[CAP. XII.] DANNI DELLA VITA SOLITARIA. 347
dare al carattere quella consistenza, che non può esser opera mai nè di libri nè di maestri, ma solo del contatto colla umanità in generale, e cogli istinti suoi varii.
Per valere qualche cosa, il carattere deve essere capace di esporsi senza vacillare al mondo, a' suoi fatti quotidiani, alle sue tentazioni ed alle sue prove; e di sopportare l'attrito della vita attiva. La virtù fra quattro mura conta ben poco. Una vita che si compiace nella solitudine, non sa godere che per sè. Lo stare in ritiro può indicar disprezzo degli uomini; ma per lo più non è eh' effetto d'indolenza, di codardìa, di amor proprio. Ad ogni essere umano tocca la sua parte di lavoro e di dovere; e ciò non può essere negletto senza danno del negligente medesimo, non meno che della comunità alla quale appartiene. Senza immergersi nella continua vita del mondo e prender parte a' suoi fatti, non si può acquistare scienza pratica, nè formarsi il senno. Quivi sopratutto ci si affacciano i doveri da adempiere ; in essa impariamo ad essere attivi, e ci educhiamo a quella pazienza, assiduità e tolleranza che danno forma e solidità al carattere. Là ci sorgono contro le difficoltà, le prove, le tentazioni, dalle quali, secondo sappiamo trattarle, tutta la nostra vita ritrae poi le sue tendenze; e là pure ci è forza assoggettarci alla grande scuola del dolore, nella quale s'impara assai più, che da ogni studio fatto in un ritiro sicuro, o nella vita del chiostro.
L' aver contatto cogli altri è necessario anche per conoscer sè stessi. Solo avvolgendoci liberamente nel mondo ci possiamo formare una giusta idea della propria capacità. Senza questa prova siamo troppo facilmente esposti a crederci da più che non valiamo, a gonfiarci d'orgoglio, a cadere in arroganza; e per lo meno non ci conosceremo mai bene, per quanto abbiamo avuto tempo, stando così soli, di studiarci a nostro bell'agio.
Swift disse : « E una verità incontrastabile, che chiunque seppe misurare il proprio ingegno, non ha