Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
DEMOSTENE
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ritàmostrare grande benevolenza agi'infelici, perchè l'avvenire è coperto di un velo per tutti i mortali ». Non si sa quale sia stato il successo di queste eloquenti parole, ma credesi che gli Ateniesi, preoccupati della loro guerra contro i Macedoni, non abbiano potuto prestare ai Rodiani ajuti efficaci, e che l'oligarchia siasi perpetuata nella loro isola.
VII. Grandezza e sventura. — Eccoci di già al più splendido e più doloroso periodo della vita del sommo oratore, che, disperando della salvezza della patria, dopo avere spiegata tutta la possa del suo genio oratorio ed esauriti tutti gli spedienti della I>olitica sua accortezza, pose termine ai suoi giorni col veleno. Il barbaro Filippo II di Macedonia (regnante dal 360 al 336 av. Cr.), invido della prosperità delle greche repubbliche, aveva incominciato di già fin dal 358 av. Cr. le sue usurpazioni nei possedimenti ateniesi al N. dell'Egeo, ed erasi impadronito di Anfipoli, Pidna, Potidea e Metone, studiandosi intanto di gabbare gli Ateniesi con esorbitanti promesse e non spingendo oltre le sue invasioni nella Tracia. Mentre gli Ateniesi ristoravano le loro forze, esauste dall'insurrezione dei loro alleati, Filippo profittò ben volentieri della guerra sacra, scoppiata nel 356 contro i Focesi, per immischiarsi nelle faccende dei Greci, e col pretesto di dar l'ultimo crollo ai Focesi medesimi, tentò, nel 353, di superare le Termopili, ma fu respinto dal generale ateniese Nausicle. Egli allora, nella maliziosa sua astuzia, dissimulò il fallito tentativo e le suscitate paure, e seppellissi per due anni continui nella sua capitale Pella, fingendo di abbandonarsi a folli piaceri in mezzo a pittori, scultori, architetti, istrioni, buffoni e scioperanti di ogni fatta, in guisa che non si parlava più che delle sue stravaganze e sregolatezze. I più assennati tra i Greci si accorsero bentosto della satanica simulazione di Filippo, che stava meditando la perdizione non solamente di Atene, bensì di tutta Grecia; ma fa solo Demostene ch'ebbe l'onestà ed il civile coraggio di dirlo apertamente e scongiurare i Greci a riunire le loro forze e mostrarsi concordi contro il comune nemico, recitando quelle sue famose orazioni contro l'usurpatore, dettate dal più caldo pa-triotismo, e che, dal nome di quello, Filippiche si addimandarono. Ce ne fa fede di subito la prima, pronunciata nel 352 av. Cr., in cui esorta ed incalza i suoi cittadini di accingersi risolutamente all'opra, di non più perdere il tempo in lamentazioni sul passato ed in vane ipotesi sull'avvenire, ma di portare immediatamente la guerra in Macedonia, per non essere poi costretti a respingerla alle porte stesse di Atene. Indica colla massima precisione il numero dei soldati e delle navi necessarie alla spedizione, come pure i mezzi per far fronte alle spese della guerra, non risparmiando in fine verso gli uditori le severe parole e i minacciosi pronostici. « Quanto a voi, o Ateniesi, diceva, sebbene possediate le forze più imponenti della Grecia in navi, fanteria grossa, cavalleria e rendite, non traestè però partito giammai fino a questo giorno, anche straordinariamente agitandovi, di alcuno di codesti vantaggi. La vostra maniera di combattere Filippo somiglia propriamente ad un pugilato di barbari, m ferito l'uno, ad altro non pensa che al colpo.
ricevuto, e se d'altra parte è percosso, stende a questa incontanente la mano ; ma stornare le percosse e dame alla sua volta, nè sa nè può. Lo stesso dir si deve di voi : giungevi la notizia che Filippo è nel Chersoneso, e voi un decreto per soccorrere : udite eh' è alle Termopili, e voi un altro per le medesime ; in qualche altro punto, e voi subito correre su e giù a seguitarlo. Sì, voi fate evoluzioni sotto il suo comando, senza adottare da voi stessi alcuna importante misura di guerra, senza nulla affatto prevedere, attendendo novelle dei disastri di jeri e d'oggi. In altre congiunture potreste forse diportarvi così ; ma la crisi è già prossima e richiede ben diverso modo di agire ».
VIII. Decidenza dei Greci. — Tanta eloquenza e tanto sfoggio di ragioni riuscirono inutili, non già per colpa dell'oratore, ma per la terribile fatalità delle umane cose, che di leggieri precipitano per sdrucciolevole pendìo, e si adagiano al fondo di ogni miseria. La Grecia non era più, all'epoca dello scaltro Filippo, la terra libera e forte di Cimone e di Aristide ; i germi della corruzione e della fiacchezza si erano infiltrati nelle midolle de' suoi abitanti, e le repubbliche greche, fiorenti e gagliarde poco più di un secolo prima, andavano di già dissolvendosi e lacerandosi tra loro. I Focesi erano impegnati in guerra mortale coi Tebani ; gli Stati del Peloponneso guardavansi in cagnesco, e fu un vero prodigio che Atene serbasse ancora un'ombra dell'antica sua supremazia. Invano adopransi alcuni cittadini ad iniziare e ricostituire una confederazione ellenica, come altra volta quando irrompevano dall'Oriente i Persiani ; indarno si affaticava Demostene a spingerli a cotesta nobile meta, perchè i discendenti dei vincitori di Dario e Serse non erano più capaci degli sforzi dei loro antenati per giungervi. Avvezzi alle oziose discussioni della pubblica piazza, sciupando le rendite dello Stato in feste religiose e pompe teatrali, si rassegnavano tardi e per metà alle dure fatiche del campo, contentandosi di opporre ai valorosi soldati di Filippo indisciplinati mercenarii, mal pagati, mal diretti e quasi sempre vinti. Lasciandosi abbattere dalle sconfitte, subivano la pace ; ma appena conchiusa, trovandola comperata troppo cara, concepivano tantosto bellicosi progetti e formavano piani di campagna. Di tal maniera, non sapendosi rassegnare nè alle umiliazioni della pace, nè ai sacrifizii della guerra, non facevano questa giammai in tempo opportuno, e non godevano mai appieno dell'altra. In cotesto alternative di prostrazione ed esaltazione d'animo, il popolo pendeva or per l'uno, or per l'altro dei due partiti che si disputavano la preminenza in Atene. L'uno, considerando la preponderanza macedonica come un fatto compiuto, era di avviso si dovesse accettarla spontaneamente, per non essere poi costretti a subirla, e chiedeva in pari tempo che la sovranità, anziché essere patrimonio comune, diventasse privilegio di pochi. Era questo il partito oligarchico, avente a capo l'integro Focione, ma ad istrumento l'eloquente e venale Eschine. Il partito democratico, all'incontro, guidato già per trent'anni da Demostene, voleva che il popolo colle istituzioni de' suoi maggiori conservasse anche le tradizioni patriotiche per cui si resero grandi, si considerasset^iOOQLe
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