Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
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DEMOSTENEcerone, il più grande dei romani oratori, come lo era stato Demostene pei Greci, il quale così si esprime ; « Demostene, posto da noi sopra tutti gli altri oratori, in quella per Ctesifonte più ch'egregia orazione, dapprima si fe' innanzi sommesso, poscia, disputando delle leggi, incalzante, quindi a poco a poco avanzando, appena visti ardenti i giudici, con più ardire andò spaziando nel resto..... Quella orazione invero può inchiudersi siffattamente nel tipo di cui abbiamo improntata la mente, che di maggiore eloquenza non faccia mestieri ». La fazione oligarchica, subita nella persona di uno de' suoi capi una strepitosa sconfitta, si ricattò cinque anni più tardi, profittando dell'arrivo di Arpalo, infido luogotenente di Alessandro, che fuggì, nel 325 avanti Cristo, da Babilonia con 5000 talenti (circa 28 milioni di lire) e con 6000 mercenarii, abbandonò la flotta al capo Tenaro (Tcenarum, oggidì C. Matapan nella Laconia, la punta più meridionale di Europa), e si presentò al porto di Atene con una sola nave, chiedendo ricovero. Concederglielo era lo stesso che inimicarsi il re macedone, e quindi ' Demostene, non credendo giunto ancora l'istante di arrischiarsi in tale impiccio, propose che non si ricevesse il fuggiasco e se ne staggissero i tesori per restituirli ad Alessandro.
XV. Accusa, esilio e riforno trionfale. — Cotesto decreto non fu adottato, almeno nel suo complesso, e senza dare risposta positiva ad Arpalo, fu scelta una commissione, di cui era membro anche Demostene, per fare l'inventario della somma depredata. Nel frattempo ecco giungere Filosseno, luogotenente di Alessandro, e parecchi emissarii di Antipatro, reggente la Macedonia, e della co-reggente Olimpia, per reclamare l'estradizione del reo. La faccenda assumeva dunque un altro aspetto per l'intervento degl'inviati macedoni: discacciare Arpalo o consegnarlo, significava egualmente cedere non già alla giustizia, ma all'intimazione di un padrone ; il resistere era dissennatezza, il cedere e sottoporsi, vergogna ; Demostene quindi nell'imbarazzante alternativa stimò opportuno di starsene zitto, e gli Ateniesi, con tutta l'apparenza di condiscendere, lasciarono intanto fuggire il colpevole. Gli emissarii instarono allora per un'inchiesta contro gli oratori accusati di aver ricevuto regali dal delinquente Arpalo, e Demostene, caduto in sospetto pel suo silenzio, diede il suo appoggio al progetto d'inchiesta, domandando egli stesso di comparire in giudizio. Il popolo nominò dieci accusatori, ed il processo durò sei mesi, nel volger dei quali Demostene presentò la sua difesa coll'orazione detta da Ateneo (xu, p. 592) del danaro (rapì tou -/puai'ou), ed è probabilmente quella stessa che chiamasi da altri Vapologia dei doni (àTroXo'/i'a tmv Stópwv. Dionys., De admir. vi die. Dem., 57 ; Ep. ad Amm., i, 12). Ciò non ostante l'Areopago lo dichiarò colpevole, e lo condannò all'ammenda vistosa di 50 talenti (278,045 lire), il che equivaleva alla pena del carcere, non avendo egli i mezzi di pagare; fu dunque messo in prigione, dalla quale peraltro scappò, conniventi, a quanto sembra, gli stessi magistrati (Plut., Dem., 26; Vit, X Orat., p. 846; Anonym., Vit. Demosthp. 158), e visse parte in Trezene (odierna Damala nella Morea) e parte in Egina (anche og-
gidì Egina o Egkina sul golfo dello stesso nome), volgendo ogni giorno lo sguardo desioso alla diletta sua città natale, donde poterono sfrattarlo alfine le cajunnie degl'inveleniti suoi nemici. Diciamo calunnie, perchè tali le dimostra la veridica storia, come risulta da un passo genuino di Pausania, in cui si legge che Filosseno colse sull'isola di Rodi lo schiavo che portava i tesori di Arpalo, trafitto già in Creta dagli altri suoi schiavi, lo mise alla tortura per saper tutto, e fra i nomi degli Ateniesi corrotti dal danaro del di lui padrone non udì mai quel di Demostene, e perciò non lo scrisse neppur egli nelle liste di que' venali che spedì in Atene, quando pur tanto gli stava a cuore d'infamare il più accanito nemico di Alessandro, da cui egli stesso era stato offeso. Noi fece, dunque noi potè, mancandogli anche il menomo indizio di accusa, e se l'Areopago lo condannò, il fece per timore dei Macedoni, dicendo espressamente un antico biografo che gli Ateniesi lo condannarono unicamente per tale paura (ocùtou xairpiuiaav 'AXe,«vSpou 8ceT, lo condannarono per paura di Alessandro). Nel suo esilio, più di ogni altro dolore, aftliggevalo dunque il pensiero della ingratitudine e codardia de'suoi concittadini, ed è per ciò che ai giovani i quali recavansi a visitarlo e consolarlo inculcava di non immischiarsi nelle politiche faccende, dicendo: « Se da principio mi avessero mostrato due vie, conducente l'una alla tribuna e alle nazionali assemblee, e l'altra ad una certa morte, e se avessi potuto prevedere i dolori inevitabili dell'uomo di Stato, timori, gelosie, calunnie, contrasti, mi sarei gettato a capo chino sul sentier della morte ». Cotesto scoraggiamento però fu soltanto momentaneo, perchè la morte improvvisa di Alessandro, al principio della state del 323 avanti Cristo, nel fiore degli anni, e in mezzo alle più strepitose vittorie, fu il segno di una generale insurrezione. Atene, fedele all'antica sua politica, si mise alla testa di questa nuova lega, e Demostene, dimenticando l'ingratitudine de' suoi concittadini, si associò agli ambasciatori ateniesi, percorse con questi le città del Peloponneso e le persuase a prendere le armi. Gli Ateniesi, commossi da cotanta devozione alla patria, lo richiamarono aderendo alla domanda di Demone di Peania, suo nipote. Stac-cossi subito una trireme per Egina, e affinchè nulla mancasse alla solennità di questa legittima riparazione, tutti i magistrati e tutti i sacerdoti, seguiti da stuolo immenso di popolo, gli si fecero incontro ed accompagnaronlo fino alla sua abitazione. In quell'istante, dice Demetrio di Magnesia, Demostene, alzate le mani al cielo, esultò in cuor suo per una giornata così gloriosa, che riconducevalo in patria più orrevolmente di Alcibiade, perchè andava debitore di cotesta accoglienza alla libera volontà de' suoi concittadini, e non alla violenza. Ei rimaneva nondimeno sotto il peso di una multa, che non gli poteva venir rimessa dal popolo; fu mestieri quindi eludere la legge, incaricandolo dell'annuo sacrifizio a Giove Salvatore, ed assegnandogli per siffatta incombenza i 50 talenti che avrebbe dovuto sborsare per la condanna.
XVI. Ultima sconfitta, fuga e morte. — Gli avvenimenti intanto, dopo il ritorno di Demostene, s'incalzarono con tanto precipizio, ch'egli ebbe
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