, e che il riferimento non era indirizzato verso le "idee del tempo", bensì semplicemente verso i nemici della religione.
Isidoro Strina viene chiamato in causa anche da Giandomenico Centi, ex Sostituto Cancelliere del Comune di Paganica, nel quale Strina fungeva da Decurione Segretario. Isidoro viene definito dal Centi "riscaldatissimo dei così detti ultra liberali" e lo accusa di aver cercato di indurlo, in occasione della elezione dei deputati, a inserire nella liste contenenti i nomi che dovevano essere prescelti dagli elettori, uomini della sua fede politica. Il Centi espone che "una tale prattica ripugnava al sentimento di mia coscienza, e mi dispiaceva essere l'organo dell'intrigo che avrebbe portato alla Camera soggetti immeritevoli, quindi mi denegai a scrivere l'enunciate liste, e lo Strina tanto fece, tanto disse per vendicarsi del mio rifiuto, fino a che mi fece togliere l'uffizio da me esercitato per lo spazio di circa tredici anni. Si prestò al conseguimento della volontà dello Strina il Cancelliere funzionante D. Antonio Mastracci, individuo questo dello stesso calibro politico, come il D. Isidoro". Tuttavia di questo episodio, esposto dal Centi nella fase di istruttoria, non c'è traccia nel processo.
Un episodio nel quale viene invece coinvolto personalmente Ascanio Vicentini insieme a Giovanni Antonelli, Sostituto Cancelliere del Giudicato Regio di Paganica (egli sarà, tra i carbonari processati, quello colpito dalla condanna più dura, con nove anni di relegazione), è quello nel quale i due vengono accusati di aver rivolto il loro odio di parte verso un mezzo busto in gesso raffigurante il Re, collocato in uno stipo della Cancelleria del Giudicato Regio di Paganica. Secondo alcune testimonianze i due usavano dileggiare il Re imbrattandosi le dita d'inchiostro e tingendo il volto del suddetto busto, verso il quale indirizzavano sputi e proferivano l'insulto di "Fottuto Croato". Infine i due avrebbero volontariamente prodotto la rottura del mezzo busto facendolo precipitare a terra. In ordine a questo episodio la testimonianza resa in istruttoria contro i due da Carmine Di Genova, fu ritrattata nel dibattimento processuale, essendo stata l'accusa estorta in seguito alle minacce ricevute dal Di Genova. Di conseguenza, nonostante due perizie svolte sul mezzo busto di gesso, non si procedette nei confronti di Antonelli e Vicentini. I ripetuti incontri tra i due in Cancelleria sono legati al fatto che Ascanio Vicentini è stato nominato nel 1847 Eletto Aggiunto allo Stato Civile del Comune di Paganica, quindi si reca spesso nel Giudicato Regio per la difesa di liti. Vicentini risulta peraltro ben integrato nella comunità paganichese, ed è pure nominato nel 1842 venditore dei generi di privativa.
Ben altro peso sulla sorte processuale di Vicentini e Strina ebbe un episodio verificatosi nell'aprile 1848 nella caserma della Gendarmeria Reale di Paganica. I due cognati, insieme ad altri cinque carbonari disarmarono tre gendarmi - che col caporale compongono la Brigata della disciolta Gendarmeria Reale - e si impossessano di tre carabine, tre baionette e 68 cartucce (nel marzo 1848 la Gendarmeria Reale era stata disciolta per ricomporsi in un nuovo corpo denominato Guardia Nazionale). Una moltitudine di persone, richiamata dal fatto notevole che si stava svolgendo, circondarono la caserma. Gli accusati sostennero a propria discolpa che le armi furono consegnate volontariamente, e addirittura in tale occasione fu redatta una ricevuta in duplice copia, nella quale si affermava che la consegna volontaria avveniva con lo scopo di rifornire la dotazione della Guardia Nazionale, analogamente a quanto era già avvenuto a L'Aquila. Tale ricevuta fu però sottoscritta solo dalle Guardie Nazionali che operarono il disarmamento, ma non dal Sergente della Caserma. Gli stessi disarmatori al termine del'operazione condussero i gendarmi nel forno di Visca, dove li complimentarono per la consegna delle armi.
Il 30 aprile 1851, dopo 45 giorni di processo, i cognati Isidoro Strina e Ascanio Vicentini all'unanimità vengono condannati dalla Gran Corte Speciale de L'Aquila, a sette anni di relegazione e alla malleveria di 300 ducati ciascuno, colpevoli di aver "commesso attacco contro la forza pubblica con vie di fatto", colpevoli di "discorsi e fatti pubblici tendenti a spargere il malcontento contro il Governo". E' rimarchevole sottolineare come la Gran Corte Speciale non ritenne l'accusa di associazione settaria sufficientemente provata, perché gli accusatori si limitarono a "deporre fatti vaghi, pubbliche voci, giudizi e congetture che traeano dal contegno e dal procedere de' denunzianti; parlavano in somma di associazione illecita avente in mira politici rivolgimenti, ma non precisavano né il nome della setta, né la sua organizzazione sotto capi determinati, né le congreghe notturne de' componenti di essa, ne tante altre minute particolarità".
La famiglia di Isidoro Strina, sposato ad Angelamaria Bizzoni, e padre di sei figli, viene duramente colpita dalla condanna subita dal capofamiglia, il quale viene trasferito per la relegazione nell'isolotto di Santo Stefano, situato di fronte all'isola di Ventotene. Anche l'attività degli Strina nella cartiera e nella fonderia di rame, risultò gravemente compromessa, perché divenne impossibile continuare qualsiasi lavoro, dato che gli stessi militari borbonici, che avevano occupato militarmente Tempera, si stabilirono nella casa degli Strina, i quali si dovettero ritirare a L'Aquila. Dopo la prematura morte del padre di Isidoro, Domenico Strina, grazie alla intercessione della regina alla quale si era rivolta la moglie di Isidoro, Angelamaria, questi fa ritorno a casa dopo aver scontato tre anni di pena, anche se il rientro avviene nella rigorosa sorveglianza di polizia e con l'interdizione dell'esercizio professionale, che sarebbe durata sino al conseguimento dell'unità nazionale.
Nelle memorie di famiglia Umberto Adamoli, la cui nonna paterna Doralice è sorella di Isidoro Strina, descrive sommariamente ma esattamente le vicende nelle quali sono coinvolti i parenti, eventi ai quali manca tuttavia l'esatta collocazione temporale. Egli inoltre comprende il nonno Giuseppe, del quale i parenti lombardi del tempo ricordavano l'acceso patriottismo, nel "Comitato della morte", parlando della triade dei cognati componenti il comitato insurrezionale di Paganica. Di lui tuttavia non c'è alcuna traccia nelle carte processuali. E' ragionevole ritenere che non tutti i carbonari siano rimasti coinvolti nel processo, soprattutto quelli che hanno saputo usare una maggiore prudenza, forse come Giuseppe Adamoli, che nel 1846 ha abbandonato Tempera, magari proprio per sottrarsi alla crescente pressione della polizia borbonica, ma ben prima della costituzione del "Comitato della Morte" e dei "Fatti di Paganica" del 1848.
[Prima Parte]
NOTE
(3) Il Comune di Paganica oggi non esiste più, in quanto accorpato al territorio di L'Aquila. L'aggregazione fu decisa nel 1927. ß
(4) Si veda sul sito www.paganica.it il "discorso intorno alla carta" di D. Ignazio Niccolò Vicentini, fatto alla Società
Economica di Aquila, di cui era membro, nel 1833. ß
(5) Nel Regno di Napoli il Decurione era un componente dell'amministrazione comunale. ß
(6) Dopo l'uccisione del ministro Pellegrino Rossi ed i tumulti scoppiati a Roma, il papa Pio IX si era rifugiato a Gaeta. Rientrerà a Roma l'anno dopo. ß