anni, affidandone la cura e le sostanze, fra cui una fabbrica di spade, a tre tutori : Afobo, figliuolo di sua sorella, Demofonte, figlio di suo fratello, e Te-rippide, suo amico d'infanzia, a patto che il primo dovesse sposare la vedova con una dote di 80 mine ossia 7414 lire italiane, il secondo la figlia giunta alla pubertà, colla dote di due talenti (11,122 lire), ed a Terippide era assegnato l'interesse di un capitale di 70 mine (6488 lire) finche Demostene entrasse nella classe degli uomini fatti (Soxt{xaSpa?), il che si eseguiva all'età di diciotto anni. I due primi tutori non adempierono punto alle condizioni testamentarie, e tutti e tre si misero perfettamente d'accordo, non ostante le proteste della famiglia, per iscialacquare od appropriarsi la maggior parte del patrimonio, ascendente a più di 14 talenti (77,853 lire), e che, durante la minorità di Demostene, 6i sarebbe raddoppiato con una saviaamministrazione. Avvenne quindi che Demostene, uscito di pupillo, non trovò che sole 70 mine, ossia la duodecima parte del paterno retaggio; il che valse principalmente ad incitarlo allo studio dell'eloquenza per vendicarsi dinanzi ai tribunali delle ingiustizie e scelleraggini dei suoi tutori, e servi inoltre a sviluppare in lui la passione del giusto e dell'ingiusto, che formò il carattere di tutta la sua vita, come pure ad afforzare l'indipendenza ed il vigor naturale della focosa anima sua, mettendolo di buon'ora in lotta con coloro che gli erano dav-vicino.
II. Tutori e studii. — Ad onta della nequizia e delle vessazioni dei suoi tutori, non è da credere con Plutarco (Dem., 4), ch'egli sia cresciuto abbandonato e negletto senza educazione di sorta, venendo anzi i medesimi accusati di essersi rifiutati a pagare i Buoi maestri (c. Aphob., i, p. 828), il che proverebbe che abbia frequentato alcune scuole, e lo conferma poi egli stesso (De Cor on., p. 312, 315), sebbene non si possa supporre che fossero dappiù di un corso elementare. I molti uomini insigni che vengono ricordati come suoi maestri non devono essere stati in relazione con lui che alla sua età virile, sebbene Plutarco asserisca che abbia appresa filosofia da Platone (Plut., Dem., 5, Vit. X Orat., p. 844; Diog. Laert., ni, 46; Cic., Brut., 31, Orat., 4; Quintil., xm, 2, § 22,10, § 24; Gellius, ni, 13). Può darsi benissimo che abbia conosciuto e stimato Piar-tone, ma è più che dubbioso che ne abbia avuto ammaestramento, ed il dichiararlo perfetto platonico, come fanno alcuni critici, è andare al di là di ogni limite. A detta di parecchi (Plut, Vit. X Orat., p. 844; Phot., Bibl., p. 492), egli frequentò il corso di eloquenza del mellifluo Isocrate ; ma gli antichi stessi non andavano d'accordo bu questo punto, ed è assai più probabile che abbia studiato soltanto l'arte oratoria (ts/vt] ^topix^) scritta da Isocrate (Plut., Vit. X Orat., p. 837, Dem., 5), perchè le stesse sue orazioni non rivelano per nulla lo spirito isocratico, e della scuola oratoria d'Isocrate non si fa schivo di parlare con disprezzo (c. Lacr., p. 928, 937). Devesi piuttosto ammettere, colla scorta di altre testimonianze (Plut., Dem., 5, Vit. X Orat., p. 844; Phot., Bibl., p. 492), ch'egli abbia avuto a maestro d'eloquenza Iseo, perchè costui era il più valente oratore in materia di leggi ereditarie, l'unica cosa di cui allora abbisognasse Demostene, le cui due orazioni contro Afobo ed Onetore, primissimo frutto de' suoi studii, hanno tanta somiglianza con quelle d'Iseo, che gli antichi stessi ritenevano averle questi composte per lui, od averle scritte egli medesimo sotto la sua direzione (Plut., Vit. X Orat., p. 839; Liban., Vit. Dem., p. 3; Argum.ad OratA e. Onet., p. 875). Alle lezioni del retore esimio aggiungeva Demostene lo studio dei più ragguardevoli scrittori attici, sforzandosi principalmente, se si voglia aggiustar fede all'alicarnasseo Dionigi, di appropriarsi alcune delle qualità eminenti del sommo isterico Tucidide, per esempio, la vivacità, il nerbo, la veemenza, il tono mordace ed austero, il sublime che commuove i cuori; Luciano poi pretende che abbia copiato la storia di Tucidide sette volte consecutive, e Zosimo va ancora più in là, asserendo chet consuntene da un incendio tutte le copie, l'abbia
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