Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
DEMOSTENE
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presente a quella fatale battaglia più da «omo ài Stato che di guerra, perchè non era investito di alcun comando militare, e non è probabile che vi militasse da semplice soldato. Sbaragliate le truppe federali, egli certo non rimase sul campo per* farsi uccidere e darla vinta alla fazione macedone ed oligarchica, ma corse a porsi in salvo nella natia città, ove preparò tutto per una disperata resistenza. Il popolo, ammirato di tanta energia, che non la-sciavasi domare dai più spaventosi disastri, lo incaricò di regolaro la distribuzione de' combattenti sui bastioni, di dirigere la costruzione delle trinciere e di vegliare agli approvvigionamenti. In pochi giorni, a forza di attività e sacrificando parte delle sue sostanze, mise Atene in tale stato di difesa, che Filippo rinunziò al pensiero di prenderla d'assalto o d'imporlc umilianti condizioni, e mentre trattava con soverchio rigore i Tebani, rimandò i prigionieri ateniesi senza riscatto ed accordò alla Repubblica onorevole pace. Sebbene la condotta di Demostene dopo la battaglia di Cheronea avesse eccitata l'ammirazione sincera del popolo, che gliene fece pubblica testimonianza, incaricandolo di pronunziare l'orazione funebre per i guerrieri in essa caduti, ciò non ostante la vittoria di Filippo aveva resa più orgogliosa la fazione macedonica, la quale, colla falsa apparenza di deplorare le sventure della patria, ne faceva ricadere tutta la responsabilità sull'autore della guerra. Nè i veri capi si mostravano al pubblico, nascondendosi dietro i più noti e famigerati sicofanti, come Sosicle, Dionda, Melantono, Aristogitone, ecc., i quali, col solito schiamazzo de' prezzolati calunniatori, lo accusarono di procedimenti illegali, malversazioni e tradimento. Calunnie cosi sguajate non erano certamente un pericolo pel calunniato, ma cagionavano disgusto e imbarazzo, e i di lui amici, per trarsi d'impaccio tutto ad un tratto, risolsero di chiedere per lui uua ricompensa che servisse di solenne approvazione a tutti i suoi atti passati. Ctesifonte quindi, uno di essi, propose che gli venisse decretata una corona d'oro, in teatro, durante le grandi feste dionisiache, e si proclamasse che gli venisse assegnato quel nobile guiderdone per la sua condotta nella vita pubblica, e più particolarmente per il patriottico disinteresse con cui si adoprò negli apparecchi fatti dagli Ateniesi, dopo la battaglia di Cheronea, quando Filippo era quasi alle porte di Atene. Quest'era lo stesso che gettare un guanto di sfida alla fazione macedonica, e così infatti la intese Eschine, che si levò a combattere quella proposta, dichiarandola illegale per la forma, e più riprovevole ancora nella sostanza, dappoiché Demostene non solo non meritava un'aurea corona, ma piuttosto il più rigoroso castigo. Era dunque incominciata la gran lite fra i due rivali, che si protrasse, per ragioui a noi ignote, ad otto anni, nel volgere dei quali due grandi avvenimenti si compierono. La morte di Filippo, nel 336 avanti Cristo, fece rinascere nei Greci la speranza di scuotere il giogo macedonico, e Demostene all'inaspettata novella, dimentico del lutto per la perdita della figlia mortagli da soli otto giorni, esci sulla pubblica piazza ad eccitare il popolo aH'armi ed a stringere nuove relazioni colla Persia. Ma la comparsa sul teatroNuova Encicl. Ital Voi.
della guerra del macedone Alessandro, detto poi il Grande, alla testa di un agguerrito esercito infrenò repentinamente queste bellicose velleità, e gli Ateniesi inviarono senz'indugio un'ambascieria al nuovo monarca. Fra i componenti la medesima eravi anche Demostene, il quale preferì di esporsi alle beffe ed agl'insulti dei suoi nemici, piuttosto-che piegarsi al cospetto del figliuolo di Filippo o chiedere grazia per la patria oppressa; e per tal ragione se ne ritornò a metà strada.
XIV. Insurrezione, vendetta e bando. — Bolliva intanto nei.Greci il dispetto della straniera tirannide, ed appena si udì che Alessandro si era addentrato nella Tracia per reprimere i moti delle popolazioni finitime alla Macedonia, ecco scoppiare in Grecia una nuova insurrezione, fomentata dai Tebani che più degli altri avevano sofferto, e propagarsi nell'Arcadia, nell'Argolide, nell'Elidc ed in Atene. Ma non era dessa pur troppo che un fuoco fatuo, perchè i soli Tebani spiegarono energia, senza essere secondati nell'Impresa neppure dagli Ateniesi, che al decreto demosteniano di prestar loro ajuto non risposero, e quindi Demostene solo, a sue spese, si adoperò a spedire ai medesimi qualche munizione da guerra (Diod., xvir, 8). Alessandro non era morto, come se n'era sparsa la voce, ma vincitor della Tracia se ne tornava frettoloso a domare la Grecia, svellendone i germi della rivolta. Sfogò quindi l'ira sua contro Tebe, che fece radere al suolo, rispettando unicamente, col solito fasto de' conquistatori gavazzanti nel sangue, la casuccia di Pindaro, il grande poeta nazionale che più di un secolo prima aveva cantate in Olimpia le vittorie dei Greci sui Persiani. Atene, visto lo strazio dell'emula Tebe, si sottomise, e Alessandro insuperbito chiese la consegna di tutti i capi del partito democratico ; al che il troppo prudente Focione aderiva di già, esortandoli a rassegnarsi alla morte, ma il popolo nel generoso suo sdegno rifiutò il suo voto, incaricando Demade d'intendersela col vincitore. Costui si ammollì, e non solo fe' venia agli Ateniesi, ma loro eziandio raccomandò di applicarsi ai pubblici affari, dovendo essi, diceva egli, governare la Grecia, nel caso incogliesse lui qualche sinistro. Questo modo di esprimersi da parte di un nemico fu il più bell'elogio della politica suggerita da Demostene, e la sua patria, resasi grande colle suo stesse sconfitte, non aveva rivale tra le greche repubbliche. Peccato che il demone della discordia l'agitasse ! So ne fece tantosto dolorosa esperienza nella lite già citata per il decreto di Ctesifonte e l'accusa di Eschine, aperto campo alle due fazioni che tra loro si laceravano. Dopo sette anni doveva aver termine alfine un processo che rendea trepidante tutta la Grecia, e così fu, perchè appunto nel 330 avanti Cristo, Eschine fu vinto nell'aspra lotta, ad onta dei prodigii della sua audacia ed eloquenza. L'accusa fu respinta da più di 4/n dei votanti, egli convinto di calunnia e per conseguenza condannato all'esilio, non avendo potuto minimamente confutare la stupenda orazione sulla corona (rapi
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