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Storia Letteraria d'Italia
Il Risorgimento
Giosia Invernizzi
Francesco Vallardi Milano, 1878, pagine 368

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo primo. — condizioni del pensiero italiano, ecc. 11
   despot.ismo fece in breve spaventevoli progressi. Non si consultava più il popolo; i membri del Consiglio dei novecento nobili erano scelti e convocati secondo l'arbitrio del principe; ogni statuto emanato avea di mira il consolidamento del potere e la distruzione degli avanzi della libertà. Un giorno Barnabò proibì con un editto che si pronunziassero i nomi di Guelfi e di Ghibellini, pena il taglio della lingua ; e proclamò se solo papa ed imperatore d'innanzi a'suoi sudditi.
   I nomi di costui e di Galeazzo sono fra quelli dei più feroci tiranni dell'umanità. Barnabò faceva mantenere a' suoi sudditi cinquemila cani distribuiti ad uno ad uno per le famiglie; chi troppo li impinguava o lasciava che dimagrassero, veniva punito di grosse multe; se poi morivano, i beni del custode diventavano preda del fisco. Un giorno quel feroce fece morire un frate chiudendolo in una gabbia di ferro con manubrio, e aggirandolo sopra fuoco lento. Di Galeazzo II chi non conosce la Quaresima., orrenda successione di supplizi, tramezzata da giorni di riposo, onde conservare una vita che doveva lentamente spegnersi fra i tormenti %
   Quando i Visconti ebbero fortemente consolidato la loro tirannide nell'interno, sì volsero alle conquiste, mirando al dominio di tutta Italia. E proseguirono in questo intento tra opposizioni e lotte continue, giovandosi dell'opera d'uomini insigni per abilità politica e talenti militari, approfittando della declinazione dell'autorità imperiale e di quella del Papato.
   Con Galeazzo II e Barnabò essi esercitano il primato sulla politica italiana; le crociate di Roma e le leghe delle città non valgono ad abbattere la loro potenza: questa toccò al colmo con Gian Galeazzo, il Conte di Virtù.
   Succeduto in Pavia al padre Galeazzo II (1378), e preso a tradimento e spento di veleno lo zio Barnabò (1385), egli raccolse nelle sue mani la Signoria viscontea. Signore di Milano, Como, Lodi, Crema, Brescia, Bergamo, Piacenza, Borgo S. Donnino, Parma, Novara, Vercelli, Alessandria e di altre città, continuò le tradizioni conquistatrici di sua famiglia, mirando apertamente al regno d'Italia. Nei diciasette anni del suo dominio empiè la penisola di guerre. Spogliò gli Scaligeri ed i Carraresi delle Signorie di Verona e di Padova; comperò Pisa, acquistò Assisi e Perugia; prese Bologna e minacciò Firenze; si estese insomma su tutta la Lombardia dal Ticino all'Adriatico, penetrando nella Toscana e nell' Umbria. Già aveva comperato il titolo di Duca dall' imperatore Venceslao, e non aspettava che la resa di Firenze per cingere la corona d'Italia, quando la morte troncò il corso delle sue ambizioni e delle sue conquiste (1402).
   Mentre il suo fine accorgimento politico ed il braccio dei più valenti generali dell' epoca lo avevano messo sul punto di raggiungere lo scopo costante di sua famiglia, insieme alle opere di un dispotismo che proscriveva fin la parola « popolo » e d'una crudele fantasia inventrice di tormenti degni della Quaresima del padre suo, sorgevano quelle d'una splendida coltura. Gian Galeazzo rinnovò l'università di Piacenza, unì una biblioteca a quella di Pavia fondata da suo padre, eternò il suo nome colla Certosa di Pavia e col Duomo di Milano. La sua Corte fu piena dei dotti e dei letterati più famosi del tempo: il celebre Baldo insegnava giurisprudenza a Pavia; Pietro Filargo (che fu poi Alessandro V) teologia, Emanuele Crisobora lettere greche e latine.
   Ma dopo Gian Galeazzo la potenza viscontea declinò rapidamente. Sotto Giovanni Maria e Filippo, tutte le città soggiogate e tutti i principi spodestati si ribellarono. Alberico da Barbiano, Malatesta, Facino Cane, generali del morto duca, ritorsero le arni' contro l'edificio da essi innalzato, finché lo Sforza, un condottiero fortunato, cinse la corona ducale dei Visconti.
   Mentre le città di Lombardia si trasformavano da repubbliche in Signorie, l'aristocrazia veneta instaurava il suo governo oligarchico.
   In Venezia sino al cadere del secolo XII il popolo avea, per mezzo dei tribuni, partecipato all'elezione dei membri del Gran Consiglio; ma sul principio del secolo seguente s'iniziò un movimento aristocratico che tirò a sè ogni diritto escludendolo dal governo della Repubblica.