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Francesco De Pinedo
apparsa insuperabile. Anche con la fortuna contraria, avrei dovuto giungere alla mèta.
Era una sfida gettata allo spazio: avevo innanzi a me circa 55.000 chilometri da percorrere, ed i mezzi erano tutti lì: imo scafo di legno, pochi metri quadrati di tela, un motore pulsante, un'elica invisibile nella sua vorticosa rotazione, e sopra tutto la volontà di riuscire.
Intanto facevo cammino. Il vento, voltosi al Sud, venne però a rallentare la mia marcia. Finalmente, poco prima di Corfù il tempo migliorò; ma il vento sempre da Sud era aumentato, quindi decisi di accorciare la rotta, tagliando su Agrigento e puntando così sul Golfo di Corinto, poco dopo Patrasso.
Qui il tempo divenne ottimo e chiaro. Si vedevano nette le mitiche e storiche montagne del Parnaso.
Questa rotta mi era ben nota, avendola già nei passati anni percorsa in volo, ma con ohiettivi infinitamente più prossimi di quello che mi ero proposto questa volta.
Verso mezzogiorno passai sullo stretto di Corinto, che godè presso gli aviatori cattiva fama per le forti sacche d'aria che vi si incontrano. Le conoscevo bene, ed ero rassegnato a sopportarle; ma esse furono con me questa volta eccezionalmente gentili.
Sul mare Egeo regnava una calma profonda. Dalle acque placide emergevano i nitidi profili azzurro-violacei delle isole capricciosamente disseminate.
Di mano in mano che mi avvicinavo ad esse e le superavo in volo, i contorni della costa prendevano rilievo e colore; rupi a picco sul mare, cale e calanchette addentrantisi nella terra offrivano, con le immobili acque verde-cupo, sereno riposo alle flottiglie di barche da pesca use alle tempeste: casette bianche di pescatori, annidate nel fondo delle baie, sorridevano ai raggi del sole meridiano.
Ecco l'isola di Salamina, e dietro di essa il Pireo, ed ecco biancheggiano di lontano, attraverso il grigio lattiginoso sipario dell» foschìa, le case di Atene. Scavalco la punta sud dell'Attica e volo su Selene, Keo, Siro e Micono. Lascio Nasso a destra e Nicaria