Nuova Enciclopedia Italiana - Volume di Gerolamo Boccardo
DIVINI UFFIZI! — DIVISA
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j 1663, ed ebbe a rivale Giuseppe Campani romano, Campani che Cassini fece le sue belle scoperte.
Vedi : Montucla, Hi st. des mathém. — Libri, Hist. des sciences mathém. en Italie.
DIVINI UFFIZII (iliturg.). — Con tale appellazione bì distinguono le sacre funzioni e l'uffiziatura del clero regolare e secolare nella Chiesa cattolica. Il Garampi (Memor. ecclesp. 48) dice che non era insolito appo gli antichi col nome di uffizii divini significare il sacrifizio della Messa; e che Innocenzo IV (Bull. Basili Vatic., 1.1, p. 127) la disse semplicemente ofpcium.
Nel fervore della Chiesa primitiva i fedeli assistevano numerosi e frequenti ai divini uffizii, non solamente di giorno, ma anche di notte, e prendevano parte nel cantare i salmi col clero. Ma a poco a poco il pio costume venne scemando; le funzioni ecclesiastiche furono (poche eccettuate) compiute di giorno, e meno alcuni cantici ed inni sacri, il popolo non prende più parte agli uffizii del clero.
Presso varii Ordini religiosi anche presentemente vige il costume di sorgere verso la mezzanotte per cantare il mattutino con le lodi, costumanza questa che in altri tempi fu comune a tutti gli ordini monastici.
Vedi nelle Memorie del Garampi la Disserta-sione x, sopra la celebrazione dei divini uffizii, e la sua decadenza nel XIII secolo e nei seguenti — Sarnelli, Lettera XXI11, DeWantica frequenza del popolo ai divini officii — San Gregorio Turo-nese, De miraculis beati Martini (1. i, c. 17).
DIVINITÀ (teol. e filos.). — È l'essenza divina considerata in astratto; quella che i Greci denominavano 0eTov, e i Latini numen, l'essere necessario, esistente da se medesimo, che governa il mondo creato da lui. Presso i pagani la divinità era attribuita collettivamente a tutti i falsi numi maggiori e minori, i quali ne godevano, secondo il loro grado, le prerogative. Presso i Giudei, i maomettani, i cristiani, la divinità non è che l'essere unico, dal quale tutte le creature derivano. Le varie scuole filosofiche professarono intorno ad essa differenti opinioni. Alcuni, come Teodoro l'ateo, negarono addirittura la sua esistenza; Ànassimene la riponeva nell'aria; Anassagora la riteneva una sostanza incorporea; Anassimandro riputava che i mondi seminati nello spazio fossero altrettante divinità; Pitagora insegnava esser dessa una specie di spirito sparso per tutto l'universo ; Zenofane la definiva un tutto infinito dotato d'intelligenza; Parmenide una specie di cerchio luminoso che abbraccia il cielo. Tutti spiegarono a loro modo l'essenza di questa causa infinita, della cui potenza e sapienza sì maravigliose appajono le prove nell'universo. Ma ciò a che non può arrivare l'umana ragione viene rivelato dalla fede, la quale sola può dirci che cosa sia la divinità. Dio esiste, egli è il creatore e il coordinatore dell'universo, è il principio di tutto, è l'essere necessario e indipendente ; queste sono verità che la ragione ben governata può giungere a stabilire ; ma quale sia il modo di essere di questa causa delle cause, non può conoscersi che per fede (V. Dio e Kellglone).
DIVINO AMORE (religiose del) (stor. eccl). — Monache agostiniane, instituite, nel 1705, dal cardinale Marcantonio Barbarigo in Montefiascone, di cui era vescovo. L'Istituto fu approvato dai pontefici, e Pio VII volle trapiantarlo in Roma a benefizio delle donzelle, che vi ricevono cristiana educazione, nell'antico palazzo Ravenna. Seguono la regola di sant'Agostino, modificata specialmente secondo le norme di san Francesco di Sales, cui venerano come protettore, e, come le Salesiane (V.), hanno veste di panni neri con croce di argentò pendente al seno. Hanno voti con clausura, e congiungono alla vita contemplativa le occupazioni e le opere della vita attiva, attendendo massimamente all'istruzione delle fanciulle.
Per maggiori notizie veggasi Costanzi, Osservatore di Roma (t. i, p. 125) — Monchini, Degli istituti di pubblica carità in Roma (voi. ir, p. 126, ediz. del 1842-43), ed anche Regole e costituzioni per le monache del Divino Amore (Roma 1818).
DIVINO DIRITTO (polit.). — Espressione usata dalla scuola assolutistica per indicare la fonte del potere monarchico, in opposizione alla scuola liberale, che non riconosce ai poteri sociali altra origine fuorché il consenso della nazione (V. Governo e Legittimità).
DIVISA (art. mil.). — Vestimento militare di foggia e di colore distinto per riconoscere i proprii soldati e gli alieni, e per distinguere una milizia dall'altra, detto altramente assisa. Malagevole sarebbe l'assegnare l'epoca precisa in cui le genti di guerra cominciarono ad usarla : se pure non vuoisi dare questo nome alle armature in ferro od in cuojo che indossarono i Greci ed i Romani. Il sajone di pelle fu per lungo tempo la divisa e l'armatura dei Franchi, i quali non si armarono alla romana prima del se^ colo v, e continuarono cosi sino al regno di Carlo-magno (anno 767-814). Sotto di lui ripigliarono l'antico loro sajone di cuojo, sovrapponendovi una specie di Giaco (V.), altro sajone di maglia di ferro. L'abito intiero del guerriero chiamossi allora squammata vestis, cioè a scaglia di ferro dal capo ai piedi, il cappuccio, la veste, i calzari. Nondimeno l'uniformità del vestiario delle genti di guerra non fu fissata con qualche regolarità se non al tempo delle crociate, cioè nel secolo xi. Fu al ritorno dalla Palestina che le milizie europee si mostrarono vestite di tuniche uniformi, dette saladine, dal nome del celebre sultano Saladino.
In Francia sotto Carlo VI (1380) si abbandonò il giaco saddetto per prendere l'armatura di ferro battuto, consistente in elmo, corazza, bracciali, cosciali e schinieri. Sotto Carlo VII (1422) apparve la Cotta d'armi (V.), che fu una vera divisa di guerra, poiché non solo per la forma distingueva la gente d'armi, ma col suo colore faceva distinguere una compagnia dall'altra. A questa cotta successe una specie di mantello che divenne ben presto casacca coll'aggiungervi le maniche, e si accettò per essere più leggera e più comoda (1450). La cotta d'armi d'allora in poi non servì che ne' tornei a'conservare memoria dell'antica cavalleria. L'uniformità di colore e di foggia fu trascurata intieramente durante il regno di Luigi XI (1461-83). Francesco I, non potendo fare la spesa di una divisa compiuta per le sue truppe, con editto del 1533 ordinò che una
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