Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
DIRITTO NATURALE
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Le obbiezioni dei filosofi eudemonisti contro il diritto naturale, quantunque tendenti al medesimo risultato, non devono venir confuse con quelle dei giureconsulti della scuola storica. Secondo gli eude-nionisti, partigiani della morale dell'interesse, non v'ha nell'uomo alcun motivo disinteressato che lo spinga all'esercizio della virtù; tutto consiste nel calcolo dell'interesse ben inteso. Posta nella morale questa massima, si riconosce facilmente quali conseguenze devono risultare nel diritto naturale. Il legislatore, giusta questa teoria, non dovrebbe consultare alcun principio di dovere e di coscienza ; ei non dovrebbe aver altro di mira che l'interesse della società per la quale egli forma le sue leggi.
L'esame generale di questa teoria appartiene piuttosto alla scienza della morale che a quella del diritto naturale. Noi indicheremo soltanto qui il principio morale, sul quale ci sembra posato il diritto di punire, prima base di tutto il diritto naturale. L'analisi psicologica ci svela la serio dei fatti che avvengono nella nostra coscienza quando noi facciamo, o vediamo fare altrui, un atto virtuoso o colpevole. Tre sono i fatti che succedonsi allora nella nostr'anima: lu un fatto d'intelligenza, ed è la percezione assoluta, per via della ragione, del carattere morale dell'atto ; noi lo dichiariamo colle qualità di virtuoso, o di vizioso, o indifferente. Senza dubbio che la coscienza morale non è infallibile ; i suoi ammaestramenti possono talora essere vaghi ed ambigui, ma v' ha un certo numero di principi! assoluti, sui quali ella ci fornisce dati altrettanto chiari quanto sicuri. 2® Un fatto estetico, ed è una percezione che ci viene nel tempo stesso dall'immaginazione e dall'intelligenza, che sveglia in noi il sentimento cosi della laidezza e deformità del vizio, come della bellezza della virtù. Si è talora identificato questo secondo fenomeno con quello del godimento o del patimento morale ; ma queste sono parole che esprimono inesattamente il carattere puramente estetico di questa seconda parte del fenomeno morale. 3° La percezione del merito o del demerito di un'azione. Noi sappiamo che un'azione virtuosa merita stima e ricompensa, e che una viziosa merita disprezzo e punizione. Quando siamo noi stessi gli autori dell'atto virtuoso o vizioso, il sentimento del merito o del demerito produce in noi l'appagamento morale, o il rimorso. Se si domandasse perchè alla virtù va congiunta l'idea di merito, e al vizio quella di demerito, si potrebbe soltanto rispondere, ciò che è è. L'intima connessione dei due fatti è talmente evidente, che non si è dato mai esempio, che, accordandosi la distinzione della virtù e del vizio, siasi poi negata quella del merito e del demerito. Egli è solo quando si confonde il bene e il male che si può giungere a negare la legittimità del rimorso del pari che quella delle pene stabilite dai leg'slatori.
Riguardo alle relazioni degli uomini tra loro, è cosa evidente che non può esservi diritto naturale per coloro che non ammettono la differenza primitiva del bene e del male, del merito e del demerito. Non vi ha per essi che un diritto positivo risultante da certe convenzioni conchiuse nell'interesse della società e di coloro che la compongono. La realtà del •diritto naturale è stata combattuta da molti filosofiNuova Encicl. Ital. Voi.
eudemonisti, tra i quali Hobbes vuol essere posto in prima schiera; la sua argomentazione è speciosa anzi che no, ed è stata riprodotta dalla maggior parte dei filosofi della stessa scuola.
Secondo Hobbes, il benessere è il fine dell'uomo. Ei riduce all'egoismo tutti i nostri sentimenti e tutti i nostri motivi di determinazione. Quinci risulta che l'uomo ha il diritto di fare e di appropriarsi con tutti i mezzi possibili tutto ciò che può contribuire al suo benessere. Nello stato di natura gli uomini non avendo altra mira che quella di procacciarsi con tutti i mezzi possibili il loro benessere, ne avviene che debbono trovarsi in opposizione tra loro ad ogni istante: donde il principio di Hobbes, che la guerra è lo stato di natura. Questa guerra continua non può durare a lungo tra gli uomini, e allo stato di natura sottentra prontamente lo stato di società. La società, secondo Hobbes, non ha altro fine tranne quello di stabilire una forza abbastanza efficace per distruggere ad ogni costo quello stato primitivo nel quale vi ha guerra di tutti contro tutti. Pertanto Hobbes si dichiara per la forma del governo dispotico. Più un governo è forte, e più aggiunge lo scopo per cui è insti-tuito lo stato di società; se il suo potere fosse limitato, ciò non potrebbe essere se non a vantaggio delle forze individuali e dello stato di guerra. I sudditi non hanno alcun diritto da invocare contro coloro che li governano; loro unico dovere è un'assoluta obbedienza.
Un siffatto sistema pare che si condanni da se stesso per le conseguenze a cui riesce, conseguenze contro le quali si rivolta evidentemente la coscienza dell'umanità. Senzachè egli non è difficile il dimostrare che Hobbes si contraddice da se stesso ammettendo pell'uomo un dovere unico, quello di obbedire alle leggi ed alle autorità. Se la superiorità dello stato di società sullo stato di natura è per se stessa evidente, si può domandare come sia possibile che lo stato di natura abbia esistito tra gli uomini. Se questa superiorità poi non è assolutamente evidente, come mai Hobbes può parlare dall'obbligazione che c'incombe in ogni caso di obbedire alle autorità costituite?
Se la felicità è l'unico fine dell'uomo, noi non siamo tenuti di obbedire al Governo se non in quanto i suoi ordini ci sembrano confoimi al nostro interesse personale, e Hobbes si contraddice manifestamente allorché ammette che la sommessione al potere è per l'uomo un'obbligazione assoluta e senza eccezione.
Il sistema di Hobbes ricomparve nuovamente ai dì nostri sotto altre forme per opera del celebre giureconsulto inglese Bentham. Questi è molto meno profondo che Hobbes; lo studio delle leggi fu l'occupazione di tutta la sua vita, e alla metafisica non attese quasi per nulla. Ei pone il principio dell'utilità, ma senza cercare di dimostrarlo, riguardandolo come un assioma evidente per se stesso. Quindi non è come metafisico che Bentham divenne celebre, ma per l'applicazione che fece del principio dell'utilità alla moiale ed alla giurisprudenza. Ei creò due scienze che furono da lui appellate aritmetica morale e aritmetica sociale. La prima determina le regole della condotta secondo il principio dell'invìi. 44
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