Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
DESERZIONE 0 DISERZIONE — DESÈZE (CONTE DI) RAIMONDO
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di terreno infruttifero, mentre la voce tnidbur, che generalmente si traduce deserto, e tale s'incontra nella Vulgata, indica propriamente un tratto erboso, non coltivato e privo di alberi, ma atto al pascolo, una brughiera o steppa. Ne abbiamo parecchi esempi nella Bibbia, siccome nel Salmo lxiv, 13: Pin-guescent speciosa deserti (s'impingueranno gli appariscenti tratti del deserto); Gioele, i, 19: Quia ignis come di t speciosa deserti (perchè il fuoco divorò i tratti appariscenti del deserto) ; san Luca, xv, 4: Nonne dimittet nonaginta novem (oves) in deserto? (non lascerà forse le 99 pecore nel deseito?), dai quali si scorge che la parola deserto viene appunto nel significato di pascolo, prato o terreno da pastura. Ciò di leggieri si spiega, se si ponga mente che perfino il deserto d'Arabia, adusto e bi ullo per la siccità eccessiva della state, copresi di abbondanti e tenere erbette nel verno e nella primavera. Gli è per questa ragione che le tribù arabe hanno da secoli l'abitudine di ritirarsi nei loro deserti all'appressarsi delle pioggie autunnali, ritornando alle sponde dei fiumi e sulle montague al finire della primavera e al cominciare della siccità, per cercarvi que' pascoli che i deserti non porgono più. Lo stesso vocabolo adunque può indicare tanto una regione affatto sterile e deserta, quant'anche un'altra la quale, in certe stagioni, somministra copiosa pastura. Nella Vulgata però il vocabolo deserto significa per lo più, non già una nuda ed infeconda solitudine, ma bensì un terreno comune non coltivato vicino alla città, che sei ve di pascolo al bestiame domestico.
Un graude deserto, un luogo solitario e senza la minima vegetazione viene indicato comunemente nella Bibbia colla voce ebraica jescimon, da ja-sciam, essere desolato,deserto, steiile (1 Reg., xxiii, 19, 24; Jes., xliii, 19, 20), la quale si applica principalmente a quel deserto dell'Arabia Petrea, in cui gl'Israeliti dimorarono sotto Mosè (Num., xxi, 20; xxiii, 28; lxvii, 8; lxxvii, 40, ecc.), perchè fu il più terribile dei deserti conosciuti dagl'Israeliti, ed il solo vero deserto nei paesi loro limitrofi, non contando l'orientale, che stendevasi dalla frontiera E. della Palestina al di là della Giudea fino all'Eufrate, e dicevasi il Deserto per antonomasia, senz'altro epiteto (Exodxxiii, 31 ; Deut., x«, 24). Ecco i nomi dei diversi deserti mentovati nella Scrittura: Edom, Etam, Giuda, Cades, Maon, Paran, Sciur, Sin e Sinai, tutti più o meno celebri nei fasti e nelle vicende del popolo israelitico.
DESERZIONE o DISERZIONE (stor. e giurispr. mil.). — Delitto del desertare, che consiste nell'abbando-nare la propria bandiera per recarsi nelle file del nemico o al soldo di un'altra Potenza, o per isfug-gire ai doveri della milizia, tornando alla propria casa. Presso i Romani, secondo che Appiano afferma, un legionario il quale senza permissione lasciasse le sue file e si allontanasse tanto da non poter udire il suono della tromba, era riputato disertore. Leggesi in Valerio Massimo ed in Frontino che le pene per tal delitto ne' romani eserciti erano severissime ; vendevansi i disertori come schiavi, o perivano sotto le verghe. La presa di Reggio di Calabria pose nelle mani del vincitore 300 desertori, i quali furono prima flagellati, poi decapitati. Sci-
pione faceva morire di scure i desertori delle truppe alleate, di cui chiedeva la restituzione ai Cartaginesi, e iacea porre in croce quelli ch'erano romani di nascita. Nel medio evo la deserzione era chiamata fellonia. Nel secolo xv i fanti francesi che deserta-vano erano condannati a morte; ma i nobili non subivano altra pena che la perdita del cavallo ed arnese e del soldo di un anno. Leggi in proposito in Francia non furono se non al tempo di Francesco 1, e prima si seguirono usanze locali o feudali. Dal 1534 al 1(584 la legislazione francese voleva che la deserzione al nemico fosse punita con la forca, e quella all'interno col moschettare i delinquenti, al che davasi il nome di archibugiata.
In niun paese la deserzione fu mai maggiore che nei corpi di fanteria francese nel secolo xviif. La cavalleria e l'artiglieria, all'incontro, contavano pochi disertori, e i bassi ufficiali non desertavano quasi mai.
La deserzione è oggidì tenuta per consumata dopo un lasso di tempo determinato per far luogo al pentimento; se ne fa menzione sul libro di matricola, s'inscrive sui fogli di chiamata ; il capo del corpo la denunzia formalmente; l'autorità competente ordina che si proceda ; un consiglio giudiziario applica la legge secondo i casi.
DESÈZE (conte di) Raimondo {biogr.). — Magistrato francese, nato a Bordeaux nel 1748, morto nel 1828. Trasferitosi a Parigi, entrò nel 1787 nel Consiglio della regina, e due cause importanti da lui vinte, quella del barone di Besenval e quella del fratello del re, gli procacciarono una grande riputazione. Malesherbes lo scelse a difensore di Luigi XVI non tanto per il suo ingegno, quanto pei suoi sentimenti monarchici. Fu Desèze che prese a favellare alla sbarra della Convenzione il 24 dicembre 1792. 11 suo d scorso è rimasto un monumento storico. La sanzione che ottenne dall'augusto accusato e da' suoi altri consiglieri, lo converti, per cosi dire, in un'opera comune della difesa. Questo discorso era scritto; Luigi XVI l'aveva letto e ritoccato, e quando il difensore ebbe finito di parlare, il re se
10 strinse al seno, e parlò amorevolmente di lui nel suo testamento. Più fortunato di Malesherbes e di Tronchet, Desèze traversò senza pericolo i primi tempi dell'uragano rivoluzionario, di cui aveva sfidato la furia; ma la generosità della quale metteva conto ai proconsoli far uso verso di lui doveva avere un termine, e la proscrizione stava anche per colpirlo, quando il 9 termidoro, che lo trovò chiuso alla Forza, gli ridonò la libertà. Egli rimase senza funzioni pubbliche fino all'epoca della Ristorazione. Però, se s'ha a prestar fede a certe rivelazioni, Desèze, dopo essere vissuto nella ritiratezza finché aveva potuto sperare dalle mene dell'Inghilterra
11 ristabilimento dei Borboni, avrebbe finito per chiedere un posto all'imperatore, il quale, risaputa la parte che aveva preso a queste mene, avrebbe lasciato senza risposta molte sue richieste; e l'illustre giureconsulto, senza rimetter punto della sua pazienza, avrebbe indirizzato a Napoleone, dopo il suo maritaggio con Maria Luigia, un'ultima lettera, che terminava con questa frase: « Sire, non aggiungerò più che una parola : ho difeso i giorni di Luigi XVI vostro parente ». Ne' suoi discorsi e neit^iOOQLe
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