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LXX.
Gli Operai.
Noi cuor della notte Carlo udì un gran fracasso al disotto della sua finestra; erano colpi di martello e di ascia, strider di sega, schianti di tenaglia.
Comperasi gettato vestito sul letto e cominciava a prender sonno, quel rumore lo svegliò di soprassalto e perchè quel fracasso materiale trovava un'eco morale e terribile nella sua anima, gli spaventevoli pensieri della veglia lo assalirono nuovamente.
Solo di fronte alle tenebre ed all'isolamento, egli non ebbe la forza di sostenere questa nuova tortura, che non era nel programma del suo supplizio, ed egli mandò Parry a dire alla sentinella di pregare gli operai di picchiare men forte ed aver compassione dell'ultimo sonno del loro re. La sentinella non volle abbandonare il suo posto, ma lasciò passare Parry. Giunto presso alla finestra, dopo aver fatto il giro del palazzo, Parry scorse a livello del pie del balcone, da cui erasi spiombata la grata, un largo palco incompiuto, ma sul quale si cominciava ad inchiodare una tenda di rascia nera. Il patibolo innalzato all'altezza della finestra, cioè un venti piedi circa, avea due piani inferiori. Parry per quanto gli tornasse odiosa quella vista, cercò tra gli otto o dieci operai che costruivano l'orribile macchina, quelli il cui rumore riesciva più intollerabile al re, e sul secondo piano scorse due uomini che schiodavan con una tenaglia le ultime spranghe del balcone di ferro; un d'essi, vero colosso, facea l'ufficio dell'antico ariete, incaricato d'atterrar le muraglie. Ad ogni colpo del suo strumento, la pietra volava in ischeggie. L'altro che stava ginocchioni, traeva a sè le pietre smosse. Era evidente che erano coloro che facevano lo strepito di cui si lamentava il re. Parry montò la scala e salì verso di loro.
— Amici miei, — diss'egli, — lavorate un po' meno forte, ve ne prego ; il re dorme, e ha bisogno di sonno.
L'uomo che batteva colla tenaglia si fermò un momento e si volse a mezzo; ma, com'era in piedi, Parry non potè