Indice
Prefazione
Capitolo Primo
Capitolo Secondo
Capitolo Terzo
Capitolo Quarto
Capitolo Quinto
Capitolo Sesto
Capitolo Settimo
Capitolo Ottavo
Capitolo Nono
Capitolo Decimo
Capitolo Undicesimo
Capitolo Dodicesimo
Capitolo Tredicesimo
Capitolo Quattordicesimo
Le notizie storiche sono state desunte:
1) da scritti esistenti presso la "Biblioteca Delfico"
in Teramo;
2) dalla "Storia civile del Pretuzio" di Pancrazio
Palma;
3) dalla "Storia d'Abruzzo" di Luigi Antinori;
4) dalla "Storia Moderna" di Antonio Messeri;
5) da scritti in giornali e riviste.
PREFAZIONE
I popoli traggono, generalmente, lo spirito, come legge atavica,
dalla natura, in cui nascono e vivono. Differenti, adunque, gli
uni dagli altri, nei costumi, nell'indole, nell'educazione.
Lenti, per lo più, flemmatici, chiusi gli abitatori delle
contrade nordiche, fredde e nebbiose; aperti, briosi, loquaci,
espansivi quelli della meridionale terra del sole.
Non potevano, i benigni pretuziani, collocati nel mezzo, sfuggire
alla comune legge. Non potevano non trarre la loro anima, con le
luci e con le ombre, dai monti, che vedevano elevarsi, come il
granitico Gran Sasso, superbamente, nell'azzurro del cielo senza
confine; dall'ampiezza delle solitarie valli, come quella del
Vomano, dal tenue mormorio delle acque, scorrenti senza riposo;
dai boschi eterni, come quello del misterioso Martese, scossi
dagli urli delle aquile, dagli ululati dei lupi, dalla furia
degli uragani; dal mare, come quello azzurro dell'Adriatico,
dalle improvvise tempeste e dal perpetuo ondeggiamento.
Varia, quindi, come i monti, le valli, i boschi, il mare, la loro
natura; vario il loro temperamento. Talvolta potevano essere
miti, come anacoreti; tal'altra impetuosi, come selvaggi.
Ed insorgevano, al tempo della schiavitù, contro le violenze, i
soprusi della dominazione straniera. Amavano la libertà, in
ossequio della quale molti non esitavano ad abbandonare la casa,
gli agi, la famiglia, per vivere liberi, sulla libera montagna. E
prendevano nome di banditi e ne commettevano gli atti. Ma si
elevavano anche, con forti schiere e con forti gesta, alla luce
dell'Epopea, alla gloria della ricordanza.
E saranno gli "EROI DI CITELUT", con storica verità,
ornata dai fiori della fantasia, ricordati in questo libro.
CAPITOLO PRIMO: Viaggio del Vicario Aniello Porzio da Napoli a
Teramo. Riunione a Teramo dei maggiorenti della città presso il
Vicario. Giancarlo de Adamnis
Con la morte di Filippo IV di Spagna, avvenuta il 18 settembre
del 1665, il trono passava al figlio Carlo II, appena di quattro
anni, sotto la tutela della madre Maria Anna d'Austria. Dalla sua
inesperienza, nelle gravi quistioni di Stato, e dalla
inettitudine delle persone chiamate a coadiuvarla, non potevano
non nascerne, anche a danno del vicereame di Napoli, condizioni
confuse, pericolose. Ne approfittavano, per riprendere vita, gli
scontenti, che mai mancano, gli ambiziosi, i ribelli, costituiti
questi ultimi in bande da qualche tempo inoperose.
Poiché il risveglio di costoro, con saccheggi e fatti di sangue,
specialmente negli Abruzzi, molto preoccupava, il vicerè,
marchese del Carpio, vi mandò, per la repressione, e con pieni
poteri, in qualità di vicario generale, Aniello Porzio.
Quando partì, con due segretari, in diligenza, il sole mandava
sulla metropoli, come per accrescerne la morbida bellezza, i suoi
tiepidi raggi invernali.
A mano a mano che s'allontanava dal sereno cielo del golfo,
tornava in quei viaggiatori viva la stizza per l'incarico ad essi
affidato, senza essere stato chiesto.
A Cajanello, ove pernottarono, trovarono già altro clima, altro
colore di cielo e notizie che non confortavano. Neve alta copriva
i monti d'Abruzzo, le valli e le strade, e nevicava senza tregua.
Molto difficile si presentava, come dicevano i viandanti giunti
da quelle parti, il passaggio per l'Altipiano delle Cinque
Miglia. Vi erano pericoli di valanghe, di lupi, di briganti.
Prima di avventurarvisi conveniva mettersi in pace con l'anima e
con le cose terrene. Qualche tempo avanti, una carovana di
zingari, era stata soffocata in una stretta, poco dopo Castel di
Sangro, da una terribile bufera di neve. Un branco di lupi
affamati, discesi dalla Maiella, avevano assalito, nei pressi di
Roccaraso, altra diligenza. I briganti vigilavano, torvi, dietro
le siepi, lungo la vallata del Pescara.
Quando si trovarono soli, in un modesto albergo, senza
riscaldamento, uno dei segretari disse all'altro:
"Se San Gennaro mi aiuterà, quando che sia, a tornare a
Napoli, mi ritirerò ad oscura vita. Troppo duro è dure il pane
della schiavitù. E poi perché scegliere me, quando a tanti
altri, ambiziosi e venali, sarebbe stato di particolare
gradimento un tale incarico? Anche a tormentare il prossimo è
par molti gioia".
E così via. Anche le considerazioni dell'altro segretario, che
pure lui malediva la squallida terra dei briganti, non erano
molto diverse.
Il vicario, per la sua dignità, nulla diceva, ma non poteva
anche lui non maledire, in cuor suo, il vicerè che, nel
chiamarlo, gli aveva detto:
"Affido a voi un incarico non facile, ma onorifico e ricco
di promesse. Abbiamo nel vicereame una provincia, Teramo, quasi
ribelle, infestata da banditi. Voi, senza dubbio, ve ne riconosco
le qualità, restituirete a quella provincia ordine, tranquillità,
disciplina. E ne avrete il premio. Fra tre giorni dovete partire
e giungerete, vedrete, vincerete".
Con questa e con altre sibilline parole era stato licenziato.
Ed ora che si trovava là, sul confine del misterioso territorio,
dinanzi ad eventi senza luce. Partire, giungere, vincere!
Magnifica rievocazione storica. Ciò poteva essere concesso a
Cesare, sublime genio latino, non a lui, povero comune mortale,
che non desiderava che di vivere, in una placida vita, nello
splendore di quella natura, nella quale aveva avuto la fortuna di
nascere.
Anche se fosse stato assistito dalla fortuna del viaggio, a
Teramo, città maledetta, lo aspettavano i banditi. Vi erano a
proteggerlo, come aveva inteso a Napoli, le valorose truppe
spagnuole. Valorose! Poteva, poi, egli italiano, ordinare o
consentire ai massacri d'italiani? In qualunque modo la quistione
si esaminasse, appariva sempre nera. Tornare indietro, con un
pretesto qualsiasi, significava farsi fucilare; andare avanti,
farsi impiccare.
Il giorno dopo, come sospinti dalla fatalità, i tre ripresero il
viaggio. I segretari, prima di muoversi, avevano cercato, nella
chiesa del luogo, di fronte all'eternità, di mettersi a posto
con l'anima.
Sino a Castel di Sangro le cose non erano andate tanto male. Il
diavolo non si era presentato così brutto, come era stato
dipinto. Il diavolo, però, riprendeva la sua classica figura in
una gola, nelle vicinanze del piano delle Cinque Miglia.
La neve, in un cielo plumbeo, intensificava la caduta; la bufera,
che urlava sinistramente, la violenza. La nostra brigata, avvolta
da furiose raffiche, pareva che stesse per essere trascinata, con
tutta la diligenza, in fondo ai burroni. Ognuno, in quel
finimondo, invocava l'aiuto divino.
Calava già la notte quando la brigata giunse, tra la vita e la
morte, a Roccaraso, gruppo di nere case, sepolte quasi dalla
neve. Non vi era per alloggio che una stanzaccia, in uno di quei
miseri abituri, con mobili sgangherati e letti dai duri
pagliericci.
All'urlo della bufera pareva s'unisse fuori l'urlo dei lupi e di
spiriti folli, scatenati dall'inferno.
I tre, rannicchiati accanto a un grande fuoco, unico conforto in
tanta desolazione, pensavano come mai, nella vastità del mondo,
quella gente si fosse ridotta a vivere, come lupi, in tanto
squallore.
Ripresero il cammino, come Dio volle, e dopo altre peripezie
giunsero, finalmente, nella capitale dei pretuziani.
Capitale! I segretari, del miglior sangue partenopeo, nel
vederla, si domandarono se valeva proprio la pena d'inviare a
vivere tre galantuomini in un simile paesaccio. Non tutte le città
potevano possedere, come Napoli, il vasto golfo, le colline
ridenti, l'aria azzurra, era vero; ma sdegnava sentir chiamare
città uno squallido borgo, essendo misere le strade, anguste le
piazze, scalcinate le case, nere l'aria, squallida e malsicura la
vita. E per maggiore afflizione nulla capivano del linguaggio,
degli usi, del carattere di quella gente, pronta a risolvere
tutte le quistioni con i coltelli alla mano.
Il Vicario non la pensava diversamente, ma, per necessità,
doveva osservare e tacere.
Dopo qualche giorno egli giudicava opportuno, come inizio della
sua missione, di riunire, con le autorità, i migliori cittadini.
Dopo il saluto d'uso e le cortesi espressioni, continuava:
"I fatti che, dopo la scomparsa del grande re Filippo, si
ripetono ovunque, hanno indotto il Vicerè a mandare anche in
questa provincia, nella mia persona, il suo Vicario. Noi siamo
prigionieri dei banditi, che sono risorti, dopo il breve
silenzio, più violenti di prima. Minacciano ovunque le nostre
istituzioni, le nostre famiglie, il nostro onore, la stessa
nostra vita. Non hanno più scrupoli, né limiti nelle loro
azioni. A Napoli si viveva nella lusinga d'aver sanata, con
l'indulto e con l'oro, questa parte infetta del Vicereame. Vana
lusinga. Il governo è rimasto assai impressionato dagli ultimi
avvenimenti.
Tempo fa, e voi lo sapete, il Vicerè mandò, per una più
energica repressione, molta truppa, che fu ovunque sgominata. E'
proprio di questi giorni la beffa di Pianella. Mentre da per
tutto s'ergevano baluardi, per chiudere alla montagna le vie
della pianura, ben cento banditi, in giorno di fiera, si
presentarono a saccheggiare quel paese.
Non parlo dell'altro terribile episodio, di cui voi siete stati
testimoni. Poteva Savino Savini, nei loro confronti, avere dei
torti, ma ciò non li doveva indurre, se avevano ancora un
palpito di umanità, a compiere il nefasto atto da essi compiuto.
Voi piangeste, mi è stato detto, sulle macerie della casa
frantumata da una potente mina sul corpo sanguinante della
giovane sposa e sulle due bambine, schiacciate anch'esse dalle
pesanti macerie..."
Dopo una breve pausa, come per raccogliersi accorato, su quella
dolorosa visione di sangue:
"Io non sono venuto qui per seminare nuova zizzania, per
accendere nuovo odio. Vorrei, e lo dico con tutta sincerità, che
i fuoriusciti rientrassero, per il comune bene, nell'ordine delle
leggi. Si faranno, anche se inutili, nuovi tentativi, per la
pacificazione. Non dobbiamo però cancellare dal nostro ricordo
il sangue innocente che bagna ancora le macerie della casa di
Savino Savini. Non dobbiamo chiudere le orecchie e il cuore alle
voci e ai lamenti che giungono a noi da quelle macerie.
Il saccheggio poi di tutti i prodotti non incoraggia più ai
lavori della terra. Danno a danno, quindi, miseria a miseria. E
vivo è il timore che possa tornare a infierire la peste, che
tante vittime fece in ogni parte d'Italia.
Duole, inoltre, sapere che molti cittadini, non esclusi
religiosi, aiutano i banditi nelle loro gesta criminose.
Ecco il quadro nella cruda realtà. E' necessario, di conseguenza
rinnovare e rinnovarsi. Con i mezzi e i poteri a me conferiti e
con il vostro aiuto, spero di sradicare da questa vostra terra
l'erbaccia che la infesta e di far rifiorire in tutta la
contrada, bella nei suoi monti, nel suo mare, nelle sue campagne,
ricca di nobili tradizioni, il fecondo lavoro.
Non è vero, miei amici?"
"E' vero!" Rispondeva un tal Giancarlo de Adamnis.
"La vostra parola, Vicario, viva e appassionata, ha
risollevato il nostro spirito depresso. Mi sia consentito di
rispondere con la stessa franchezza, con la quale voi avete
parlato.
Molti torti, forse, noi abbiamo, ma anche altri hanno molti
torti, e molti errori sono stati commessi. Se altro fosse stato
il consiglio dei reggitori, noi oggi saremmo molto vicini alla
pacificazione. Molti banditi, con il promesso indulto, erano
tornati, offrendo, per estirpare il veri malviventi, la loro
collaborazione. E facevano sul serio, poiché consegnavano, con
molte altre, la testa del tanto temuto Carnessale. In
contraccambio si tramava ai loro danni, tanto da dover
riguadagnare, per salvarsi, la montagna.
Si proibiva a tutti di portare le armi. Stolta disposizione, che
favoriva soltanto i banditi, non potendo più i pacifici
cittadini difendersi dalle loro aggressioni. Stolto anche l'altro
espediente di creare dinanzi ad essi il deserto. L'abbandono
delle terre, la demolizione delle case, poteva accrescere la
miseria, non indurre quelli della montagna alla resa.
I contadini, rimasti senza lavoro e senza dimora, premono oggi,
con i loro bisogni, sulla città, e il Vescovo è fuori della
grazia di Dio, per le dieci case rurali demolite nella sua
baronia di Rocca Santa Maria.
Nessun aiuto giunge da parte della pubblica forza. Le truppe
arrivano, non per operare, ma per creare, con la loro voracità,
nuovo disagio, nuova miseria.
Poi balzelli su balzelli. La Spagna ci fa gravemente sentire il
peso del suo dominio. A voi, che ne siete al servizio, ma che
siete italiano, possiamo non nascondere il nostro pensiero. Non
è forse la Spagna, con il suo malgoverno, la causa non ultima
del banditismo? Ad essa, a ogni modo, ai suoi sistemi, alle sue
cattive leggi, alla sua rapacità si deve l'origine della nostra
decadenza. Con l'agricoltura, con il commercio, si vanno pure
spegnendo, senza rimedio, i lanifici, le fabbriche di panno, che
costituivano nel passato il nostro vanto, la nostra ricchezza.
E noi ancora una volta prendiamo i coltelli per ucciderci
fraternamente!
Non è vero forse?"
"Può essere vero", replicò il Vicario. "Voi, a
ogni modo, con la vostra franchezza, avete completato il non
lieto quadro. Ma oggi io domando, nella concordia, la vostra
collaborazione. Dalla conclusione, più o meno felice, del nostro
lavoro potrebbe iniziarsi il cammino verso un'era migliore.
E' storica fatalità che gli Stati, come le razze, debbano
alternasi nel tempo al comando delle vicende umane. Ieri fu Roma
a dirigere le cose del mondo; oggi è la Spagna e bisognerà,
sino a un nuovo ciclo, ubbidirle".
Sciolta la riunione, i soliti pipistrelli s'avvicinarono al
Vicario, per gli inchini e l'elogio al suo discorso; altri, dal
fervido spirito italiano, al de Adamnis, per la giusta lode alla
sua parola franca, ferma, coraggiosa.
CAPITOLO SECONDO: Santuccio di Froscia, capo bandito, racconta.
Capi banditi negli amori. Sogni e speranze.
"Storia di generosità e di delitti, di fedeltà e di
tradimenti, di epici atti e di terribili tragedie è quella del
mio bisnonno Marco Sciarra" raccontava Sante Lucidi, detto
anche Santuccio di Froscia, ai compagni della montagna.
"Questo mio avo" continuava "potrebbe paragonarsi,
nella movimentata vita, a uno dei tanti capitani di ventura, che
giravano e girano ancora l'Italia e l'Europa.
Di svegliata intelligenza, di robusta costituzione, coraggioso
sino alla temerarietà, raccolse un giorno gli sparsi banditi e
se ne mise a capo, dando vita alla famosa banda che prese da lui
nome e forza.
Era giovane allora questo mio bisnonno e portava bene impresse,
nel suo spirito, della sua Rocca Santa Maria, la dolcezza delle
colombe, la ferocia dei lupi.
Altre bande vi erano, tra le quali quella di Ursini Sabatucci,
che contava molti teramani, e quella del barone Giulio Rosales.
Ma la banda del bisnonno, per le gesta compiute, era la più
forte, la più temuta.
Operò non soltanto in Abruzzo, ma anche nelle Marche, nelle
Puglie, nel Lazio, gettando in Roma, quando giunse alle sue
porte, il più vivo sgomento. Uscirono, per respingerlo, con un
vero esercito, i più famosi capitani, sconfitti nel primo
incontro.
Dopo qualche altra scorreria egli tornò alle sue montagne, per
altri cimenti.
Poté talvolta, per necessità, eccedere nelle azioni e nelle
reazioni, ma rispettò e fece sempre rispettare la religione, i
deboli, le donne.
Il Viceré di Napoli, per disfarsene, gli mancò contro, al
comando del colonnello Spinelli, quattromila uomini. L mio
bisnonno, senza scomporsi, accettò battaglia e ancora una volta
vinse. E ancora una volta dimostrò di possedere elevatissimo il
senso cavalleresco. Aveva ordinato ai suoi di non sparare contro
il colonnello, riconoscibile al cavallo bianco che cavalcava.
La sua fama s'allargò tanto che Alfonso Piccolomini, duca di
Montemarciano, ribelle, con le bande di Romagna, al granduca di
Toscana, ne domandò l'alleanza.
Era davvero il re della montagna, come lo chiamavano, e Napoli e
Roma, per potersene liberare, unirono ancora una volta le loro
forze. Il bisnonno si preparò, sicuro e sereno, alla nuova
battaglia. Quando seppe che a quelle forze, che potevano essere
considerate legittime, s'univa il popolo corrotto dal danaro,
ebbe un momento di smarrimento. Per non macchiarsi di sangue così
volgare, non accettò la nuova sfida e rompendo il cerchio che lo
avvolgeva, con la sua banda andò a mettersi al servizio della
repubblica veneta.
Il leone di San Marco non fu deluso dall'opera svolta a suo
favore, tra le montagne della Croazia, dai lupi del Martese, le
zanne dei quali si incisero profondamente nelle carni dei feroci
uscocchi.
Venezia tributò a lui e ai suoi, al ritorno vittorioso, grandi
feste.
Quando, per oscure ragioni, era costretto a tornare, un suo
compagno e compare, di nome Battistello, per riscuotere la grossa
taglia, l'uccise nel sonno.
Ecco, in breve, la storia del prode e generoso Marco
Sciarra".
"Fine tragica" osservò uno degli ascoltatori, "ma
la sua memoria non finirà nel tempo. Non è vero, nonno
Colranieri?"
"E' vero. E anche vero che io sono vostro nonno, per
qualcuno di voi anche bisnonno. Sono sui cento anni, miei
cari".
"Che Iddio vi conceda di godere ancora a lungo la luce del
sole. Ci potreste svelare il segreto della vostra eterna
giovinezza?"
"Posso conservare la robustezza, non la giovinezza. Giovani
siete voi, con i vostri venti anni. Non gli agi, certo, mi
predisposero a resistere al disfacimento del tempo.
Perché divenni bandito voi vorreste pure sapere. Tante le
ragioni, come per voi. Come per voi concorse pure la tradizione
familiare. Banditi erano stati mio bisnonno, mio nonno, mio
padre; bandito e vostro buon compagno è oggi Titta, mio figlio.
Una vera dinastia.
Noi oggi operiamo come banditi, ma in difesa di una giusta causa.
Non disdegnammo, qualche anno fa, io, Giulio Pezzola e Durante
Montecchi, tuo padre, o Giulio, di schierarci con un certo
Mezucelli contro un movimento rivoluzionario, non giusto, non
giustificato. Possiamo noi sostenere il popolo, di cui facciamo
parte, nelle oneste rivendicazioni, ma non quando, per venalità,
si fa sgabello per favorire la salita di stolti demagoghi.
La disfatta dei rivoltosi, condotti dal duca Carafa di
Castelnuovo, s'iniziò proprio a Teramo. Giunto il duca sul
Pennino restò meravigliato nel vedere brulicare d'armati il
prato fuori porta reale e i bastioni della città. Si poteva
pensare, in vista di quel movimento, a un nuovo miracolo di san
Berardo".
"Quale miracolo" molti domandarono.
"Un grande miracolo, figli miei, raccontato a me, quando ero
ragazzo, dai bisnonni"
"Perché non lo raccontate pure a noi?"
"Perché no? Qualche favola, come le ultime fatiche dei
vecchi, vi dovevo pur raccontare in questa sera di neve e di
tormenta".
"Per poter meglio comprendere le ragioni di questo miracolo
è necessario, per un momento, risalire alla nostra storia.
Vi era in Italia, in quel periodo al quale il fatto si riferisce,
tra imperatori, re, conti, papi e antipapi, la più grande
confusione e si combattevano guerre sanguinose. Vi era tra i
tanti il normanno re Ruggiero, che voleva a ogni costo rientrare
in possesso delle terre che l'imperatore Rotario di Germania
qualche tempo prima gli aveva tolto.
Inviò per tali ragioni negli Abruzzi, con un forte esercito, il
nipote Roberto, conte di Loretello. Tutte le città, al suo
apparire, gli si sottomisero. A Teramo trovò invece le porte
sbarrate. Mandò di conseguenza entro la città un araldo a
imporre la resa, ma i teramani rimasero sordi alle minacce e alle
parole melate del conte e alle preghiere lagrimose del vescovo
Guidone, successore, appunto, di san Berardo.
L'assedio, stretto da ogni parte, con tutte le dolorose
conseguenze, durava da oltre tre mesi, senza deprimere gli
assediati. Il conte, dinanzi allo scorrere inutile del tempo,
ricorse a uno stratagemma, per aprirsi il varco. Nel mentre con
un finto attacco fece accorrere i difensori verso la parte
occidentale, con altre truppe si lanciò sui bastioni orientali.
Pagò l'audacia con mucchi di cadaveri, ma entrò.
Ciò che quelle iene in sembianza umana commisero sulla
disgraziata città non è descrivibile. La carneficina orrenda
cessò quando non si sentì più alito di vita. Il fuoco,
appiccato in ogni casa, completò la diabolica distruzione.
Allorché, dopo tre mesi, quei mostri s'allontanarono con le mani
e con le anime lorde di sangue, Teramo non era che un cumulo di
rovine. Non era rimasta in piede della bella città che una
cappella della Cattedrale, con il corpo di san Berardo,
collocatovi ventisette anni prima"
"Caso veramente orrendo" molti osservarono.
"Ma la città", continuò il Colranieri, "col
ritorno del Vescovo, che se ne era allontanato, bene o male, era
riedificata. Non tardarono a risorgervi, questa volta per opera
di malefica gente nostrana, le lotte feroci.
Lunga è la storia dei delitti compiuti, che vi racconterò
un'altra volta e veniamo al nostro miracolo.
Un secolo e mezzo fa, o poco più, nello stato di anarchia in cui
continuava a vivere l'Italia, la riedificata Teramo era venduta,
come una merce qualsiasi dall'imperatore Carlo V, al duca d'Atri.
Aveva bisogno di danaro l'imperatore! La notizia gettò i
pretuziani nella più viva costernazione. Le maggiori autorità e
personalità, per scongiurare questa nuova sventura, si misero
subito in movimento. Mandarono a Napoli, presso il Viceré, a
perorare la buona causa, Colantonio Rapini e Sir Cola
Bucciarelli. Si sarebbe dovuto far presente colà che mai i
teramani, a costo di farsi nuovamente massacrare, si sarebbero
sottoposti a quel duca, causa di molte loro sventure.
I messi tornarono, ma con le più sconfortanti notizie. Il
magistrato e i dodici consiglieri si riunirono per le loro
deliberazioni. Su proposta del fiero Francesco Trimonzi,
determinarono la difesa armata a oltranza.
Raccolsero a tale scopo viveri, armi, munizioni; costituirono
reparti per la difesa; chiusero le porte; temperarono gli
spiriti.
Il duca, sicuro che in via pacifica nulla avrebbe ottenuto,
decise d'occupare la città con la forza.
Non mi perdo, nel racconto, in altri particolari. Basta a voi
sapere che nella notte dal 17 al 18 novembre del 1521, cinquemila
uomini occupavano la sponda sinistra del Vezzola, pronti a
lanciarsi su l'alba, come le iene del conte di Loretello, su
l'agognata preda. Ma sulla sponda opposta altra gente vegliava a
difesa dei propri diritti e con essa vegliavano i suoi
protettori. Ma a una certa ora della notte quei masnadieri, ai
quali era stato promesso il saccheggio della città, se occupata,
videro camminare sui bastioni una splendente figura di donna; un
gigantesco uomo a cavallo, con un manto rosso, con la spada in
aria che galoppava luminoso dall'un punto all'altro della
muraglia.
Gli assalitori, invasi dallo spavento, gettati gli attrezzi per
la scalata e le armi, si dettero a precipitosa fuga, e Teramo fu
salva.
Da quel giorno il magistrato della città, in ogni nuovo anno, va
a portare, per la ricordanza, un cero al suo Santo.
Ma il Carafa, tornando alla nostra narrazione, non si impaurì,
non fuggì, assalì con i suoi armati la città e fu dal
Mezucelli sconfitto. Noi, assolto il nostro impegno, senza tener
più conto dell'indulto a noi concesso, riprendemmo la via
assegnata a noi dal destino.
Dopo questa chiacchierata possiamo andare a dormire, miei bravi
figliuoli, ché la notte è già alta. Le scolte veglieranno sul
nostro sonno".
Tutti andarono a dormire, tranne i giovani, che rimasero dinanzi
al fuoco, in conversazione.
"Alto è il silenzio che ci circonda, amici e compagni di
giovinezza e di ventura", diceva agli altri Giulio
Montecchi. "Silenzio degli uomini, non silenzio della
natura, che, in questa notte di neve, fa sentire alta, con la
bufera, la sua voce. Il Castellano laggiù, gonfio d'acqua,
anch'esso innalza al cielo il suo lamento.
Non è lieta la nostra vita e pietose sono le condizioni
d'Italia. Impunemente ne calpestano il bel suolo, milizie di quei
popoli che i nostri antenati, a giusta ragione, chiamavano
barbari. La percorrono in ogni senso, la saccheggiano, vi
commettono le più nefande azioni, senza che sorga la spada d'un
Mario a punirle.
Anche i nostri antenati, è vero, invasero, con le armi, le
altrui terre, ma dove essi giunsero, disciplinati e maestosi,
portarono, sia pure con la forza, il nuovo verbo di fratellanza e
di civiltà. Dal loro genio, dono di Dio, nella santità del
diritto, sbocciò il meraviglioso concetto dell'unione di tutti i
popoli. E ci erano quasi riusciti, poiché tutti i popoli, allora
conosciuti, guardarono e benedirono Roma come madre divina.
Dovremmo, pensando al glorioso passato, davvero piangere sulle
nostre sventure. Dovremmo piangere sulle cause che ci indussero,
non potendo vivere da romani, a vivere da banditi. Non è
invidiabile la nostra vita, ne dovete convenire amici. La dignità,
la tradizione, l'onore, tutte belle cose; in realtà coi
consumiamo la giovinezza nel modo più barbaro: nelle caverne in
gara con i lupi. Meglio se fossi rimasto a completare, in
seminario, la mia educazione, per poi andare a Sant'Omero a
godere i beni a me donati dal defunto capo Geronimo e coronare un
sogno..."
"Sogno? Bene! Così anche il cuore dell'abate mancato si è
lasciato adescare dal tenero vischio" osservò Titta
Colranieri. "Tutti uguali su ciò gli uomini. Disdegnano,
ricusano, disprezzano, magari, e poi... cascano in rete. Dove e
come si è accesa la bella fiamma?"
"A Mosciano, al tempo dell'indulto"
"Ed ora?"
"Vi è tra noi, a mezzo di persona fidata, scambio segreto
di lettere, ma essa ignora chi io mi sia. Non potrà, senza
dubbio, non rabbrividire quando saprà di essere stata in amorosa
corrispondenza con un bandito."
"E perché?" Interruppe Titta. "Sono un po' tutti
banditi, o in un modo o nell'altro, su questa terra. L'impresa,
certo, non è facile. Nessuna donna, anche non nobile, anche non
ricca, è disposta a unirsi, per la vita, a un uomo che vive
fuori delle comune leggi. Non si può in verità non sentire
ripugnanza d'intrecciare candide mani, con mani lorde di
sangue."
"Come lorde di sangue!" Esclamò Santuccio di Froscia,
che intervenne nella discussione. "E i re, gli imperatori, i
condottieri e tanti altri, con gli odi, le passioni, le ambizioni
che conducono alle guerre sterminatrici, non hanno forse le mani
lorde di sangue? Alte ragioni di Stato e dinastiche giustificano
le loro carneficine. Sta bene. Anche le nostre azioni, allora,
possono trovare giustificazioni nelle nostre leggi, nei nostri
diritti di uomini liberi.
Essi d'altra parte, per sostenersi, impongono balzelli senza
senso di giustizia. Noi, per la nostra esistenza, chiediamo
tributi soltanto ai ricchi, non sempre a posto con le leggi
morali.
Noi non aggrediamo, ma ci difendiamo, come nostro diritto, quando
ci attaccano. Puniamo, ma soltanto coloro che tentano di
nuocerci. In contrapposto, ascoltiamo l'invocazione del povero,
la voce del debole, il grido dell'oppresso."
"Bravo, Santuccio!" Replicò il Montecchi. "Hai
parlato con saggezza. Che qualche sirena abbia cantato pure nel
tuo cuore?"
"Siamo uomini, anche se banditi. Anch'io, però, ho rivolto
gli occhi un po' troppo in alto. In alto, intendiamoci bene, per
i pregiudizi del mondo, ché tutti, allo stesso modo, siamo figli
di Dio."
"In quale mare vive questa sirena?"
"A Campli, e appartiene alla nobile famiglia Rozzi e si
chiama Barbara."
"Giacché siamo su questi discorsi, dichiaro che anche nel
mio cuore, amici, è penetrato il dardo dalla punta
calamitata" aggiunse il Colranieri. "Sono non soltanto
innamorato, ma deciso a usare tutti i mezzi, pur di non rimanere
a mani vuote. E' stata già informata, di queste intenzioni, la
baronale famiglia dei Roccatani di Cellino, alla quale appartiene
la mia Francesca.
Dopo quanto ebbe a commettere a Civitella tuo fratello Giovanni,
o Santuccio, quando gli fu sottratta la giovane Cherubini, spira
per noi aria più favorevole."
Questo ed altro dissero i giovani della montagna, nella notte di
neve e di bufera.
Giovani, che molto dovevano far parlare di sé, nel corso della
loro movimentata vita.
CAPITOLO TERZO: Attività dei banditi. Una romantica scorreria.
Santuccio di Froscia e Giulio Montecchi. Mosciano e Campli.
Con la nuova bella stagione pareva che i banditi non mettessero
più limiti alle loro azioni. Correvano, da padroni, il
territorio della vasta provincia. Dai campi portavano via i
prodotti, dai mercati gli utensili, dalle casse del pubblico
tesoriere il danaro. A ogni loro impresa i regi mandavano
soccorsi, che giungevano quando essi se ne erano tornati alla
montagna.
Non disdegnavano di accettare battaglia, allorché vi erano
costretti, uscendone sempre vittoriosi.
Minacciarono qualche volta anche la città e una scorreria la
spinsero un giorno sino a Colleatterrato, destando molto panico.
Corsero voci confuse sulle loro intenzioni. I cittadini si
tapparono in casa; le giovani si rifugiarono nei conventi.
Corsero gli armati, come nei momenti di maggior pericolo, a
chiudere le porte, a occupare i bastioni, a suonare le campane.
Lo scompiglio aumentò quando la truppa, uscita per un'azione
contro di essi, tornò battuta.
Comandavano quelle bande, come assicurava un contadino che le
aveva viste, due giovani dall'aspetto civile. Anzi, con squisito
senso di cavalleria, l'avevano incaricato di portare alla più
bella donna di Teramo, in omaggio, un dono di fiori.
Era chiaro che non avevano intenzione di giungervi. Dopo non
molto, in verità, attraversando il Tordino, si diressero verso
la parte più alta del Pennino, da dove, giuntivi, ammirarono il
magnifico panorama, che con le valli, i fiumi, le colline, i
monti e il mare, s'apriva loro dinanzi.
"Pieno di lusinghe è sempre il creato" disse Giulio a
Santuccio "e la sua bellezza è un invito al godimento, cosa
che gli uomini, nella loro cecità, non sanno comprendere. Alla
stessa nostra giovinezza più che i canti della primavera
confanno lo scroscio delle acque, il gracidar del corvo,
l'ululato del lupo.
Non era così, Santuccio, quando, da piccoli preti, eravamo
assorti nello studio e nella preghiera, entro quel fabbricato
coperto dall'ombra del campanile. E' come il ricordo d'un
giardino in fiore, in tempo di aridità. Ma non è arido il mio
cuore e ben lo sa, laggiù a Mosciano, la mia Cinzia.
"Anche nel mio animo cantano le valli, i campi, i fiori.
Forse noi non eravamo nati per seguire le orme paterne. Calamità
dei tempi! Ma nel buio scintillano sprazzi di luce che,
illuminando la nostra giovinezza, fanno sperare che altri eventi
ci condurranno a camminare su altra strada. Abbiamo rivolto gli
occhi troppo in alto, per restare a vivere tanto in basso.
Ma ne riparleremo. Per oggi torniamo alla montagna."
E partirono. Poiché era calata la notte, si fermarono nel
villaggio di Piano, che si trovava sulla via del ritorno. I due
capi alloggiarono presso una delle migliori famiglie. Il giorno
dopo, di buon mattino, ripresero il loro cammino.
Gli ultimi episodi, la sconfitta di Colleatterrato, le nuove
minacce indussero Napoli a mandare in Abruzzo altre truppe, per
un'azione più forte.
La montagna, che tutto sapeva, viveva tranquilla. Anzi, Giulio e
Santuccio, con il consenso del vecchio capo Colranieri, pensarono
di fare altra ricognizione, verso altra contrada, ad essi più
cara. Partirono di buon mattino. Il cielo sereno, nella fresca
mattinata estiva, invitava a camminare. Le campagne, ove da un
boschetto all'altro i merli si ricambiavano i loro canti,
apparivano deserte. Né più vi si vedeva il contadino nel suo
fecondo lavoro; né più si udiva il canto gioioso della
villanella, ciò che infondeva un senso di profonda malinconia.
Dopo aver riposato in un valloncello fresco d'alberi e d'acqua,
le due bande ripresero il cammino verso due mete diverse: l'una
per Campli, l'altra per Mosciano.
La luna spuntava, nella sua pienezza, dall'Adriatico, quando, un
una casa di Mosciano, circondata da giardino, come un'intesa,
s'aprì una finestra e una testa bruna di donna fece capolino.
Una figura d'uomo, passando da albero a albero, vi si avvicinò.
Le strade, fuori, erano deserte. Sin dal tramonto, alla notizia
che banditi s'aggiravano nelle vicinanze, i cittadini s'erano
sbarrati in casa.
"Oh! Cinzia. Quanto ho desiderato di rivederti, quantunque
la tua immagine fosse sempre viva in me, rendendomi migliore. E
ti ho sognata con i sogni della notte. Nel risveglio il mio primo
pensiero era per te, e ti vedevo ancora, nel dominio del sonno,
in riposata dolcezza, e a te venivo nei diversi momenti del
giorno. Ma il mio pensiero correva pure al felice evento della
santificazione del nostro amore e fantasticavo lietamente sulla
nostra futura vita.
Parlami, ora, Cinzia, confortami con la tua voce. La mia vita è
assetata di tenerezze, d'affetto."
"Il mio stato somiglia al tuo, Giulio, come possono
somigliare due fiori colmi di profumo, due canti colmi di
melodie. Ti ho pensato in ogni momento, anche in chiesa, facendo
per te voti. Oggi, che non si vive più in sicurezza, è
necessario più che mai invocare la protezione del cielo. Non
sollecitavo la tua visita, appunto, per non esporti ai tanti
pericoli in atto. I banditi, che infestano la provincia,
diventano sempre più minacciosi. Ero ad attenderti con grande
ansia, dopo che era stata suonata la campana, per la loro
presenza nella contrada. Spesso mi domando come vi possa essere
nel mondo tanta brutalità. I lupi, quando correvano il
territorio, erano meno temuti. Rappresentano un vero castigo di
Dio questi banditi."
"Gran brutta gente, senza dubbio, mia buona Cinzia, che va
considerata, però, in ubbidienza ai cristiani insegnamenti, con
grande misericordia. Sono anch'essi figli di Dio, con tutti i
difetti, con tutte le virtù. Molti, senza dubbio, si saranno
dati alla montagna dopo molti delitti; altri per altre ragioni.
Tu, che sei donna e sei giovane, non puoi conoscere le colpe di
cui si macchi il così detto consorzio civile. E poi: siamo noi
liberi? Quelli della montagna sono briganti, non si può negare.
Non comprendo perché non si debbano considerare briganti coloro
che discesi dalle Alpi, sia pure con il segno della croce,
devastano, saccheggiano, uccidono senza ragione e senza pietà.
Gli uni possono valere gli altri. Ma, da un confronto sereno, ne
potrebbero uscire in condizioni migliori i nostri banditi, nemici
dichiarati di coloro che in nostri grandi avi chiamavano barbari.
Anche i nostri banditi per vivere debbono commettere violenze; ma
essi sono capaci, rispetto alle donne, ai vecchi, ai poveri di
atti generosi. Non negano aiuto all'oppresso, amano la patria.
Parliamo d'altro."
"Parliamo d'altro. Ma vorrei che questi banditi, nonostante
la tua difesa, non ci fossero."
"Un giorno, quando leggi migliori governeranno gli uomini,
non vi saranno più. Ma godiamo ora la nostra gioia."
"Godiamo. Ma tu dove vivi? Tante volte, chiedendo notizia a
Sant'Omero, me ne sono state date di vaghe, di strane."
"Tutto è strano nel mondo, mia diletta. Vorrei però
tornare a vivere in questo borgo, per poterti seguire, con
l'animo piacevolmente agitato, in istrada, in chiesa, ovunque,
come un tempo. Vorrei tornare qui per innalzare a te, nella
notte, la mia serenata d'amore."
"Torna, allora."
"Non posso."
"Come non puoi."
"Altri impegni mi costringono a vivere altrove."
"Molto lontano?"
"No, se la distanza è calcolata con il metro; sì, se con
l'affetto.
Ma parliamo d'altro, Cinzia, ché il tempo vola. Parliamo di
questa notte deliziosa. Tutto è qui santo. Anche il tuo nome è
in armonia con la bellezza che ci circonda. Cinzia, lirico nome.
Notte davvero da innamorati. In cielo, corteggiato dalle stesse e
a conforto del solitario viaggiante, va lungo l'eterno suo
cammino. La sua luce sembra che avvolga teneramente le gioie e i
dolori del mondo. Dalle aiuole si diffonde con potere di malia il
profumo dei fiori, dal capanno di rose canta l'usignuolo. Ne sono
geloso."
"Anche d'un uccello?"
"Anche, maggiormente se usignuolo. Può strappare palpiti a
cuori gentili."
"L'ascolto, in verità, con molta tenerezza e mentre
l'ascolto sogno... Ma... ma... una fucilata. Hai udito? Chi sarà?"
"Un qualche notturno cacciatore di volpi."
"Suonano le campane..."
"Debbo andare, Cinzia."
"Non andare. I banditi sono feroci."
"So mettermi in salvo. Sta tranquilla. Presto tornerò."
Rotto l'incanto, Giulio corse ansioso al recinto, lo scavalcò,
scomparve nella notte, con i suoi, sulla strada di Campli.
Molti commenti si fecero a Mosciano, il giorno dopo, su
l'accaduto. Molto strana quella comparsa di banditi, senza i
soliti saccheggi. Qualcuno assicurava che uno di essi era giunto
sino alle prime case, messo poi in fuga dal suono delle campane.
"Sono bravi, quei signori, dinanzi ai deboli!"
Sentenziava uno dei capannelli, formati qua e là per i commenti.
"Basta il suono d'una campana per metterli in fuga. Non è
vero?"
"Verissimo!" rispose uno degli ascoltatori. "Se
fossero entrati questa notte... questo bastone..."
"Bastone? Armi ci vogliono per quei signori, armi come
queste. Io le ho sempre con me, nonostante il balordo ordine
delle autorità di Teramo."
"Bravo. Anch'io le armi le ho sempre con me" disse un
terzo. "Quei di Teramo se non sono corrotti, sono matti e
questa notte le avrei fatte funzionare a dovere."
"Allo stesso modo" interruppe un quarto "di quando
quei della montagna saccheggiarono, senza molestia, non soltanto
la campagna, ma più ancora..."
"Ma allora fummo sorpresi."
"Sicuro e questa notte chi è uscito in istrada, quantunque
uno di essi, come una sfida, sia entrato qui solo?"
"Ciò che hanno fatto agli altri... ma... ma i contadini
tornano dalla campagna."
"Che succede, paesani?" si domandò loro, con
agitazione.
"Fatti gravi. A Campli pare che dopo il saccheggio sia stato
preso, con altre personalità, anche il Vescovo. Dopo, come dice
questo amico che giunge da Campli, verranno anche qui."
"Tu vieni da Campli?"
"Si, da quell'inferno. Prima d'allontanarmi, trovandomi
dietro una siepe, da un gruppo di quei forsennati, che passava
vicino, chiaramente udivo dire: - Domani andremo a dare una buona
lezione all'ingorda Mosciano. Lasceremo tracce profonde del
nostro passaggio."
"Mamma mia! Così ha inteso dire?"
"Proprio così."
"Secondo te verranno?"
"Senza dubbio. Molte sono le vande discese dai boschi,
affamati come lupi, assetati di sangue."
Queste notizie, sciogliendo i ciarlieri, capannelli, gettarono
nell'abitato nuova confusione, nuovo sgomento.
Ma le cose non s'erano svolte così, come erano state raccontate.
Tre uomini della banda di Santuccio per essersi spinti a Campli
troppo avanti erano stati catturati. I tentativi dei compagni,
per liberarli, erano falliti. Ma al giungere, da Mosciano, della
banda dei Montecchi, l'azione fu ripresa con maggiore violenza
tanto da poter catturare alcuni avversari, tra cui tre donne. Ciò
che si voleva, potendo ora trattare per lo scambio dei
prigionieri, ritirandosi intanto i banditi su una vicina collina.
Ma al Lucidi era riservata una grande sorpresa. Riconosceva in
una delle tre donne, che avevano combattute sugli spalti di
Campli con grande valore, Barbara Rozzi. Conservava fiero
contegno e fieramente rispondeva alle domande che a essa si
rivolgevano.
"Soltanto briganti come voi potevano catturare donne che
difendevano, sia pure con le armi, la propria casa, da volgari
predoni. Non vi domandiamo pietà, ma rispetto alle nostre
persone."
"E sarete rispettate, quantunque in questo momento tutta
Campli palpiti di pietà per voi e nelle vostre famiglie si
piangerà sul vostro caso. Vi pensano esposte a tutti i pericoli,
vittime di tutti i mali.
Bandito! Nome esecrato, in persone maledette. Non è vero? Ma noi
non siamo, rassicuratevi, i predoni, di cui avete parlato.
Nell'animo dei banditi del Martese, non la brutalità, ma palpita
la gentilezza. Sanno odiare, ma sanno anche amare."
"Belle sono le vostre parole, so però che il demonio, per
operare il male, prende forma di angelo".
"Il demonio, non noi e presto ve ne convincerete. Voi
domani, in cambio dei nostri prigionieri, sarete restituite alle
vostre famiglie. Intanto passerete la notte, in tutta sicurezza,
in quella casa di contadini." E vi furono accompagnate, ove
furono accolte, perché conosciute, affettuosamente.
"Bell'avventura la nostra", disse Barbara alle amiche,
una volta sole. "Chi sa in quali pene vivono le nostre
povere mamme. Volemmo prendere le armi, come le donne di
Civitella, per difendere le nostre case e siamo alla mercé dei
banditi."
"Sono però banditi simpatici" rispose una delle due
amiche.
"Quel Santuccio" soggiunse l'altra "come lo
chiamano, è d'aspetto civile, nobile."
"Ma sempre bandito" ripeté Barbara. "Anzi, a
quanto ho capito, capo dei banditi. Vedremo come manterrà la
parola."
"Appunto delle donne di Civitella, che cosa fecero?"
Domandò ancora un'amica.
"E' un po' lunga la storia."
"Non importa. Raccontatecela. Tanto nessuno pensa a dormire
questa notte."
"Va bene. Ve la racconterò, ma brevemente. Servirà ad
alleviare il nostro fastidio.
Dovete sapere come il papa Paolo IV, figlio di Vittoria
Camponeschi, contessa di Montorio - come la bisnonna, che viveva
in quel tempo, mi narrò - volesse cacciare dal regno gli
spagnuoli, con l'aiuto dei francesi, che invitò a discendere in
Italia. Superate le Alpi, per la via della Romagna e delle
Marche, l'armata liberatrice, come la chiamavano, giunse alla
nostra frontiera. Rafforzata con le truppe pontificie, su
consiglio del cardinale Carafa, penetrò nel nostro territorio e
marciò su Campli. Dopo una dura lotta, e anche i nostri si
difesero bene, fu conquistata e sottoposta a un feroce
saccheggio. S'uccisero gli uomini, non furono risparmiate le
donne, nella vita e nell'onore. La bisnonna, adolescente appena,
si salvò in un convento.
Dopo non molto, il resto di quell'armata, forte di diecimila
uomini, entrò anch'esso nel regno e andò a cingere d'assedio
Civitella. Ma là, dove si conoscevano i dolorosi fatti di
Campli, s'erano nel frattempo preparati per la forte difesa. E in
questa difesa, per la scarsezza degli uomini, concorsero le
donne, numerosissime. Esse, per nascondere il proprio sesso al
nemico, vestirono da uomini e si tagliarono le trecce, dono di
angeli, senza rimpianto, rimanendo sugli spalti insanguinati,
sotto la pioggia dei proiettili di innumerevoli cannoni, ferme,
serene, sorridenti. Il loro valore si innalzò alla bellezza
dell'epopea una notte in cui, mentre infuriava uno spaventoso
temporale, crollò una parte del bastione. I francesi, come
favoriti dalla fortuna, sicuri di poter penetrare da quella
breccia nella fortezza, vi si slanciarono. Ma le donne che vi
vegliavano, imperterrite, li fracassarono con grossi macigni,
fatti precipitare dall'alto.
L'eroico fatto fu consacrato, per la ricordanza, in un marmo, che
i secoli non consumeranno.
La lotta continuò ancora aspra, disperata, sanguinosa, ma i
francesi dinanzi all'epica resistenza, non passarono e Civitella
fu salva.
Eccone in breve la storia."
"Meravigliosa! E noi? Prigionieri dei banditi. Ci lasceranno
davvero libere?"
Anche i banditi non avevano dormito quella notte.
"La vita è sempre accompagnata da sorprese" diceva
Santuccio a Giulio. "Il più strano dei casi, che sa di
romanzo, ha messo nelle mie mani l'oggetto amato, che potrei
condurre, per il diritto della forza, sulla montagna. Ma non lo
faccio.
Che ne dici tu, Giulio?"
"A me sembra, Santuccio, di non essere più banditi. Il buon
seme, gettato a Teramo nei nostri animi, germoglia, come in
un'acqua di maggio, al soffio del benefico amore. La tua
generosità di oggi è ancora una prova.
E' ormai giorno. Andiamo a portare alle nostre prigioniere, col
saluto, la nostra buona parola."
"Ci lascerete libere davvero?" disse Barbara a
Santuccio, rimasti soli nella conversazione.
"I banditi del Martese, per la vita e per la morte, non
promettono invano. Tornerete alle vostre case, qualunque sia la
risposta dei vostri governanti. Se si rendesse necessario,
terremo con noi i giovani, condotti qui con voi. Non vogliamo far
piangere occhi così belli."
"Chi vi ha detto che ho pianto? Le lagrime non hanno
arrossato i miei occhi."
"Me ne rallegro. Ditemi allora: quale ricordo serberete,
quali racconti farete sul nostro conto alle vostre case, alle
vostre amiche? Molte cose, sulla vostra avventura, vorranno
sapere."
"Cosa dobbiamo rispondere, se siete stati con noi tanto
educati?"
"Che siamo banditi, per un ideale, non predoni, che viviamo,
nel nostro piccolo mondo, con nostre leggi, che siamo nemici di
coloro che conculcano la nostra patria. Per il resto siamo come
tutti gli altri, con l'odio e l'amore. E io amo. Ma i banditi
spaventano. Non importa, ché l'amore, il più bizzarro dei
sentimenti conforta a sperare, come apprendiamo dalle tante
novelle, che piacevolmente si raccontano, nelle sere d'inverno,
vicino al focolare.
Castellane che ascoltano, nella notte, il canto dell'errante
trovatore; nobili dame che porgono l'orecchio alle voci che
salgono ad esse dall'oscurità della strada; principesse, e non
poche, sfolgoranti di giovinezza, che si lasciano involare dal
romantico amatore. Hanno torto? Per i pregiudizi del mondo, sì;
per i diritti del cuore, no.
La vita è un soffio, mia cara; una molecola, un lieve punto
nella vastità del creato, trascinato inesorabilmente e travolto
nel vortice del tempo. Quale ricordo di ere remote, di tutte le
vicende, di tutti i piccoli e grandi drammi svolti nel teatro
delle umane passioni, rimane a noi? La vita ha valore per quel
tanto di felicità che i viventi sapranno ad essa carpire. Il
resto è nulla.
Giusti quindi e santi sono i sentimenti che inducono, in una più
alta visione umana, a rompere i pregiudizi del mondo.
Che ne dite voi?"
"Che posso dirvi? Sono ancora troppo giovane per trattare
certi argomenti. Per ora, nonostante tutte le vostre belle
parole, non desidero che di tornare a casa."
"Ci tornerete e oggi stesso. Ma ditemi: mi ricorderete
qualche volta? Ricorderete, senza il senso fosco della paura, il
bandito che, in una fresca mattina di maggio, vi ha parlato su
questa collina, un linguaggio non suo? Almeno per voi."
"Posso anche ricordarvi. Che vi sarebbe di strano? Ma senza
il senso della paura, state tranquillo. Anzi..."
"Anzi?..."
"Con una certa simpatia."
"E' quanto desideravo di sapere. Ora possiamo andare dalle
vostre compagne. Là potrete sapere qualche altro particolare sul
nostro conto."
Giulio, una volta raggiunto, su invito, disse:
"Vita la nostra, care donne, di sangue, ma anche di
generosità. Sentite. In un tempo non lontano si sviluppava,
nella frazione di Pascellata, un violento incendio, che metteva
in pericolo beni e vita degli abitanti. Mentre le fiamme
illuminavano sinistramente la notte, s'udivano grida e suono di
campana. Noi, per fortuna, non eravamo lontani. Vi volammo senza
titubanze. Pareva che vi fosse tra i miei una fervida gara a
lottare con la forza del fuoco, che diveniva sempre più
minaccioso. Erano in azione acqua, terra, sassi e spirito eroico
e prima di giorno l'incendio era domato.
L'incendio era domato, ma quelli della banda, qui presenti, ne
uscirono feriti, bruciacchiati, tormentati da molte scottature.
Io ne conservo ancora, quasi sanguinanti, le cicatrici.
Dopo la prova del fuoco, la prova dell'acqua.
Su Valle Castellana, nostra abituale dimora, si scatenava, sul
finire della scorsa estate, un violento temporale, con tuoni,
lampi, fulmini e acqua a diluvio. Ne erano pieni i valloncelli,
gonfio il fiume. Noi, che dal Tronto risalivamo il Castellano,
fummo costretti a cercar riparo in un mulino. La piena, che
aumentava di momento in momento, ci costrinse ad accorrere, sotto
l'infuriare degli elementi, in aiuto di molte famiglie, che
stavano per essere travolte dalle acque limacciose. Molte persone
erano state già salvate, quando si vide dibattersi, tra i
vortici furiosi, un giovanetto. Uno della banda, il più vicino,
senza esitare, si lanciò in suo soccorso, quantunque gli si
gridasse: no, no. Corremmo. Non vedemmo più nessuno. I vortici
avevano inghiottito il giovanetto e il giovane eroe. E corremmo
più volte a salvare dalla bufera e dalla valanga i malcapitati,
che ne erano stati travolti."
Mentre Giulio parlava sul viso delle donne apparivano chiari i
segni della commozione e dell'ammirazione. Nulla più ora
temevano da quella gente.
"Ma non tutti operano così" mi si può osservare.
"E' vero. Ma io parlo delle generose bande, delle quali è
capo, vegeto e robusto, il centenario Giuseppe Colranieri."
Mentre parlavano gli emissari tornarono e con essi, con gioia di
tutti, gli arrestati. I prigionieri, quindi, comprese le donne,
con parole di conforto e di auguri, furono lasciati liberi. Prima
che sulla via di Campli scomparissero in una svolta, una donna di
volse a salutare, con una mano, la collina.
Dopo anche i banditi ripresero, melanconicamente, la vita della
montagna.
CAPITOLO QUARTO: Disfatta degli spagnuoli a Valle Castellana.
Dissidio tra i banditi. Padre Fulgenzio. I banditi corrono a
ricacciare in mare i pirati sbarcati alla foci del Tordino. Amori
e matrimoni.
I soldati di Spagna, dopo il lungo riposo, punti dai frizzi, che
non mancavano, si mossero finalmente al comando del maestro di
campo, Michele Almeida. La boria era maggiore della fiducia in sé,
della propria forza, del proprio valore. Andarono su per i colli,
verso Torricella, con la vigoria, che mai manca nella freschezza
del mattino.
Di tappa in tappa, tra un canto e l'altro, giunsero a Paranesi,
che trovarono deserta. Vi pernottarono. Al mattino seguente
ripresero la marcia, con nuovo vigore, verso Valle Castellana.
La strada diveniva sempre più angusta, frastagliata, scabrosa.
Capivano che l'impresa non era così facile, come era loro
apparsa mentre gozzovigliavano in città. Qualche volpe tra la
boscaglia, qualche uccellaccio sulle rupe e non vedevano altro.
Con l'avanzare, le difficoltà aumentavano, le forze diminuivano.
Di banditi neppure l'ombra. Dovevano essere fuggiti al solo loro
apparire. Già questo poteva costituire una vittoria, senza
esporsi a pericoli, da sapersi abilmente sfruttare nel rientrare
a Teramo.
Poiché il sole era già alto, il comandante ordinò, nel
ginepraio di sterpi e di cespugli, in cui s'erano cacciati, una
sosta per il riposo e per il rifocillamento. Erano sicuri e se ne
stavano tranquilli.
La più alta pace regnava nella vallata. Il silenzio era rotto,
di tanto in tanto, dal fruscio degli alberi, mossi da
un'improvvisa folata di vento, dal ruzzolare d'un sasso toccato
dal passaggio di qualche volpe; dal canto d'un solitario cuculo.
Tra tanta poesia non mancava di risuonare, da sulle alture, in
cima alle rocce, il sinistro verso della cornacchia.
Ma i bravi soldati di Spagna, occupati come erano nell'allegra
manovra delle mandibole, non vi facevano caso. Qualche frizzo però
non mancava e qualche rammarico per dover tornare in città, dopo
tante vanterie, senza la testa di un bandito.
Godevano a ogni modo di quel riposo e di quel pasto, quando un
rumore, come di passi, fece loro trattenere il respiro. Si
guardarono con un certo sgomento. Stavano per alzarsi, quando i
padroni della montagna furono ad essi addosso, da ogni parte,
furiosamente. Breve la lotta, completa per gli iberici la
sconfitta.
Mentre a Teramo si teneva consiglio sulla disfatta, a Frondarola,
dove le bande erano discese, si discuteva sul da farsi. Qualcuno
dei capi, i più accesi, avrebbero voluto proseguire la marcia
verso la città; altri, i moderati, erano contrari. In questa
discordanza di pareri, la discussione diveniva vivacemente
pericolosa tra Sciacqua di Montepagano e Giulio Montecchi.
"Nessuna minaccia ha mai fatto deviare me e i miei amici,
tra cui il prode Carlo Vitelli, dalla strada tracciata. Quel che
ci siamo proposti di fare domani faremo" diceva il primo.
"Voi non lo farete" rispondeva il secondo", o non
siamo più noi."
"Noi lo faremo, qualunque ne sia il prezzo."
Stavano quasi per venire alle mani, quando comparve padre
Fulgenzio, cugino di Titta, che viveva molto vicino ai banditi.
"Non va bene questa vostra condotta, figliuoli" egli
ammoniva. "Un conflitto tra voi condurrebbe alla vostra
rovina. Non aspettano altro i vostri nemici e ne avete. Una volta
scompaginati, vi salterebbero addosso per il colpo di grazia. E'
ormai assioma antico che l'unione fa la forza e i romani ben lo
sapevano.
- Le verghe - dicevano - separatamente si spezzano; riunite no. -
Così sarebbe pure per voi. Uniti e disciplinati costituite una
forza, che impone rispetto; separati e in conflitto, qualunque
villano può prendervi e impiccarvi al primo albero. Gli
spagnuoli non cercano altro per riconquistare, con un'azione
vittoriosa contro di voi, il perduto prestigio.
Domani nessuno si dovrà muovere di qui, per nessuna ragione. Non
udite fuori il canto della civetta? E' senza dubbio l'uccello del
malaugurio; ma è anche, per chi sa intenderlo, l'uccello dei
provvidenziali avvertimenti. Tornate, quindi, per questa sera, da
bravi, ai vostri posti. Domani ci ritroveremo qui per le
necessarie conclusioni.
Se non mi ascoltate i pali di Teramo presto potrebbero ricevere i
vostri corpi; il regno infernale le vostre anime."
Il canto della civetta, la visione dei pali, lo spavento
dell'inferno valsero più di qualsiasi altro argomento a
restituire a quei capi un po' di calma.
Ma il giorno dopo, partito padre Fulgenzio, la discussione si
riaccese più vivace di prima. I teramani, dopo un'insonne
nottata, avevano mandato a Frondarola, di buon'ora, un messaggio,
nel quale tra l'altro si diceva:
"Noi conosciamo la vostra sensibilità di italiani. Ragioni
forse plausibili vi indussero un giorno a operare in altro
settore. Le stesse ragioni vi debbono ricondurre oggi a noi.
Un pericolo grave ci sovrasta, in questo momento. I turchi,
sbarcati alle foci del Tordino, si dirigono su due colonne verso
Mosciano e verso Castellalto. Dopo l'infelice impresa di Valle
Castellana, gli spagnuoli in questo tempo non sono in condizioni
di muoversi. Nella veglia il nostro grande patrono ci ha
inspirato di rivolgervi a voi, pure suoi figli. Venite. Fate che
le nostre reliquie e le nostre donne non siano portate via dalla
brutta gente, nemica di Dio. Venite fiduciosi, senza indugio.
Domani potrebbe essere troppo tardi. Grida d'angoscia giungono
dalla parte del mare."
Questo messaggio d'ansia e d'invocazione produsse nelle due parti
effetti contrari. Mentre gli uni avrebbero voluto mettere le ali
per correre verso il pericolo, gli altri, tornando ai loro
propositi, avrebbero voluto approfittare di quella confusione per
metterli in atto.
Col ripetere: "Voi non lo farete" e "Noi lo
faremo" in un eccesso d'ira mettevano già mano alle armi.
Ma a Frondarola vi era la sola banda del Montecchi, molto
moderata, che accorse per ristabilire l'ordine. Lo Sciacqua, i
Vitelli e i loro amici s'allontanarono torvi d'odio e di minacce,
per risalire, con le loro bande, da Valle Castellana ai loro
covi. Gli altri, dopo breve consiglio, mossi da pietà, corsero
verso Teramo. Quando apparvero sulla collina le campane
suonarono, non a martello questa volta, ma a festa.
A mezzogiorno quelle bande, con i capi alla testa, tra due ali di
popolo plaudente, entrarono in città. S'adunarono,
successivamente, nella piazza grande, per udire la parola di
padre Fulgenzio, là presente. Parola di fede, d'amore, di
esaltazione; parola di alto elogio per il Vescovo, le autorità,
i cittadini tutti che, nel momento del pericolo, si erano
ricordati, fiduciosi, di quei loro fratelli, che vivevano, con i
loro ideali, sulla montagna. Bande che, come quelle di ventura,
rappresentavano un nobile tentativo di creazione di milizie
nazionali da contrapporre alle mercenarie milizie straniere,
causa di tanti lutti, apportatrici sempre di miseria e di
corruzione.
Ma a favore di quelle bande, adunate in quella storica piazza, vi
era qualche cosa di più. Esse avevano avuto per Teramo una
particolare predilezione e l'avevano sempre difesa a viso aperto
ogni qualvolta dai veri predoni era stata minacciata. E quelle
bande, ne era sicuro, avrebbero assolto il nuovo incarico nel
modo più onorevole.
E tante altre cose confortanti disse il buon padre, con religioso
patriottico fervore, mentre i soldati spagnuoli s'aggiravano
attorno e guardavano attoniti i baldi giovani, dai quali erano
stati sulla montagna sconfitti.
Il Vescovo, che con manifesti segni di compiacimento tutto
approvava, impartì, da ultimo, dal balcone del suo palazzo, la
paterna benedizione.
Dopo la partenza delle bande per la loro impresa, molte
discussioni s'aprirono qua e là, nella città tornata
tranquilla.
Il vicario Aniello era lietissimo. La sua riputazione, dopo le
tante disgrazie, rispetto alla corte di Napoli, con quella
fortunata soluzione, si doveva ritenere salva. Avrebbe dipinto il
rapporto da inviare al Viceré, circa la sottomissione di quelle
bande, con i più favorevoli colori.
Nel mondo, come era noto, non valeva tanto quel che si faceva, ma
quanto quel che si sapeva far credere d'aver fatto.
Anche presso la Curia s'era in festa. Il Vescovo, il Capitolo e
una folla di religiosi erano andati a rendere i loro
ringraziamenti, non soltanto alla Madonna, ma anche a san
Berardo, alla pietà del quale, sempre manifestata per la sua
città, si doveva in parte attribuire questo nuovo miracolo.
Le bande, raggiunto con sollecita marcia il territorio di
Ripattoni, si separarono, dovendo ognuna operare in settori
diversi. Giulio Montecchi e i suoi uomini presero, ed è agevole
capirne le ragioni, la via di Mosciano, meta, a quanto si sapeva,
dei briganteschi disegni dei pirati; gli altri, la via del mare.
L'alba già imbiancava l'oriente e le stella mattutina era già
alta quando il Montecchi udì, dalla parte in cui era diretto, il
rintocco lento delle campane a martello. Non camminò più la sua
banda, ma corse, volò. Quando giunse udì schianti di porte,
grida di donne, urli di uomini. C'era da perdere il senno. Ma il
Montecchi, abituato a quei frangenti, sapeva conservare la calma,
prerogativa dei forti, base di ogni buon successo. Avvolto
l'abitato con i suoi, da ogni parte, in modo che nessuno ne
potesse uscire inosservato, corse alla casa a lui particolarmente
cara. Silenzio. Lanciò dalla porta sgangherata, su per le scale,
la voce commossa, ma non ricevette risposta. La casa, messa già
a sacco, era vuota. Tornò con ansia mortale ai suoi uomini, che
fece nascondere, in parte, dietro le siepi, sulla via, per la
quale i pirati dovevano passare per tornare al mare.
La luce del giorno cancellava già l'aurora quando essi
apparvero, con donne e bottino, in lunga fila. Il grido di - Mani
in alto - ferì sgradevolmente il loro orecchio, uso al rumore
delle tempeste, mentre vedevano puntate su di essi cento canne di
archibugi. Ma non se ne impaurirono e la loro reazione fu pronta,
vivace, disperata.
Le donne, tra le quali Cinzia, approfittando della confusione,
tornarono alle loro case.
Vi era nelle due parti, nell'offesa e nella difesa, uguale
valore. I banditi avevano la superiorità del numero; i pirati,
con le taglienti scimitarre, delle armi. Si elevarono dalla
mischia feroce, con il rumore delle percosse, urli, imprecazioni,
bestemmie. Si elevarono le grida, caddero gli uomini in pozze di
sangue.
Giulio Montecchi, il più terribile, il più prode, quantunque
ferito, non lasciò il posto.
Una scarica di archibugi, che giunse bene al segno, costrinse
finalmente i pirati ad alzare le mani.
Poco dopo le campane, che suonarono a festa, annunziarono alla
contrada la bella vittoria. Furono successivamente, dalla pietà
dei cittadini, raccolti i feriti e i morti. Ai tre italiani
caduti furono resi solenni onoranze. Si discusse, invece, sulla
sepoltura da dare ai non cristiani. Non erano essi, come dicevano
gli uni, che predoni, non degni di commiserazione. Per gli altri
erano sempre figli di Dio, anche se privi di battesimo della
chiesa di Roma. E avevano normale sepoltura.
I feriti, tra cui il Montecchi, per le eroiche gesta, erano stati
accolti, e amorevolmente assistiti, dalle migliori famiglie.
La banda di Santuccio, alla quale si erano aggiunte le bande di
Titta Colranieri e di Salvatore Bianchini, nel percorrere le
verdi rive del Tordino, s'imbatterono negli altri maomettani che,
risalendo il fiume, marciavano con sicurezza verso Teramo. Tutto
poteva ad essi essere lecito, non avendo più gli italiani
spirito combattivo. Questa volta, però, con dolorosa sorpresa,
si dovettero ricredere, ché in breve tempo furono affrontati,
sbaragliati, inseguiti, nella fuga disordinata, sino al mare,
sino alle navi. Poiché su quei legni vi erano italiani e a terra
maomettani, le due parti, dopo uno scambio d'invettive, giunsero
ad una più calma discussione, per la liberazione dei propri
prigionieri. Concluso l'accordo, uno dei capi disse:
"Sino a questo momento noi sapevamo che gli italiani,
dinanzi al pericolo, non sapevano che suonare le campane. Oggi
voi avete dimostrato di saper anche combattere e con molta
bravura. E' la prima volta, nelle nostre scorrerie, che siamo
stati costretti a riprendere con la fuga la via del mare. Ma
siete proprio italiani?"
Italiani e custodi del fuoco sacro della latinità, nel quale un
giorno non lontano, gli italiani tutti, si dovranno riscaldare
per riprendere, nello spazio, la marcia dei trionfi.
Italiani che, nel ricordo della nostra storia gloriosa, non
sopportano soprusi. Ieri caddero sulla montagna, sotto i nostri
colpi, gli spagnuoli; oggi nel piano voi. Ecco chi siamo. Ed ora
riprendete i vostri prigionieri, i vostri feriti, i vostri morti
e partite. Quando dal mare vi si offrisse ancora in vista quel
monte dal duro nome di Gran Sasso, ricordatevi, per il vostro
bene, che alla sua ombra vivono, vigili e aggressivi, i banditi
del Martese." E i maomettani partirono.
Le tre bande, assolto il duro compito, tornarono a Teramo, ove
furono accolte festosamente. Il Vicario, che parlò anche a nome
del Viceré e della cittadinanza, espresse loro, con i
ringraziamenti, la più profonda gratitudine per la generosa
opera. S'aprì nello stesso tempo nella città una vera gara per
offrire ai salvatori la più lieta ospitalità. Nel duomo, il
giorno dopo, si celebrò una messa solenne, in suffragio dei
caduti. Tutti vi erano presenti.
Sante Lucidi, molto commosso, pareva riconoscersi in quei piccoli
seminaristi, tra i quali un giorno era stato, ignaro degli
inganni del mondo. Seguiva, con l'immaginazione, gli eventi che
l'avevano condotto, non ad una parrocchia, per la cura delle
anime, ma sulla montagna, tra i boschi, per farvi il bandito.
Non sempre era stato cattivo; qualche volta, anzi, aveva compiuto
atti generosi, ma era pur sempre un bandito. Pensava, nel
raccoglimento del tempio, mentre il canto e la musica
accompagnavano la messa, di farsi avanti, d'andare a gettarsi ai
piedi del Vescovo, che sedeva sul trono, dietro l'altare, con
composta dignità, e chiedergli perdono e la riammissione in
seminario, per divenire servo di Dio. Ma alla visione di una
calma vita, in una chiesa ornata d'angeli, non tardava a
subentrare altra dolce figura e quando la funzione religiosa finì
uscì, come tutti gli altri, nella città in movimento.
Dopo le vicende e il festoso soggiorno di Teramo, le bande del
Lucidi e del Colranieri, secondo il loro desiderio, partirono
l'una per Civitella, l'altra per Cellino. La banda di Salvatore
Bianchini rimase a guardia della città, che si sentiva
minacciata dalle facinorose bande irriconciliabili, le quali
s'aggiravano, con torvi propositi, nei territori di Rocca Santa
Maria e di Torricella. Un fatale giorno, evidentemente ingannate
da false informazioni, comparvero baldanzose alle porte della
città, per il saccheggio.
Questa volta, con una certa meraviglia, non erano state suonate
le campane; non erano state chiuse le porte; non erano accorsi
armati a difesa dei bastioni. Corse alla mente dello Sciacqua e
del Vitelli, condottieri di quelle masnade, il sospetto di un
qualche tranello, ma non lo temevano, ed entrarono nella città
senza paura, con un disegno ben determinato.
Non un cittadino, per gli ordini del Bianchini, era rimasto in
istrada, né un armato. I saccheggiatori, che vi fecero molto
rumore, sparando qua e là, vi si sentirono padroni. Dopo
un'affrettata ricognizione, si diressero, secondo il loro
disegno, verso le case dei ricchi. Bussarono. Nessuna risposta.
Alla pressione le porte cedevano, ma subito si richiudevano, come
trappole, alle loro spalle, e robuste braccia li serravano in una
stretta, dalla quale non più si liberavano. E caddero anche i
capi, nella tragica trappola.
Gli altri banditi, rimasti fuori, conosciute le disgraziate
vicende dell'impresa, si diedero a fuga precipitosa, verso la
montagna.
Il giorno successivo, dopo un sommario giudizio, sette di quei
banditi, tra essi lo Sciacqua e il Vitelli, pendevano
lugubremente da sette alberi, nelle sette porte della città.
Terribile risposta alla sfida lanciata a Frondarola alla parola
del frate, alla voce della civetta.
Mentre a Teramo si svolgevano tali eventi, Mosciano rendeva pure
essa, ai suoi salvatori, larghe onoranze. Si parlava molto di
Giulio Montecchi, ferito nel conflitto. Lo ricordavano quando
giovanetto aveva ivi soggiornato, frequentando la chiesa
parrocchiale. Non spiegavano, però, come mai, nella notte
paurosa fosse a capo d'una banda di fuorilegge. Intervento
miracoloso, ma avvolto di mistero.
Ma altre domande, altre considerazioni, con altra ansia si
facevano, su quegli eventi, nel silenzio d'una stanza.
"Era mai possibile" pensava la buona Cinzia "che
Giulio, che aveva parlato sotto la sua finestra, nella notte di
luna, con il più fiorito dei linguaggi, fosse un bandito?"
Non poteva essere. Il pericolo aveva forse accomunati, per una più
valida difesa, banditi e non banditi. E se non fosse stato così?
Vedeva cadere in questo dubbio i sogni sognati nelle preghiere
della sera, nel risveglio fresco del mattino. Ma quel Giulio non
era stato lui a liberarla dagli artigli dei corsari? A quell'ora,
senza il suo intervento, viaggerebbe su una di quelle navi
maledette, esposta a tutte le violenze, venduta poi come bestia
su i nefandi mercati orientali. Non poteva dunque non portare
anche lei, al salvatore, il suo ringraziamento. Dopo una fervida
preghiera alla Madonna, sua divina inspiratrice, anche lei
andava.
Il sole, nella calda giornata di luglio, superava la metà del
corso, piegava verso la montagna dei Fiori. Poca gente
s'incontrava nelle strade, sfiorate appena da un piacevole
venticello. Qualche cane randagio, trotterellando, attraversava
la breve piazza. Qualche vecchierello, stanco di questuare,
molestato da innumerevoli mosche, riposava all'ombra di qualche
casa. Ronzii d'api s'udivano qua e là, e pigolii di passeri,
padroni dei tetti.
Cinzia, giunta tra quelle scenette nella casa dei Rossi, ove il
Montecchi vi era amorevolmente curato, vi entrava. Dopo un po' si
trovava sola con Giulio, che sedeva, con il braccio fasciato,
nelle vicinanze d'una finestra, che guardava sul giardino.
"Tu qui, Cinzia? Quanto ho desiderato questa tua visita.
Grande lotta, senza dubbio, si sarà combattuta in te, prima di
venire a offrirmi questo dono di tanto valore. Non è vero?"
"E' vero. Io mi lusingo ancora che tu non sia di quella
gente che vive di sangue. Dimmi, Giulio, che tu non sei
bandito".
"Siamo nati, buona Cinzia, in una delle età più
disgraziate: età in cui gli stranieri, forti del nostro
disfacimento, torturano la nostra patria. Credi tu che se un
qualche italiano, della tempra di un antico romano, ripetesse il
grido: - Fuori i barbari! - credi tu che i banditi del Martese
rimarrebbero inoperosi?
Talvolta sento che vi è in me qualche cosa i non comune e che il
mio nome non scenderà, per l'eterno oblio, nella tomba."
"Perché bandito?
Non so. Tempo fa, mosso da curiosità, volli sentire il mago di
Nepezzano, che tanto fa parlare di sé. Mago che vive fuori
dell'abitato, in una spelonca, in compagnia di gufi, serpi e
spiriti infernali. Prese poi un grosso sudicio libro, l'aprì, vi
lesse. Successivamente mi prese una mano, mi guardò negli occhi,
mi parlò come se in quel libro leggesse nel mio passato, nel mio
presente, nel mio avvenire.
- Fa attenzione -, mi disse in forma enigmatica. - Veggo salire
il sole, dopo l'incerto chiarore dell'alba, tra i colori
dell'aurora. Sale il sole in un cielo sereno, in un cammino
tranquillo. Nubi sorgono più tardi ad attenuare lo splendore. Più
tardi altre nubi sorgono, cariche di tempesta. Scoppiano le
folgori, rumoreggia il tuono, cade la grandine. Torna dopo la
tempesta il sereno.
Veggo ancora una città, che sorge dal mare. E veggo lontano
altre contrade, altri monti, sui quali si scatena, come un
uragano, l'ira di Dio, l'ira degli uomini. Alti lamenti nei
boschi, rivoli di sangue nei valloncelli, in cui si dissetano i
corvi, si bagnano i serpi.
Veggo ancora una colonna di marmo su uno di quei monti, con un
leone rampante in alto, con molti nomi in essa scolpiti, un nome
in mezzo, a lettere grandi, illuminato da una luce che mai si
spegne.
Tante altre cose veggo, ma come in una nebbia. Per oggi non posso
dire altro. -
M'allontanai da quel luogo, che aveva in sé un non so che di
tetro, molto turbato.
Cosa volle dire il mago di Nepezzano con il suo parlare oscuro?
Virò? Sarò eroe, sarò felice, sarò infelice? Mistero.
Parlami ora tu, Cinzia, illumina con la tua luce la mia anima
turbata, la mia vita oscura."
"Che posso dire? Strane, certo, le parole del mago. Ma per
intanto veggo i banditi con foschi colori, ma risuona pure nel
mio animo la dolce parola che uno di essi vi fece giungere, in
una notte di poesia. In ciò appunto la lotta. Ma io sono venuta
qui, ed è bene dirlo, unicamente per rendere omaggio alla tua
valorosa condotta. La gratitudine, nella umana sensibilità, non
è ancora spenta, e viva è per te, per la notte dei pirati, la
mia gratitudine. Il resto è nelle mani di Dio."
"Posso quindi sperare?"
Cinzia non rispose. Altre visite interruppero quella
conversazione. Poco dopo ella lasciata quella casa, andò a
inginocchiarsi dinanzi alla Madonna, nella vicina chiesa, da dove
uscì rinfrancata, quasi serena.
La sera stessa confidò alla madre il suo segreto, facendo la
storia di quella vicenda sin dal nascere e le confidò le pene, i
dubbi, le speranze.
La madre, pur ricordando che quel Montecchi aveva salvata la
figlia, rimase da quella rivelazione molto turbata. Ben altro
aveva sognata per la sua Cinzia. Correvano voci non sfavorevoli
sul conto di quel giovane; non cessava, nondimeno, di essere
stato uno della montagna.
La notizia produsse sgomento pure nell'animo del padre. Non
s'aspettava che la sorte fosse con lui così nera. La disgraziata
figlia era stata salvata dalle mani dei pirati del mare, per
cadere nelle mani di quegli altri pirati nostrani, non meno
sanguinari. No, no... Eh no! Le conseguenze? Non più purtroppo
le leggi proteggevano i galantuomini; né le autorità, avvilite,
avevano forza di farle rispettare.
Il governo della regione, per il diritto del più forte, era
quasi nelle mani dei banditi, ai quali nulla si poteva negare. Vi
erano stati, per simili rifiuti, rappresaglie terribili. Povera
sventurata figlia!
La notizia, diffusasi nell'abitato, produsse ovunque forte
impressione e molti discorsi. Non poteva essere possibile che
quella giovane, ricca di censo, di bontà e di bellezza dovesse
unirsi ad un bandito. Però... però il caso non era tanto
disperato, non trattandosi d'un comune bandito. Il pretendente,
come si sapeva, era colto, essendo stato in seminario; era ricco,
avendo ereditato a Santo'Omero i beni del capo Geronimo; era
valoroso, e una sicura prova l'aveva data nella stessa Mosciano,
nel conflitto con i pirati. E la natura, in quanto al fisico, non
gli era stata avara. Si doveva in ultimo tener conto del suo
ritorno, con il gradimento di Napoli, nella comune regolare vita.
Quanto accadeva a Mosciano, accadeva pure a Cellino, a Campli. Ma
Santuccio a Campli trovò un valido aiuto nel reverendo don
Marzio, zio della forte Barbara. Anche i banditi erano uomini.
D'altra parte chi avrebbe osato opporre un rifiuto alla loro
richiesta? Introdurre simili personaggi poteva costituire,
finalmente, nelle tre famiglie, elementi di sicurezza.
Concorrevano a far vincere gli ultimi scrupoli le tre giovani,
che ragionavano soprattutto con i diritti del cuore.
E le nozze, successivamente, si celebrarono come nozze di felicità.
CAPITOLO QUINTO: Le bande che ricacciano in mare i pirati tornano
alla montagna. Riunione e nuova discussione tra il preside
Torrejon e Giancarlo de Adamnis. Nuovo arrivo di truppe a Teramo.
Le autorità di Teramo, da tre anni tranquille, erano di nuovo
turbate: il bandito Salvatore Bianchini, dopo la partenza per
Napoli del vicario Porzio Aniello, era tornato, con i suoi
uomini, alla montagna.
Anche se facinoroso, sentiva il rimorso dei sette compagni
offerti, in un momento di smarrimento, al capestro della
vendetta. Era vero che tanto Sciacqua di Montepagano quanto Carlo
Vitelli avevano tenuto, nei confronti delle altre bande, una
condotta di sopraffazione; ma era anche vero che trattandosi di
compagni di lotta e di pericoli si sarebbe dovuto tutto
perdonare, cercando con l'aiuto del padre Fulgenzio di
ristabilire con essi buone relazioni.
Ogni qualvolta poi che s'avvicinava alle sette porte gli pareva
di vedere ghignare al palo, con sguardo torvo di sangue, i sette
impiccati e gli pareva d'udire con voce di tomba: - Traditore!
Vile! Vendetta! Vendetta! -
Tornava indietro spaventato, depresso, senza che potesse
liberarsi dalla terribile visione. Decideva di fuggire da quel
luogo maledetto, e una notte i teramani intesero un insolito
movimento di persone nella strada, calpestii affrettati, voci
sommesse. Non erano tranquilli anche se ben chiusi nelle case.
Non s'era mai sicuri, in nessun posto, in quei torbidi tempi.
Cessarono a una certa ora i rumori; non cessarono le
preoccupazioni. Si rinfrancarono quando, all'alba, la campana
maggiore del Duomo suonò l'Avemmaria. Ma a giorno fatto
s'avvidero che la banda di Salvatore Bianchini non vi era più.
Anche sulle altre bande, sempre irrequiete, con si poteva fare
assegnamento. Quella di Titta Colranieri, la più numerosa,
anch'essa, abbandonando Cellino, s'era ritirata nella robusta
roccia di Poggio Umbricchio. Le bande del Lucidi e del Montecchi,
per non chiare ragioni, s'erano rifiutate di trasferirsi a
Teramo. Se ne presentiva la defezione. Le altre, quelle degli
impiccati, ricostituite, si rendevano ogni giorno più
pericolose. Giungevano frequenti notizie di aggressioni,
saccheggi, uccisioni.
In una nuova riunione, presieduta dal preside Torrejon, si
esaminarono a Teramo le nuove non facili condizioni. Dai banditi,
ai quali, con l'indulto, erano state fatte tante concessioni, non
vi era più nulla da sperare. I loro istinti, come quelli dei
lupi, li riconduceva, forse contro la loro volontà, alla vita
delle caverne. Era ormai ora di finirla con essi, con la malfida
poco onorevole alleanza. Non più per distruggerli azioni
isolate, ma d'accordo col confinante Stato pontificio, azioni
coordinate e forti. Napoli ne era ormai stanca e dava tutti i
mezzi per poter concludere in breve tempo la lotta. Intanto
sarebbe stata costituita una milizia volontaria di cittadini per
poter proteggere le loro case, le loro donne, i loro beni.
A Campli e a Mosciano, per il modo come vi si viveva, pareva che
niente altro vi si dovesse desiderare. Pareva, ma non era. La
defezione delle altre bande indultate ridestava negli altri
agitazione, turbamento. La nostalgia delle avventure e della
montagna prendeva un po' tutti. Il Lucidi e il Montecchi
sentivano, inoltre, attorno a sé freddezza, diffidenza.
Avvenivano nelle loro famiglie discussioni talvolta penose.
Una sera Cinzia, turbata, disse a Giulio:
"Dimmi che non mi lascerai. Dimentica una buona volta la
montagna maledetta, che tanto ti tormenta. Se gli altri, sospinti
come tu dici dal fato, vi sono tornati, dimostra tu di essere più
forte di essi, più forte del fato. Resta vicino alla tua donna e
ai tuoi figli e in questa casa in cui, in una notte di luna,
portasti il canto d'amore."
"Tu sei buona, Cinzia. Il cielo doveva riservarti sorte più
benigna. Non lo nascondo: la più aspra lotta si combatte in me,
in questi giorni. Una forza diabolica scuote la mia volontà e le
parole dello stregone di Nepezzano risuonano vive nel mio
spirito. Vi dovranno essere dunque nella nostra vita vicende tali
da far ricordare le strane parole? Lotterò a ogni modo per la
nostra pace."
Per quel giorno gli affanni si calmarono, non le preoccupazioni.
Cadeva nel maggio larga benefica pioggia quando a notte inoltrata
fu bussato a una delle porte secondarie della casa di Giulio.
Allorché aprì, si trovò dinanzi Santuccio, che egli accolse
con festa, pur presentendo, per il tempo e l'ora, non buone
notizie. E le notizie non erano buone. Napoli e Roma, scosse
dagli ultimi eventi, s'erano messe d'accordo per estirpare i
fuorilegge, ovunque si trovassero. Verso l'Abruzzo, secondo
quanto avevano riferito sicuri informatori, marciavano, con
numerosa artiglieria, truppe scelte e briganti calabresi
indultati. Anche le loro bande, che non inspiravano più fiducia,
erano in pericolo. Bisognava, quindi, per sottrarsi in tempo a
sorprese, tornare subito alla montagna. Era un'altra piccola
bufera da affrontare serenamente e superare.
"Hanno disseminato spie ovunque i governatori" diceva
Santuccio "per sorvegliare le nostre mosse. Dobbiamo usare,
per evitare incidenti, molta prudenza. Ieri tutti ci
applaudivano; domani, in disgrazia, potremmo essere considerati
dal popolo, sempre volubile, cani randagi da massacrare.
La mia banda è stata già raccolta a Boceto. I tuoi si
dovrebbero trovare colà nella notte di domani per proseguire
insieme per Rocca Santa Maria.
Vengano dopo lassù e spagnuoli e napoletani e calabresi.
Ecco le ragioni di questa mia visita, in un'ora così tarda, in
un tempo così cattivo."
"Avevo già il presentimento di quanto sta per accadere,
caro Santuccio. Accettiamo la nuova sfida con animo sereno.
M'addolora solo il pensiero di dover lasciare, quasi senza
protezione, la buona compagna e i cari figli. Nelle sere scorse
parlavo con Cinzia sull'eventualità di un nuovo allontanamento.
Ne seguivano scene commoventi."
Santuccio a sua volta faceva presente che identico era il suo
caso, ma per i fini ultimi occorreva tutto accettare con
rassegnazione. Assicurava poi la Cinzia, quando comparve, che il
distacco sarebbe stato di breve durata. Si trattava per allora di
raccogliere in una sola località tutte le bande, per poi
patteggiare, con una certa forza, con i governativi. Raggiunto
l'accordo sarebbero tornati a godere la gioia della famiglia.
Per diradare un po' le ombre e ravvivare lo spirito, Santuccio,
piacevole nella narrazione, raccontò, mentre cenavano, alcuni
episodi della vita di seminario, tra l'altro che una notte,
indossati camici bianchi, quelli che si usano per le processioni,
si misero a correre chiassosamente dall'uno all'altro dormitorio.
Ne nacque un baccano indiavolato. A mano a mano che i compagni si
svegliavano balzavano dal letto, gridando, invocando aiuto.
Spiriti, ladri, banditi? Le urla giunsero lontano. Si corse alla
campana. I rintocchi lenti, in quell'ora tarda, misero in
subbuglio la città. E urla s'udivano fuori, rumori strani, colpi
di archibugio. Gli armati, evidentemente, s'erano messi pure essi
in movimento.
Vista la mala parata i due si liberarono dei camici e s'unirono
nel baccano agli altri.
Si fecero il giorno dopo, dalla fervida fantasia popolare, le più
strane congetture.
Conclusa la sua missione Santuccio uscì nella notte e nella
pioggia per tornare, con la sua scorta, a Boceto.
Giulio Montecchi, non appena giorno, iniziò i preparativi della
partenza che avvenne, con la sua banda, a tarda notte.
Mentre i banditi, riuniti a Rocca Santa Maria, studiavano i loro
progetti, a Teramo s'adunarono, presso il preside Torrejon,
autorità e maggiorenti. I più sostenevano la necessità, ciò
che faceva molto piacere allo spagnuolo, d'una energica azione
per restituire pace alla provincia.
"E' davvero doloroso", osservava il Torrejon,
melanconicamente, "vedere le fabbriche chiuse, il commercio
spento, i campi deserti, la miseria ovunque. I banditi, causa di
tanta rovina, dominano per la nostra debolezza. Per finirla
occorrono metodi forti: arrestare, deportare, distruggere,
uccidere; ciò che noi fare e ne avremo i mezzi. Il Santo Padre
manderà, per questa lotta risanatrice, anche sue truppe.
"Mi dispiace per il Santo Padre" replicava Gian Carlo
de Adamnis. Ma debbo dire anche a voi, come già dissi al vicario
Aniello Porzio, che il banditismo non esisterebbe se non
esistesse il vostro malgoverno. Non ai banditi si deve attribuire
la distruzione di tutte le nostre attività da voli lamentata, ma
alla vostra voracità, alle vostre gabelle, contro le quali
insorse testé violentemente il popolo napoletano. Le vostre
truppe, funeste sanguisughe, o meglio vampiri insaziabili,
completano l'opera.
Tempo fa, e voi non lo potete ignorare, mentre i vostri soldati,
i vostri ufficiali si davano, a nostre spese, alle più pazzesche
crapule, i nostri bambini, se non volevano morir di fame,
dovevano cibarsi di erbe guaste.
Il nostro popolo non è cattivo. Ama la libertà, ma sa anche
adattarsi, in taluni casi, se non vi sono abusi, alle catene
della straniera dominazione."
"Io non so chi voi siate e con quale autorità parliate, ma
non mi è difficile smentire le vostre affermazioni: voi, di
natura anarchica, siete ribelli a ogni governo."
"Voi mentite e vi provo che qui si sa rendere omaggio a
qualunque governo purché inspiri i propri atti a sensi di umana
giustizia, come fu al tempo della regina Giovanna.
Le generazioni si tramandano, invero, con simpatia il racconto
delle accoglienze fatte a lei quando volle visitare la nostra
città. Si ricorda che entrò in essa a cavallo, con una lussuosa
scorta, al suono festoso delle campane, tra l'entusiasmo del
popolo. Commoventi furono le manifestazioni d'affetto fatte, in
quella occasione, alla buona regina.
Che ne dite? Si inizi pure la nuova lotta. Non servirà che a
procurare nuovo spargimento di sangue, nuovi desideri di
riscossa. Questa è la verità. Molti dei miei cittadini non
approveranno, a vostro conforto, queste mie franche parole. Il
timore di nuove sventure può rendere deboli anche animi
generosi.
Se voi Preside possedete doti superiori non potete non
comprendere e non approvare queste mie considerazioni."
"Non vi posso comprendere", rispondeva il Vicario
"cittadino de Adamnis, anzi mi meraviglio che abbiate osato
di fare, dinanzi a me, un tale discorso. Io sono qui, e non lo
dimenticate, non per fare vane chiacchiere, ma per distruggere,
come sarà distrutto, il banditismo."
Concluse la pubblica discussione, il Torrejon, licenziati i
malfidi cittadini, rimase con le sole autorità, alle quali
espose il suo piano contro la montagna.
Non poteva però la sera, mentre godeva gli agi d'una ricca
dimore, non ripensare alla tracotanza di quel tale de Adamnis,
amico certo dei banditi, che avrebbe dovuto fare senz'altro
arrestare.
Non capiva inoltre come in un così vasto campo di morti vi
potessero essere ancora segni di vita. Fuochi fatui, senza
dubbio, destinati a spegnersi non appena sprigionati dall'umida
terra. L'Italia, terra classica di poltroneria, poteva essere
brava a produrre cantastorie per le piazze; giullari per le
corti; banditi per le grassazioni, ma non soldati per le patrie
rivendicazioni.
Il generoso de Adamnis, dopo la legittima sfuriata, tornò alla
casa solitaria, dove era atteso con ansia e preghiera.
Una sera che era rientrato più tardi, nel buio più fitto, la
buona compagna non poté non manifestare il suo stato agitato. Ne
seguì una discussione accorata, ma pacata. L'uomo, come egli
affermava, si trova spesso a lottare con quei doveri che potevano
avere, di volta in volta, per particolari ragioni, il sopravvento
gli uni sugli altri: doveri di patria, di religione, di famiglia,
senza possibilità di scelta.
E il discorso continuò, ansioso e tenero, sino a quando su di
loro non scese, nel riposo del letto, il sonno.
Nei giorni seguenti la città vide giungere truppe, con grossi
numerosi cannoni, per la nuova battaglia. Ma anche nell'altro
campo non si dormiva. Come primo atto i capi condussero le
proprie famiglie, per maggiore sicurezza, a Poggio Umbricchio,
vero nido di aquile, su rocca inespugnabile, ove riempivano le
ore d'ozio e di fastidio con passeggiate, con letture e col
racconto di leggende, molte delle quali si riferivano alla
vallata del Vomano.
CAPITOLO SESTO: Riunione di bande a Rocca Santa Maria. Festa.
Nuova sconfitta degli spagnuoli.
Altre truppe spagnuole intanto erano giunte, alle quali Teramo,
la città frivola, come la chiamavano, aveva tributato festose
accoglienze.
Grave decadenza italiana.
Nella riunione di Rocca Santa Maria, ai compagni di lotta,
Santuccio aveva detto:
"Abbiamo ripreso le armi, amici, e non dovranno essere
deposte se non quando le nostre mete non siano state raggiunte.
Non possiamo sempre vivere alla macchia, da banditi; né possiamo
tornare, nelle attuali pietose condizioni, sotto l'impero di
assurde leggi. Vogliamo rientrare nella società, si, ma dopo di
aver creata, in mancanza di quella italiana, come era nel sogno
del bisnonno di Marco Sciarra, la repubblica aprutina.
Se la minuscola Senarica, la 'Serenissima sorella' di Venezia,
riuscì per il suo valore, per il proprio territorio, a tanto,
perché non dovremmo riuscirci noi? Ferrea volontà, unione
d'intenti, perfetta concordia e il cielo sarà con noi."
"Sarà con noi" replicò il Montecchi "se saremo
uniti. Hai illuminato di viva luce la nostra via e il nostro
avvenire. Dobbiamo impegnare tutte le nostre forze per dare alla
nostra vita uno scopo, alle nostre donne uno stato felice, ai
nostri figli uno stato onorato."
"Ma non ho detto tutto" aggiunse il Lucidi. "Non
ho detto che a mezzo del doge di Senarica, appunto, mi sono
rivolto per aiuti al doge di Venezia. La Serenissima, anche a
ricordo delle prestazioni militari del bisnonno, ha fatto le sue
promesse.
Dopo, con le nostre bande, andremo a difenderla dai nemici, che
la minacciano da ogni parte."
Questo tra l'altro era stato detto a Rocca Santa Maria, ove si
decise pure di festeggiare la vigilia dei nuovi eventi.
Sull'alba serena del nuovo giorno il suono di corni corse di
poggio in poggio, di valle in valle, di monte in monte per
chiamare a raccolta. E gente si mosse e arrivò da ogni parte,
spigliata, allegra, vestita a festa. I giovani, freschi come la
primavera che fioriva, dal cinguettio vivace come quello degli
uccelli, formarono qua e là gruppi allegri.
Chiaro appariva, in quel movimento, il ripopolamento della
montagna, nella tregua delle armi.
Non mancò padre Fulgenzio a risollevare gli animi con la sua
parola di fede, d'amore, di speranza. Dopo la messa, celebrata
all'aperto, si fece la processione propiziatoria. I giovani
aprirono una viva gara, con offerta di danaro, per il trasporto a
spalla, delle statue dei santi.
E la processione si svolse, nel fresco passeggio, tra canti e
pioggia di fiori.
E allegra fu la colazione consumata, sul mezzogiorno, su i prati,
su i poggi, entro i valloncelli, tra gli alberi. E i canti
risposero ai canti, in gara poetica, in cortesia d'amore. L'anima
popolare vi si sentiva, come si sentiva lo stormir delle foglie,
il gorgoglio delle fonti, la musica della foresta, nella
commovente spontanea semplicità.
La festa continuò, spensierata e rumorosa, con giuochi e danze,
per tutto il pomeriggio. In sulla sera, il giuramento di fedeltà
alla montagna, l'adunata si sciolse, mentre sulle cime dei monti,
come per comando, s'accesero grandi fuochi.
E a Rocca Santa Maria, dopo non molto, Santuccio, rimasto solo,
sbaragliò con la sua banda i quattromila governativi lanciatigli
contro, catturando un convoglio di viveri che andò ad arricchire
le proprie scarse provviste. In seguito, insieme al Colranieri,
disceso da Poggio Umbricchio, andò a fugare gli iberici da
Montorio.
Le truppe pontificie, prudentemente, non s'erano mosse dalla
fortezza di Civitella, occupata nel loro giungere.
Il borioso Torrejon, rientrato sconfitto, disse in un'altra
riunione:
"Sono confuso e insieme meravigliato, amici. Non credevo che
i banditi avessero tanto ardimento e capacità, senza difettare
di spirito di cavalleria. Non hanno incrudelito contro i
prigionieri, anzi li hanno restituiti senza offenderli. Hanno
curato i feriti, seppelliti i morti con cristiana pietà. E' un
vero peccato che gente così brava viva fuori delle leggi. Coloro
che si adoperassero per il loro ritorno nell'ordine dello Stato,
acquisterebbe diritto alla più viva riconoscenza, da parte di
tutti.
Le parole questa volta erano state più serene, nessuno, quindi,
dei presenti, mosse obiezioni. Ma mentre a Teramo gli spagnuoli
piangevano sulle sconfitte, a Poggio Umbricchio si festeggiavano
le ultime vittorie.
Si iniziava la festa, come a Rocca Santa Maria, con una messa
celebrata pure da padre Fulgenzio, nella piccola chiesa, scavata
in roccia. Il dotto religioso, spiegando l'evangelo, aveva modo
di esaltare, con la dottrina cristiana, l'amore che si deve
nutrire per il prossimo, per la famiglia, per la patria. E diceva
che era sempre grande questa nostra Italia, anche nella sventura.
Grande perché aveva dato, con l'impero di Roma, nuove leggi e
nuova civiltà al mondo. Grande perché aveva accolto nella sua
capitale il Vicario di Cristo, illuminando con immensa luce la
via della redenzione. Grande perché aveva elargito nel medioevo,
con il divino genio, nuove bellezze all'ansiosa umanità.
Si compiacque, inoltre, per la severa lezione inflitta agli
spagnuoli, profanatori, con tutto il loro bigottismo, del vero
tempio di Dio. Si compiacque soprattutto per la nobile condotta
tenuta nei loro confronti, dopo la vittoria.
Non bisognava mai incrudelire sui vinti, mai spargere sangue per
brutalità.
Si trascorse la giornata in serena gioia. Si cantarono in coro i
canti sgorgati, come fresche polle, dall'anima popolare e si ballò.
Grossi fuochi s'accesero pure la sera, come per san Giovanni, su
quel fatidico poggio.
Si chiuse la festa a tarda ora, con un inno di ringraziamento
alla divinità, verso la quale rivolsero fiduciosi il loro ultimo
pensiero.
"La Spagna dimostrerà tra breve, anche ai banditi del
Martese, la sua decadenza!" così, con velenosa ironia, il
preside Torrejon aveva detto a Teramo.
Pareva che questa volta, con la nuova offensiva, volesse giungere
a risultati conclusivi. Nel mentre da una parte allargava la
distruzione, dall'altra apriva strade, costruiva ponti, spianava
ostacoli per il passaggio delle truppe e delle armi. Se fosse
riuscito a portare i cannoni, temuti dai banditi, nel cuore della
montagna, la partita, secondo lui, sarebbe stata vinta.
Ma altro lavoro condusse lo scaltro Torrejon, forse più
proficuo, presso quelle bande disposte a vendicare col tradimento
l'impiccagione di Sciacqua di Montepagano e di Carlo Vitelli.
Aumentò nel medesimo tempo le taglie, che pesavano sulla testa
dei capi.
Anche i nostri, che seguivano con molta attenzione i forti
preparativi, non stavano in ozio.
E la lotta fu ripresa, poco dopo, con la massima durezza. A un
certo momento le bande, per meglio sconcertare il nemico, si
dettero alla insidiosa guerriglia.
Comparivano improvvisamente a Pescara, a Montesilvano, a Città
Sant'Angelo e in altri centri. Così tutti i giorni. Titta rimase
però con i suoi a Poggio Umbricchio, a protezione delle famiglie
che vi si trovavano.
I governativi anche essi, per sottrarsi ai continui agguati,
dovettero cambiare tattica. Costituirono reparti speciali, da
mandare contro i capi, per la loro eliminazione. Una notte,
invero, avvolsero, in silenzio, Cerquito, ove si trovava, con la
sua banda, Santuccio. In sul far del giorno il cerchio si poteva
considerare chiuso, inesorabilmente.
Nel medesimo tempo, un corpo di calabresi accerchiarono, a Villa
Lempa, la banda di Salvatore Bianchini.
Molti erano stati i tentativi di Santuccio per rompere il
cerchio, che lo serrava da ogni parte, ma senza riuscirvi. Vedeva
già lugubremente la sua fine. Il Torrejon, con i mezzi che
aveva, non si sarebbe fatto più sfuggire la preziosa preda, che
doveva dare fama al suo nome, ricompensa alla sua opera. Ma il
Bianchini, rotto con impeto irresistibile la propria rete,
accorse a liberare dalla ferrea morsa lo sventurato compagno.
Ricongiuntisi festosamente misero in fuga le truppe spagnuole.
Gli sconfitti non ripresero fiato che a Teramo. Non poté in tal
modo il Torrejon, che comandava la spedizione, comunicare a
Napoli, come aveva sperato, la vittoria. Per qualche giorno,
nella sua avvelenata mortificazione, non si fece vedere. Ma la
lotta non finì a Cerquito. Si riaccese più violenta, poco dopo,
attorno a Poggio Umbricchio, a difesa della quale stava sempre il
Colranieri, altra preziosa preda.
Poggio Umbricchio! Terra benedetta, carezzata dalla brezza,
scendente dai monti; cullata dai canti uscenti dalle foreste
secolari; rallegrata, dal basso, dal mormorio delle acque fluenti
verso il piano.
Poggio Umbricchio! Punto luminoso, sorgente tra monte e monte,
ricco di leggende, baciato dalla gloria.
Poggio Umbricchio! Teatro di epopea, altare di eroismo,
suscitatore di alte virtù umane e nazionali.
Tu sarai ricordato, con commossa ammirazione, sino a quando il
valore luminoso dello spirito non sarà vinto dalla fredda opaca
materia, ciò che mai avverrà.
Da tre giorni la battaglia infieriva su quel poggio, sul quale
cadeva, dalla mattina alla sera, una tempesta di proiettili.
Quantunque di quel castello poco rimanesse, pur nessun segno di
debolezza vi mostrarono i difensori, ai quali a mano a mano
venivano a mancare acqua, munizioni, viveri.
Gli assalti, dopo il diroccamento, prodotto dalle grosse
artiglierie, si susseguivano con truppe sempre fresche, con
violenza sempre maggiore. Alle rovine, in ogni nuova ora,
succedevano nuove rovine.
In quella memorabile difesa le donne, che vi partecipavano, si
dimostravano degne compagne delle donne di Civitella, di Cellino
e della gloriosa repubblica di Senarica. Accorrevano con la
parola, con l'esempio, con le armi, serene e forti, ove maggiore
appariva il pericolo. Gli stessi adolescenti stavano saldi, con
le armi, tra le macerie insanguinate. Pareva che tutti volessero
perire con la rocca gloriosa, anziché cadere nelle mani del
nemico, imbestialito dinanzi alla leggendaria resistenza. Gli
stessi bambini, condotti nei sotterranei, sembravano consapevoli
della grandezza dell'ora.
Da otto giorni durava la micidiale battaglia, quando fu sospesa,
per tacito accordo, per raccogliere i feriti, per seppellire i
caduti, già in disfacimento, per trattare la cessazione della
lotta.
"Voi, fiero popolo abruzzese" disse al Santuccio il
Torrejon, nel convegno, "avete dimostrato di possedere alte
virtù civili e militari. Sino a questo momento la vostra
ribellione vi può fare anche onore e potete essere anche
esaltati dai vostri per la fermezza e il valore. Io guardo a quel
poggio con commossa ammirazione. Tra non molto sarà un cumulo di
macerie fumanti. Vi sono molte donne, come so, in quella rocca;
vi è la vostra donna, vi sono i vostri figli.
Su quel poggio i difensori hanno acceso, senza dubbio, una
fiaccola che forse non si spegnerà nei secoli. Lo riconosco
francamente. Ma ora basta. Cessate, ché continuando nella lotta
che non può avere vittoria, cambiereste in grave colpa la vostra
inutile resistenza.
Il mio signore è benevolmente disposto a ridare a voi, con larga
amnistia, i vostri diritti di cittadini liberi. Riflettete bene
prima di rispondere e pensate che le nostre leggi sono ferree,
come ferree erano quelle di Roma. Dinanzi ad una ulteriore
sconsigliata resistenza la clemenza si potrebbe mutare in forti
azioni. Voi mi intendete."
"Non occorre, Preside, possedere molto acume per comprendere
il significato della vostra adulazione, la gravità della vostra
minaccia. Né l'una né l'altra può influire sul nostro
carattere. Sappiate, a ogni modo, che se i nobili si sono
vergognosamente piegati al vostro volere, la detestabile
'canaglia', come vuoi vi compiacete di chiamare il popolo,
insorge, invece, e vi combatte. Lasciateci liberi, quindi, tanto
più che il vostro malefico dominio, su una parte del mondo, di
poco supererà il nostro secolo. Neri nubi già si addensano sul
vostro cielo."
"Voi farneticate, presuntuoso bandito.", replicò il
Preside. "Non più tregua, da questo momento, alle nostre
azioni, e le più spietate."
"Vile satellite d'una razza maledetta", ribatté
Santuccio. "La forza delle armi vi può ancora dare ragione,
ma il vostro destino è segnato, nella forca dei malfattori.
Miserabile d'uno sciagurato." E dopo una pioggia di altri
improperi uscì, sbattendo violentemente la porta del locale,
entro cui avevano parlato.
Dopo tale episodio, caduta la speranza per un bonario accordo, fu
ripresa violenta la lotta. Santuccio e i suoi amici non si
facevano ormai più illusioni sul suo esito. Ma mentre nubi
oscuri s'addensavano sul loro capo una luce giunse dal fondo
dell'Adriatico a confortare lo spirito scosso.
Il doge di Venezia aveva risposto, per quanto li riguardava, al
doge di Senarica. La lettera, prezioso documento storico, tra
l'altro diceva:
Il senato di San Marco ha molto gradito il saluto della
Serenissima Sorella ed ha letto attentamente il suo messaggio.
Venezia ricorda con gratitudine la fiera terra che nel passato,
in un momento di pericolo, mandò generosamente in suo soccorso i
lupi delle sue montagne, i quali, dopo avere sconfitto in Croazia
i famigerati uscocchi, concorsero a mantenere, con il possesso di
Candia, alto l'onore delle armi italiane.
Bravi soldati. Se tutti operassero come i due militi che voi ogni
anno, in onore dei nostri patti e del vostro impegno, qui
mandate, i saraceni e altri nemici non avrebbero più tanta
tracotanza.
Noi sappiamo che Roma si mostrava poco grata verso gli altri
popoli, dai quali era stata aiutata nelle sue memorabili
conquiste. Ma sappiamo pure che un piccolo popolo di codesta
terra, insorgendo, la rinsaviva.
Il concetto di quel popolo che prima gridò il santo nome
d'Italia era ripreso, nel generale sfacelo, dopo molti secoli, da
un'altra piccola città uscita dal mare, adottando il fatidico
motto, o quasi, della Lega Santa: - Italia e libertà. -
La vostra Corfinio costituisce una luce, eternamente accesa,
nell'epopea dei popoli. La repubblica di Venezia costituisce oggi
un nucleo centrale di una splendida nebulosa, in ansioso lavoro,
per attrarre e fondere insieme tutte le sparse molecole
nazionali.
La repubblica marinara sarebbe grata alla repubblica dei monti se
si adoperasse a far giungere in suo aiuto, per la propria difesa
e per il raggiungimento delle sue mete, le nuove bande, tratte
dal suo fiero popolo.
Dopo, anche le bande del Martese potrebbero avere da noi l'aiuto
necessario, per le loro conquiste."
Avete inteso, amici? Teramo, secondo il torvo Preside, ha
preparato per noi il capestro; Venezia, con generoso nazionale
spirito, ci offre la gloria. Andremo a Venezia. Però, dobbiamo
chiudere prima con onore i conti, da riaprire, con i nostri
nemici, in altro tempo migliore".
Dopo la lettura della lettera e il commento, poiché la tregua
era scaduta, ognuno corse a riprendere, a capo della propria
banda, il posto di combattimento.
Ma quasi contemporaneamente altra riunione avveniva, in altra
località, di altri capi banditi.
"Io ero, quale sottocapo, nella banda ci Sciacqua di
Montepagano e mi trovavo a Teramo, nella notte tragica"
iniziò il suo discorso Egidi della Nocella. "E' vero che
nell'adunata di Frondarola vi era stato un grave contrasto; ma ciò
non doveva indurre i dissidenti ad agire con tanta ferocia contro
di noi. Bambinescamente puerile, attribuire la causa delle nostre
sventure al canto della civetta.
Ben altre furono le ragioni di quella infamia. Io, che mi trovavo
a Teramo nella notte tragica, sfuggi per miracolo al vile
agguato. Mi salvai e vidi i nostri appesi agli alberi, come
bestie maledette. Vidi il nostro capo che, nella robusta maturità,
mi fissava con due occhi terribili. Nel passargli vicino, pareva
che mi dicesse: - Vendetta, vendetta, compagni! -
Chiedeva vendetta, non ancora compiuta.
Tante volte mi è tornato in sogno, accigliato, sdegnato per il
nostro ritardo. Tante altre volte vedendone l'ombra nel bosco ne
ho ancora riudita l'affannosa invocazione: - Vendetta, vendetta.
- E vendetta sia. Continuare nella disperata vita di bandito non
è più possibile, quando poderose forze governative stringono
intorno a noi sempre più fitta la loro rete e le nostre famiglie
languono in un lurido carcere, in attesa di deportazione.
Il preside Torrejon ci offre, in compenso della nostra resa,
restituzione delle nostre famiglie e dei nostri beni, assunzione,
con i nostri gradi, nelle forze armate del vicereame. Le
condizioni sono buone e noi potremmo migliorarle con certi altri
nostri atti. Sangue richiama sangue. Sette furono i nostri a
ghignare, lividi, alle sette porte; sette dovranno essere le
teste di coloro che dovranno placare l'ira, nel sepolcro senza
pace. E da ognuna di quelle teste cadrà nelle nostre tasche una
pioggia di ducati d'oro.
- Tutti i nodi arrivano al pettine - dice un antico proverbio.
Non potranno questa volta non arrivare al nodo scorsoio le teste
orgogliose dei padroni della montagna."
"Bene hai parlato, o Egidi della Nocella", gli rispose
Giuseppe Lucenti, "confesso però che riprovo ciò che è
accaduto e ciò che sta per accadere. Noi corriamo verso la
totale rovina. Altro era il nostro programma, altra la nostra
fede, altre le nostre speranze.
Gravi possono essere i torti degli altri, più gravi saranno le
conseguenze della pugnalata che stiamo per vibrare loro alle
spalle. Un tal fatto non trova riscontro nella nostra storia. A
Frondarola essi lanciarono la sfida a viso aperto; qui invece si
trama come tramano i briganti nella notte, dietro le siepi, per
assalire il viandante.
Saranno vendicati, si dice, gli impiccati di Teramo. Magra
soddisfazione quando a guadagnare non sono gli impiccati, ma
saranno coloro che ci considerano degni solo di catene e di
bastone. Ancora una volta gli italiani, col distruggersi, nella
loro demenza a vicenda, avranno rafforzata la potenza straniera.
Questa è la verità!"
"Può essere la verità", aggiunse al già detto
Egidi", ma noi non abbiamo altra alternativa: o arrenderci o
perire con tutti i nostri. Domani andremo in città a fare atto
di sottomissione e tutto sarà finito."
Il giorno dopo la resa, alle condizioni pattuite, era un fatto
compiuto.
Tra le defezioni quella di Salvatore Bianchini apparve la più
grave. I governativi poterono così concentrare i loro sforzi,
con sicuro successo, su le altre tre bande, in modo particolare
su quella del Colranieri, che continuava nella eroica difesa di
Poggio Umbricchio.
In città questi ultimi avvenimenti produssero effetti contrari.
Fecero festa, chiassosamente, come per una propria vittoria, la
ciurmaglia pagata e coloro che parteggiavano per gli iberici. Si
udì pure il suono a festa delle campane, ma non di tutte, ché
molti bravi sacerdoti s'erano opposti che la voce di Dio s'unisse
al clamore della venduta canaglia, la quale, dopo la chiassosa
dimostrazione di giubilo all'indirizzo dello straniero, andarono
a insultare l'integro italianissimo de Adamnis.
Non poté non fare il nobile cittadino, sul triste caso, con la
mite compagna, le sue penose considerazioni. Non aveva fatto mai
del male, aveva fatto sempre del bene e un vivo amor di patria
ardeva nel suo cuore. Ed ora era là sotto una pioggia di volgari
insulti e di minacce.
Sorte comune agli onesti, agli apostoli della carità, dei santi
umani ideali.
CAPITOLO SETTIMO: Resa, dopo eroica resistenza, di Poggio
Umbricchio. Attesto delle famiglie dei capi banditi. Cattura di
ufficiali spagnuoli.
Il cerchio si stringeva sempre più attorno alle bande rimaste a
sostenere da sole, senza molte speranze, le proprie ragioni. I
signori di Spagna potevano ancora trionfare, ma soltanto in forza
del numero e della potenza dei mezzi distruttivi.
Mai nei secoli la silenziosa vallata del Vomano, che aveva pure
visto le legioni di Roma e di Cartagine, era stata turbata da
tanto fragore. Le palle degli obici e dei cannoni continuarono a
cadere sul poggio col rumore della tempesta, con la potenza della
folgore. Non rimaneva in piedi, in tanta rovina, che la piccola
chiesa, dove officiava padre Fulgenzio, rimasto con i difensori.
Nel mentre sulla montagna alcuni italiani, con serena fermezza,
imponevano rispetto allo straniero, a Teramo altri italiani, se
così si potevano chiamare, con vile animo ripetevano il
tradimento di Giuda.
I fedifraghi erano stati raccolti dal Preside, presso di sé, per
l'elogio. Con il loro atto, diceva, avevano dimostrato di
possedere molto giudizio. La Spagna, con i vasti possedimenti, si
poteva ritenere l'erede legittima di Roma. Il potente suo
esercito correva vittorioso da un punto all'altro della terra a
difesa anche della romana Chiesa, seriamente minacciata.
Cosa potevano fare essi, miseri pigmei, dinanzi a un tanto
colosso? I pochi stolidi, che ancora sopravvivevano, sarebbero
stati frantumati come invisibili insetti, sotto il calcagno
ferrato di un gigante. Ma per far presto dovevano pure dare la
loro opera. Essi, pratici dei posti, sarebbero dovuti andare
avanti, per scovare la preda. Gli altri avrebbero fatto il resto.
Gli rispondeva, contrariato, Giuseppe Lucenti, dichiarando che
non poteva mai pensare, nel discendere dalla montagna, si volesse
ad essi affidare un compito così odioso. Non sapeva gli altri
cosa ne dicessero. Egli, per conto suo, non desiderava che di
essere lasciato in pace.
"E sarete lasciato libero", replicava il Torrejon. Vi
volevo dare un onorifico redditizio posto nelle forze armate del
vicereame, non dovendo il buon cittadino starsene alla finestra,
mentre gravi eventi si svolgono intorno a lui. Su, non vi perdete
in sciocchi scrupoli. Tuffate senza ritegno le mani nello scrigno
della felicità. Si dice male dell'oro, ma solo per giuoco di
parole e da chi ne è senza. L'oro rischiara la vista, rasserena
lo spirito, muta la mestizia in sorriso, il dolore in letizia, la
vecchiaia in giovinezza. L'oro, anche con notevoli difetti,
innalza, la miseria, anche con grandi virtù, abbassa.
Ed ora andiamo alla festa."
Tutti uscirono; non uscì ancora il Preside. Qualche cosa di
torvo, mentre parlava, aveva rimuginato dentro di sé. L'arresto
immediato di Giancarlo de Adamnis e di Giuseppe Lucenti, i quali,
tolti alle famiglie nel cuore della notte, erano condotti in un
lurido carcere, in attesa di provvedimenti più gravi.
Mentre a Teramo si tripudiava, a Poggio Umbricchio si combatteva
e si moriva per una fede e con la speranza che da quel sacrificio
si potesse trarre il fermento per le sante rivendicazioni.
Ma quando non vi erano più munizioni, né macigni, né acqua, né
viveri; ma vi erano morti da seppellire, feriti da curare,
bambini da salvare si imponeva la resa. Titta però non voleva
cadere nelle mani dei nemici. Conosceva una via, praticata
soltanto dalle volpi e dai lupi, che lo poteva condurre in salvo.
Ma l'addolorava il pensiero di dover lasciare nelle mani di
quella soldataglia tante care persone.
"Voi Titta vi potete allontanare tranquillo" gli disse
padre Fulgenzio. "Io resterò qui a protezione dei deboli,
con la forza che mi deriva dal mio abito. Il valore, d'altra
parte, da tutti spiegato nell'impari lotta, dovrà imporre
rispetto al nemico.
E' pure da tener presente che con il nostro saio, con la potenza
del nostro ordine, incutiamo timore alla Spagna cattolicissima,
che ha molto bisogno di noi. Supereremo, con l'aiuto di Dio,
anche questa prova. Ci rivedremo presto, in un cielo più sereno,
dopo l'oscura tempesta."
Sul far del giorno, mentre la banda, superando l'assedio, riuscì
a raggiungere la sua meta, sul Poggio s'alzò la bandiera della
resa. Quando gli iberici vi giunsero, da vittoriosi, non
trovarono la preda maggiore. Inveirono brutalmente contro i
rimasti, come il religioso.
"Voi, frate", disse uno dei comandanti, "ci
renderete conto di quanto con la vostra complicità è qui
accaduto. Avreste fatto meglio a restare nel convento, per
goderne le gioie nascoste. Avete voluto correre, invece,
bizzarramente le avventure dei banditi e ne pagherete il
fio."
"Non temo minacce, né la morte", rispose senza paura
il religioso. "Mi potete considerare, a vostro piacimento,
bandito, favoreggiatore, prigioniero, ma nessun diritto avete
d'insultarmi. Chi ne avrà il diritto, a suo tempo, mi giudicherà.
Oggi qui voi mi dovete il rispetto imposto dalle leggi e dal mio
abito, modesto nel valore materiale, ma grande nel valore morale,
spirituale.
La mia presenza qui rientra nell'ordine della mia missione. Il
mio posto è soprattutto dove vi sono sofferenze da lenire,
ideali da sostenere, derelitti da confortare, anime da salvare.
Rispettate anche queste donne, gentili nei sentimenti, ferme nei
propositi, eroiche nelle azioni.
Nel caso contrario non mancherà la storia di bollarvi col
marchio d'infamia."
"Siete non poco arrogante, frate", rispose l'altro in
tono vivace. "Vi diciamo, a ogni modo, che noi siamo
soldati, con una precisa consegna da far rispettare, ovunque e da
chiunque. Le prediche non ci interessano. Voi non siete per noi,
nella nostra considerazione, che un volgare bandito, da
assicurare alla giustizia. Ma non più chiacchiere. Si esca di
qui e ognuno dichiari, col nome, la sua qualità."
Ebbe quel comandante un guizzo di gioia, mal repressa, quando
seppe che tre delle donne erano mogli dei tre famosi capibanditi.
La sera di quello stesso giorno s'iniziò la discesa dal poggio
glorioso. Quelle donne, rinchiuse nel carcere di Montorio,
dovevano meditare sui casi della loro vita. La loro educazione
era stata pari alle condizioni delle famiglie in cui erano nate,
ma altri erano stati i sogni della loro giovinezza, altra la
realtà, ma non ne erano scontente.
Titta raccontò a Santuccio, quando lo raggiunse a san Giorgio,
le vicende della lotta di Poggio Umbricchio, la condotta eroica
delle loro donne, chiuse, ora, come sapevano, nel carcere di
Montorio. Dovevano essere liberate, senza ritardo, a ogni costo.
Il giorno dopo furono raggiunti dal Montecchi, che per
sconcertare gli iberici aveva fatto una scorreria sino al fiume
di Pescara. A Cologna aveva sbaragliata una colonna di soldati
spagnuoli, dalla quale era stato attaccato, catturando, con i
soldati, anche tre ufficiali.
Buono il pegno, ma doveva essere migliorato con qualche altra
forte azione. E l'occasione non tardò ad offrirsi. Ad Altavilla
si festeggiava dagli spagnuoli, con il comandante in testa, la
vittoria di Poggio Umbricchio. Erano, con il vino, e con il
canto, nel colmo dell'esaltazione, quando il grido: - I banditi,
i banditi - produsse tra essi una indicibile confusione.
Gli uomini della montagna che, secondo il loro piano, erano
giunti ad Altavilla con fulminea rapidità, messa in fuga la
truppa, corsero a circondare l'edificio, entro il quale si
trovavano gli ufficiali.
"Non usiamo con voi la frase: - Non vi spaventate. - Il
soldato, e voi lo sapete, non deve mai tremare", disse ad
essi il Montecchi. "Vi preghiamo solo di conservare la calma
per poter ragionare.
E' capitato a voi lo stesso infortunio capitato a noi a Poggio
Umbricchio, con la differenza che voi, per arrivarvi, sciupaste
una montagna di proiettili e settimane di tempo; noi siamo qui
giunti in pochi minuti e senza sparare un colpo.
Noi siamo per voi dei fuorilegge. Ecco l'errore. Non siamo,
invece, che soldati dello Stato libero e indipendente della
montagna. Banditi, come ci chiamate, sono i senza patria, coloro
che si sono in questi giorni venduti a vuoi.
Ma tutto questo a voi non interessa. Quel che a voi può
interessare è la vostra liberazione, che potrete ottenere con
l'adoperarvi per la liberazione dei nostri soldati, rinchiusi
nelle carceri di Teramo e di Montorio."
In quello stesso giorno, dopo un'ampia calma discussione, partì
per la città, con molte promesse e molte speranze, uno di quegli
ufficiali. Ma il Torrejon, sempre più arrogante, rispose
negativamente alle offerte fatte. Nessun accordo. I banditi, che
non facevano più paura, avevano un solo mezzo per salvare le
proprie famiglie e gli amici: presentarsi in città con tutte le
armi, o scomparire per sempre dal territorio del vicereame.
"Scomparire per sempre!", disse Santuccio agli altri.
"Razza maledetta, imbastardita dal sangue degli arabi, un
tempo loro padroni. Se altre ragioni non ci trattenessero, ben
altro linguaggio faremmo tenere al novello despota di Teramo.
Ma oggi, toccati nella parte più viva, ci è forza tenere altra
condotta. Se per la salvezza delle nostre famiglie dobbiamo
partire, partiremo. Venezia ci aspetta. Andremo a Venezia, che è
pure italiana, quindi la nostra stessa patria.
CAPITOLO OTTAVO: Conclusione di trattative con gli spagnuoli. Le
bande di Santuccio di Froscia, di Titta Colranieri e di Giulio
Montecchi vanno a combattere a favore della repubblica veneta, in
guerra con la Turchia.
I sogni, cari ai giovani, sono fragili come gigli, tenui come i
colori dell'aurora. La fantasia commossa vi ricama attorno, con
morbida mano, vaghi disegni, rosse lusinghe, ma non tarda la luce
della realtà, come quella del sole sull'aurora, con crudele
compiacenza, a disfare a un tratto la delicata trama.
Avevano i nostri amici, dopo gli ultimi turbinosi eventi, molto
fantasticato, con sereno spirito, sulle future imprese. Ma a mano
a mano che s'avvicinava il giorno che li doveva mettere su altra
via, apparivano sul loro cielo nubi prima non viste: nubi che
s'allargavano, tumultuavano, prendevano forma e colore di
tempesta.
Non poteva non produrre nel loro animo forte turbamento il
pensiero dell'abbandono dei luoghi in cui erano nati e cresciuti
e che raccoglievano come in uno scrigno le memorie, i piccoli
cari tesori della giovinezza e della vita.
E mesto era lasciare, col suono delle acque, il fruscio delle
foreste e la poesia dei silenzi, oltre alle persone amate, i
propri cari monti.
Nell'intenerimento che predispone sempre alla bontà, chiamarono
il comandante e gli altri ufficiali prigionieri per dir loro:
Noi potremmo fare a voi quel che voi avreste fatto a noi, se
vostri prigionieri. Noi banditi pretuziani non lo facciamo.
Questa sera, per nostra libera determinazione, vi faremo tornare
a riprendere il vostro posto, nel vostro governo. Nulla vi
chiediamo in contraccambio. Ognuno seguirà, bene o male, la
propria vita.
Tra non molto noi lasceremo per sempre questa terra non vostra,
per voi forse ingrata, dolce invece per noi. Il duro caso vuole
così e noi ci sottoponiamo rassegnati al caso. Sarà adunque in
tal modo una delle condizioni messe dal vostro Torrejon per la
liberazione dei nostri amici e delle nostre famiglie.
Nulla vi chiediamo per noi. Vi preghiamo solo di volervi
interessare affinché la promessa fattaci sia mantenuta."
"Tenni con i vostri", rispose quel comandante, "un
duro linguaggio. Lo spirito acceso della guerra ci conduce
spesso, purtroppo, ad alterare il nostro spirito, a modificare la
nostra educazione. Se quel linguaggio mi fosse ricacciato in
gola, voi adempireste a uno dei biblici insegnamenti. Voi non
l'avete fatto, dimostrando così di avere nervi più saldi dei
nostri. Mi propongo ora di ricambiare la vostra generosità. Io
che, per particolari diritti di casta, oltre che di grado,
qualche cosa conto nell'ordine del mio governo, vi prometto di
prendere sotto la mia tutela le vostre famiglie e prima che
partiate procurerò con esse un vostro incontro."
Dopo altre reciproche cortesie s'aprì a quegli ufficiali la
porta della libertà. Non erano passati tre giorni che le meste
donne ricevettero a Montorio l'inaspettata visita.
Giulio a nome degli altri, commosso, disse loro:
"Talvolta pensiamo se fu onesta la nostra azione nel trarvi
dal vostro tranquillo nido, abbellito dai sogni della giovinezza.
Quattro anni. o poco più, viveste nelle promesse del sogno.
Dopo? Alla lirica seguì il dramma, certo non voluto da noi. Non
vi è però soverchiamente da rammaricarsi. Su di voi, dilette
compagne, per le vostre virtù, anche guerriere, non scenderà
forse mai la dimenticanza; mai l'oscuro silenzio della tomba.
Qualche anima ben nata, accesa da voi, potrebbe riportarvi, in un
tempo più o meno lontano, con la bellezza delle vostre persone e
dei vostri atti, sulla scena viva degli umani affetti.
Noi partiamo. Con le nostre nuove gesta, in un ordine più
elevato, cercheremo di concorrere alla vostra esaltazione, alla
riabilitazione, se così si deve dire, dei nostri figli. Ma
partiamo, s'intende, con una grande tempesta nel cuore. Domani
saremo lontani. Vedremo nuove contrade, nuove città, nuova
gente, udremo nuove favelle, ma la vostra visione tornerà in
ogni nuovo giorno a rendere più acuta la pena della
lontananza."
Dopo queste dichiarazioni in comune, ognuno si raccolse con la
propria famiglia, per mitigare, nella carezza della speranza,
l'intimo affanno.
Rivolsero finalmente al buon padre Fulgenzio affettuose parole
d'ammirazione e di gratitudine per la sua opera e per il suo
religioso patriottico spirito. Gli ricordarono che se il
tentativo di costituire la repubblica aprutina, simile a quella
di Senarica, era fallito, ciò non doveva far disperare per
l'avvenire. Il tentativo, in un tempo più favorevole, poteva
essere ripetuto con concetto più largo, da non escludere la
possibilità dell'unità nazionale. Essi intanto, lasciando le
native montagne, andavano a portare in altre contrade il loro
contributo per questa più grande costruzione.
Mentre cadeva la sera Giulio, Santuccio e Titta ripresero la via
di Valle Castellana, per completare i preparativi della partenza.
Il giorno dopo, di buon'ora, le loro famiglie, anch'esse sotto il
dolore della separazione, lasciarono Montorio, per tornare ognuna
alla casa paterna.
Padre Fulgenzio, ritenuta ormai finita la sua missione fra i
banditi, pure lui rientrò in convento per invocare con maggior
fervore la protezione del cielo sugli amici, destinati ad altre
più ardue imprese.
In tal modo si poteva ritenere chiuso il primo ciclo del
banditismo politico abruzzese, durato, con le sue varie vicende,
oltre un secolo.
E' vero che in esso erano apparse figure notevoli come quelle di
Marco Sciarra, del barone Giulio Bosales, di Giuseppe Colranieri
che avevano compiuto atti generosi; ma era anche vero che non
tutti avevano avuto un vero e proprio carattere. Oggi potevano
essere con gli uni, domani con gli altri. Oggi amici benigni,
domani nemici pericolosi. Oggi potevano accorrere a rintuzzare
una qualche violenza, domani divenire essi stessi attori di
violenza. Ne facevano eccezione, per l'educazione e lo spirito
dei loro capi, le tre bande che stavano per partire per Venezia.
Tutti però questi banditi avevano avuto il merito di tenere
acceso lo spirito bellico e l'orgasmo nei nemici d'Italia.
L'ineffabile Torrejon, nei suoi rumorosi festeggiamenti, non
aveva capito che la vittoria su di essi non era dovuta al suo
talento, né al valore delle sue truppe. Nei giorni seguenti,
quando gli parve che tutto era tornato normale, in una nuova
riunione, con ipocrita compunzione disse che tutto quanto era
accaduto nella bella provincia non era stato di gradimento né di
Napoli, né di Madrid. Il suo signore intendeva ridare alla
contrada, da secoli tormentata da faziosità partigiana, l'antica
prosperità. A queste nobili intenzioni si era contrapposta,
appunto, la cancrenosa piaga del banditismo, ora, con una
energica operazione chirurgica, sanata. I banditi tra poco se ne
sarebbero andati e la prosperità sarebbe tornata ovunque a
fiorire.
Tante altre cose piacevoli disse il Preside, senza che si
elevasse una voce a turbare la sua gioia.
Il buon de Adamnis, liberato dal carcere, raggiunse di corsa la
sua casa, dove si pregava e si soffriva. Nei giorni successivi
egli tornava a raccogliersi in sé e meditare sulle vicende
umane.
In tanta depressione, come dichiarava alla compagna, non
disperava in un futuro migliore. La storia, con i suoi ricorsi,
come insegnava a Napoli, proprio in quei giorni, il giovane
filosofo Giovan Battista Vico, era inesorabile nell'attuare tra i
popoli i cicli di grandezza e di decadenza.
I rinnegatori, i traditori, gli asserviti allo straniero,
sarebbero stati travolto senza pietà dalle legioni rimesse in
marcia, con spirito romano, sulla via del mondo. Lo sentiva, lo
vedeva con la sicura chiaroveggenza dei profeti. I falsi
santuari, pieni di furfanti, sarebbero caduti sotto il peso della
propria miserabilità.
"Guai a voi, gente senza fede e senza patria" pareva
che dicesse, nei suoi soliloqui, il nobile de Adamnis. "Non
dovrà dare più asilo a voi la terra luminosa dei santi, dei
martiri, degli eroi. Il vostro posto è là, dove arida è la
terra, fosco il cielo, sbiadito il sole."
Non disperava il bravo patriota, ma non poteva neppure sottrarsi
ai forti scoramenti. Interveniva a confortarlo, come sempre, la
compagna affettuosa. I suoi proponimenti erano sacri, senza
dubbio. Qualche volta però, dinanzi alle contrarietà, spesso
inevitabili, bisognava con santa rassegnazione chinare il capo.
Doveva trovare a ogni modo conforto nel suo passato, splendido di
attività, santo di sacrifici, per dare tregua alle angustie. E
in questa tregua dedicasi ad altre attività e cercare di rendere
più bella la casa, più ampio il giardino, più ricca di alberi
la campagna circostante. E arricchire la biblioteca di nuovi
libri, la mente di nuove idee, l'anima ansiosa di nuova poesia. E
avrebbero fermato sulla carta i propri pensieri, le alterne
vicende, la luminosità dei loro giorni felici.
I banditi erano scomparsi o stavano per scomparire, ma sulla
montagna rimaneva accesa, nella minuscola repubblica di Senarica
e nella gloria di Poggio Umbricchio, la fiammella dalla quale gli
italiani dovevano attingere un giorno la fatidica scintilla per
accendere il grande fuoco della purificazione e della redenzione.
D'altra natura erano le riflessioni di Cinzia, di Barbara, di
Francesca. Riandavano alla loro fanciullezza, trascorsa
lietamente in quelle stesse case, dove, dopo tante vicende, erano
tornate. Strana trovavano la vita, con le sue luci e le sue
ombre. Non potevano mai pensare allora al dramma, del quale
dovevano essere protagoniste. Dolce era stato l'inganno che le
aveva avvolte, nella primavera in fiore, dolce l'idillio, brusco
il risveglio.
Erano divenute dei banditi, non soltanto spose, ma compagne di
lotta e d'avventure, e avevano con essi combattuto con la stessa
bravura. Cosa avrebbe riservato ancora ad esse l'avvenire?
Cinzia non poteva rammentare l'oscura profezia dello stregone di
Nepezzano, di cui le aveva parlato il suo Giulio. Qualche luce già
appariva a rischiarare un po' la parte nebulosa. Ulteriori eventi
ne avrebbero meglio precisati i limiti e il valore. Rimanendo
sarebbero stati considerati sempre banditi, per i quali il
carcere poteva alternarsi con il capestro.
Dopo Titta s'apprestava alla partenza pure il Montecchi. Volle
salire, prima di muoversi, sulla montagna dei Fiori. Il sole di
giugno inondava, con la luce diffusa, le fresche vallate. Dalla
magnifica veduta la fantasia piegava, a mano a mano, verso i
vicini e lontani ricordi. Nella mesta rassegna vedeva laggiù,
sul verde pianoro, la città che gli rammentava l'adolescenza
calma del seminario. Poi vedeva, adagiata sul colle, la Nepezzano
del mago dove aveva sconfitto le truppe regie. Vedeva il Pennino,
coperto d'alberi annosi, anche esso illuminato da altra vittoria.
E correva con lo sguardo e con la mente sulla forte Civitella,
sull'operosa Campli e, per ultimo, sulla gentile Mosciano, nido
di sogni, che forse non avrebbe più rivista.
L'addio a quei luoghi, mentre se ne allontanava forse per sempre,
gli usciva, dal segreto del pianto, come un singhiozzo.
Sante Lucidi, dopo qualche tempo e prima di muoversi, sfidando i
gravi pericoli, volle rivedere i suoi cari. Scendendo dalla
montagna, in una notte piovosa, bussò alla porta della sua casa
di Boceto, quando tutto attorno dormiva. Riconosciuto, la porta
s'aprì e vi apparirono le braccia aperte della fiera compagna.
"Il giorno ultimo fissato per la nostra partenza è scaduto
da ieri. Gli altri sono andati; io sono rimasto. Non sentivo di
poter passare il confine senza prima averti rivista,
Barbara", le disse Santuccio, è continuò. "I miei
sentimenti per te sono sempre quelli che ti ebbi a manifestare,
con parola velata, nella fresca mattinata di maggio. Il bandito
feroce aveva strappata l'anima, per il canto, all'usignuolo che
gorgheggiava nella siepe di biancospino. Gli eventi si
susseguirono dopo con la volubilità delle leggi umane.
Parto con la ferma speranza di ritornare un giorno e con un nome
che non deve più spaventare. Di là di noi vi è la storia con
le sue esigenze, vi sono i figli con i loro diritti.
Spesso penso alle ragioni che mi indussero a tornare alla
montagna, quando sarei potuto rimanere a godere in questa casa le
promesse della vita. Non si confaceva la quiete al mio carattere;
ma sopportava la soggezione al dominio straniero.
Dopodomani all'alba lascerò, per la nuova vita, le nostre
montagne. Se non vi dovessi tornare io, spero di farvi tornare,
per te per i figli e per la storia, il mio nome purificato dal
fuoco della gloria."
Nella notte stessa, nel distacco doloroso, Santuccio tornò alla
sua banda e sull'alba si mise in cammino verso il nuovo destino.
Calava così il sipario sull'ultima scena del dramma del
banditismo abruzzese, nel teatro di terra d'Abruzzo.
E calava il silenzio sulle valli e sui boschi. Festa era per gli
iberici e per i loro satelliti; lutto per gli altri. Ne era
addolorata la buona gente della montagna, dai banditi sempre
aiutata. Ululava il lupo addomesticato; urlava l'aquila che
scendeva invano dalle cime delle rocce, non trovando più da
rifocillarsi, negli accampamenti deserti.
Salivano in contrapposto, dal basso, sulla vittoria senza gloria,
i rapinatori di Spagna.
Alcuni abitanti di Pascellata, prima che la banda di Santuccio
partisse, avevano visto di notte aggirarsi una luce per il bosco
Martese. Non vi avevano fatto caso. I banditi spesso vi si
muovevano con grandi torci.
Quella luce illuminava due uomini, ciascuno dei quali portava un
grosso involto. A un certo punto sostarono, spensero la torcia,
rimasero in ascolto. Dopo con una vanga scavarono sotto una
quercia robusta una profonda buca, vi deposero due involti, la
ricoprirono, vi fecero un segno di croce e se ne allontanarono.
"Il tesoro accumulato con tanti pericoli è ormai al
sicuro", disse uno di essi." Nessun occhio, neppure di
gufo, era su noi. Nessuno durante la nostra assenza lo troverà.
Nessuno s'arrischierà di penetrare, specialmente di notte, in
questo bosco di delitti."
"Vi potrebbe anche penetrare", rispose l'altro.
"Facciamo un patto anche se lugubre. La nostra vita, per la
nostra qualità, è legata a un filo. Il primo che dovesse
perire, sarebbe suo dovere di venire con il suo spirito a fare
buona guardia al nostro tesoro."
"Accetto. Ora dimmi amico: da quale parte aspetti la felicità?"
"Non certo dall'oro là nascosto. L'oro può concorrere, ma
non determinare la vera felicità. E' sempre la donna, col suo
amore, il suo primo attore."
"La donna! Quale donna?"
"La donna che si ama. Nel mio caso la donna a me promessa,
bella ai miei occhi, cara al mio cuore."
"Ritieni che sia libera questa donna?"
"Certamente."
"Come si chiama?"
"Che importa a te il nome?"
"M'importa e prima di uscire di qui dobbiamo accomodare
questa faccenda."
"In che modo?"
"Tu non devi più pensare a quella donna."
"Chi me lo proibisce?"
"Chi ha su di lei maggiori diritti. Tu sapevi che la donna
da te circuita non era libera. Tu sei un intruso."
"Ne vogliamo fare per ciò una tragedia?"
"Se è necessario anche una tragedia. Il tesoro aspetta il
suo custode."
"E sia."
Per un momento su quel prologo, che ben delineava i termini della
lite, parve sospeso il respiro del bosco. Poi i due si
lanciarono, accesi d'odio, l'uno contro l'altro, ferocemente, con
i pugnali in aria. Breve la lotta, terribile l'epilogo.
L'uno sanguinante lasciò torvo il bosco; l'altro rimase con lo
spirito, secondo i patti, a guardia del tesoro.
Il corpo, raccolto il giorno dopo da boscaioli, era trasportato
per la sepoltura a Valle Castellana.
Molte le congetture su quel caso strano e oscuro; nessuno
s'avvicinava alla verità. Il bosco solo avrebbe potuto fare
rivelazioni; ma il bosco non parlava. I fatti di sangue, d'altra
parte, erano tanto frequenti in quel torbido tempo che non
impressionavano più né spingevano a ricercarne le cause e gli
autori. Le famiglie che ne erano vittime, senza molto indugiare,
dovevano piangere in silenzio sul proprio dolore.
Questa volta però si trattava d'un bandito e poteva il fatto
esporre la popolazione al pericolo della rappresaglia. Ma
Santuccio, scosso da tanti altri affanni, vi rinunciava. Non
intendeva d'altra parte, tanto più che il mistero avvolgeva il
delitto, commettere altri non giustificati atti di sangue.
E il mistero rimase sepolto nel bosco, nella tomba e nel cuore
del superstite attore.
CAPITOLO NONO: Viaggio di Santuccio di Froscia da Boceto a
Venezia. Sosta piacevole a Venezia. Partenza per Spalato.
La banda si Santuccio di Froscia anch'essa s'allontanò dalle sue
montagne, melanconicamente.
Addolora sempre il distacco dai luoghi dove ogni oggetto ha, come
persona viva, un significato, un'attrattiva, una voce. Se i
banditi vi avevano vissuto una vita di durezza, avevano pure
trovato conforto nella familiarità delle valli e dei boschi;
negli amici, sempre generosi di aiuti; nei parenti, sempre
affettuosamente presenti nelle loro vicissitudini. Santuccio
sentiva, come gli altri, che il cuore nel partire gli sanguinava.
Talvolta, dopo una crisi di mestizia, pareva che la forza gli
mancasse per continuare sulla via dell'esilio. Nella brevità
della vita, pensava, perché procurarsi tante volontarie
afflizioni? Meglio sarebbe stato tornare indietro, per andarsi a
consegnare una buona volta, con buoni patti, al Torrejon. Ma
subito dopo, come svegliandosi da un brutto segno, gridava: - No,
no. - Non era possibile. Mai lo straniero l'avrebbe visto in
rassegnata servitù. E proseguiva di tappa in tappa, di contrada
in contrada, senza alcuna molestia. Lo Stato pontificio, pur di
allontanare il pericolo dei banditi, ne favoriva in tutti i modi
l'esodo. I giovani ravvivavano il cammino col suono degli
organini e col canto.
A Ripatransone, storica cittadina dai cinque verdi colli,
ricevettero festose accoglienze. Le migliori famiglie offrirono,
per la notte, la loro ospitalità. Nella conversazione seppero
che pure Ripatransone aveva dovuto subire, nei secoli, dalla
soldataglia straniera, infami saccheggi. Seppero che nel 1521,
nel dare agli spagnuoli una buona lezione, vi si era coperta di
gloria, per eroismo, donna Bianca de Tarolis, il ricordo della
quale riscaldava i cuori, illuminava il luogo di vivida luce.
Prima di ripartire, la banda depose una corona di fiori, tra i
commenti commossi del popolo, nella casa della eroina di
Propugnaculum Piceni.
Altra festosa accoglienza ricevé la banda a Loreto, altra
storica cittadina, ove Santuccio doveva scogliere un voto. Il
giorno dopo, quando il sole illuminava il mistico colle, in
seguito ad accordi col Rettore, era raccolta nel vasto Santuario,
già colmo di gente. Mentre l'organo con largo suono diffondeva
le sue melodie, entrò dalla sacrestia il clero officiante.
I banditi, non usi a quelle cerimonie, ne rimasero fortemente
colpiti. Avevano inteso sulla montagna, quasi come manifestazione
degli oscuri regni, il fracasso della valanga, l'urlo dei venti,
il fragore dell'uragano, ma là, in quel tempio, sentivano la
voce della divinità.
A Santuccio non erano nuove quelle cerimonie. Ma quanti eventi
dopo i giorni del seminario, nella movimentata vita. Eventi che
avevano in sé la gaiezza della farsa, la delicatezza della
lirica, il turbamento del dramma, la terribilità della tragedia.
A un certo momento tutta la banda s'avvicinò all'altare. Dopo
Santuccio, a scioglimento appunto del voto, depose la sua
armatura nella piccola casa della nera Madonna venuta dal mare.
Nel pomeriggio, tra gli applausi e gli auguri, la banda riprese
il cammino verso Ancona, per imbarcarsi, secondo precedenti
accordi, per Venezia. Il sole, in una luminosa giornata, di poco
aveva varcato la metà del suo corso, quando i nostri, tra la
generale curiosità, entrarono in bell'ordine nella città di san
Ciriaco.
Vivo appariva il contrasto, quando salirono sulla nave, tra le
due razze. I veneti, alti e biondi, portavano nei tratti,
nell'educazione, nel parlare la cortesia della città maga. Gli
abruzzesi, bruni e abbronzati, conservavano vivo nel linguaggio,
che nessuno capiva, e nei modi rudi, la scabrosità delle loro
montagne. Nonostante ciò il sentimento d'una forte italianità
li avvicinava, li rendeva fratelli.
Intanto il naviglio, in sul fare d'una notte, illuminata dalla
luna che saliva nella sua pienezza dalle mobili acque del mare,
lasciò Ancona. Santuccio rifiutò il posto lussuoso a lui
assegnato. Nell'insistenza aveva detto:
"Mi dispiace, comandante, di dover contrastare la vostra
cortesia. E' nostra legge: dove stanno i gregari sta il capo.
Uniti sempre nei sacrifici e nei godimenti, nella lotta e nella
morte. Il capo è tale solo nel comando. Non abbiamo da questa
legge mai derogato. Nella forza di una tale principio non siamo
stati mai sconfitti. Gli spagnuoli, che funestano la nostra
terra, ne fecero, quando ci vollero combattere, il duro
esperimento. Io credo che anche gli uscocchi, vostri nemici,
ebbero a sentire cento anni or sono la forza della nostra
coesione."
A mano a mano che Santuccio s'infervorava nel suo dire, l'anima
del comandante si riempiva d'ammirazione e di meraviglia. Altro
concetto aveva dei montanari aprutini.
"Voi, scusate", replicò il veneziano tanto per dire
qualche cosa, "voi non eravate al servizio del vostro
governo?"
"Mai. Noi eravamo al servizio della nostra montagna, scelta
da noi, nella vita indipendente, come nostro regno. Ed ora
veniamo, come mio nonno Marco Sciarra, al servizio della
Serenissima."
"Marco Sciarra era vostro nonno?"
"Anzi bisnonno, questo re della campagna, come lo
chiamavano. Ne sapete qualche cosa?"
"Certo. Venezia, nonostante i centro anni trascorsi, non lo
ha dimenticato. E ricorda i suoi cinquecento uomini che andarono
a immolarsi, per la repubblica, nella lontana insidiosa isola di
Candia."
"Già. Ma il capo non poté essere alla spedizione e il
mistero ne avvolge le ragioni e nasconde il nome di chi armò la
mano che vigliaccamente lo uccise nel sonno."
"Mistero sino a un certo punto. La maledetta politica e la
potenza di papa Clemente VII, nemico di vostro bisnonno, fecero
commettere a Venezia una cattiva azione. Non è difficile
intuire, di conseguenza, chi armasse la mano
dell'assassino."
"Venezia forse?"
"No. Venezia ebbe il torto di licenziare dal suo servizio,
per l'intervento del papa, il vostro prode bisavolo. Il pugnale,
non di Venezia, fece il resto."
A questo punto il dialogo, che molte cose illuminava, era
interrotto dalle allegre note degli organini e dai patetici canti
della montagna, elevati nella notte di luna come una serenata al
mare, che respirava appena nella sua distesa. Poi il sonno,
cessato il canto, cadde sul naviglio e sul mare che rispecchiava
nelle sue acque la luna e le stelle.
Tutti dormivano sul mistero delle acque, che cullavano le navi;
non dormiva Santuccio che andava, col pensiero, lontano. Quanto
diversa gli appariva la notte del mare dalla notte dei monti.
Lassù mille suoni strani, mille voci misteriose e bisbigli di
foglie, scrosci d'acqua, ululati di lupi; qui lo spazio non era
riempito che dal respiro lieve delle acque, intorno al naviglio,
nella notte illuminata.
Poi anche Santuccio, vinto dalla stanchezza, cadde nel sonno.
Il risveglio sul mare, in una calma giornata estiva, muove sempre
alla tenerezza. Gli animi di quei montanari si riempirono di
meraviglia quando sull'alba, dalle cuccette, salirono in coperta.
Non vedevano, nel pallido azzurro diffuso, che acqua, mossa
appena dalla lieve brezza, che sfiorava le navi, carezzava il
viso. Non sentivano, nella vastità dello spazio, che la
malinconica solitudine. La meraviglia crebbe quando apparve, in
uno scintillante tremolio, il maestoso disco incandescente del
sole.
I marinai veneti, che nulla capivano del loro stato d'animo e del
loro linguaggio, li guardavano con attenta simpatia.
Mentre le navi andavano con tranquilla lentezza, a Teramo, il
preside Torrejon festeggiava la vittoria sulla montagna. Aveva
detto un giorno non lontano, in una riunione, ironicamente: - La
Spagna dimostrerà, tra breve, la sua decadenza! -
Aveva avuto ragione, senza capire, il burbanzoso iberico, che la
vittoria non la doveva alla forza del suo genio o alla potenza
delle sue armi, ma alla discordia abilmente alimentata nel campo
avversario.
"I banditi allora finiranno, quando se la piglieranno tra
loro", era stato detto ed era stato detto il vero.
Il Torrejon, assecondato dalla solita teppaglia, ne faceva festa,
miserevolmente.
Il nobile patriota de Adamnis ne esprimeva, ai pochi amici che
ancora lo visitavano, tutto il suo dolore. Sarebbe ricaduto sulla
montagna il silenzio dei secoli, ma a danno delle sante umane
idealità. Chi più avrebbe tenuta accesa la fiamma che doveva
condurre all'unità nazionale? I principi s'abbrutivano nei vizi
e negli intrighi vergognosi; i nobili, privi d'onore,
s'abbandonavano alla lussuria; il popolo imbestialiva nelle orge
o moriva nella miseria.
Dunque?
Mentre Santuccio e i suoi navigavano, i loro parenti si
raccoglievano nelle case, nelle strade, nelle piazze per i loro
discorsi. Erano madri, spose, fidanzate che addolcivano l'affanno
in tenere speranze.
Quasi tutte le sere si riunivano in chiesa per invocare in loro
favore l'aiuto del cielo. Andavano a combattere contro i negatori
di Dio e Dio li avrebbe aiutati.
CAPITOLO DECIMO: Viaggio da Venezia a Spalato. Città in vista.
Conversazione con il comandante della nave.
Per la bonaccia le navi erano andate con pigra lentezza, ma erano
pur giunte sull'alba nella vasta laguna. Ciò che sentissero
quegli uomini che non avevano visto altro, nella vita, che
montagne, valli e boschi, non è possibile descrivere. La città
che con le sue meraviglie usciva dal mare, che tanto aveva
colpito Giulio Montecchi, giuntovi qualche tempo prima, si
presentava ai loro sensi, nella chiara mattinata, come qualche
cosa di sovrumano. Tutto il brioso vocio che li aveva animati
lungo il viaggio, cadeva come per incanto dinanzi alla città del
sogno.
Quando scesero dal naviglio, il sole, già alto, batteva come una
carezza sulle croci, sulle guglie, sulle cupole d'oro dei tanti
edifici e sulla meravigliosa piazza San Marco.
Proprio in quella piazza ricevettero la visita del Doge, il quale
ricordò con gratitudine i cinquecento combattenti di Marco
Sciarra, caduti quasi tutte nella guerra di Candia e i pretuziani
che condotti da Giulio Montecchi e da Titta Colranieri avevano
riconfermato in Morea, per slancio e valore, la fama dei loro
predecessori. Era sicuro che anche i soldati di Sante Lucidi non
sarebbero stati da meno nei prossimi eventi.
Quando il Doge si ritirò il popolo e le gaie ragazze dai capelli
biondi si avvicinarono per manifestare ai giovani, con il
musicale dialetto, la loro simpatia.
Nella calca un gruppo di persone cercò di farsi avanti; persone
che parlavano veneziano e ne avevano i modi, ma non la
fisionomia. Si dichiararono discendenti da abruzzesi, rimasti
dopo le vicende belliche al servizio della Serenissima. Uno di
essi vantava come bisavolo un cugino di Marco Sciarra. Presentò
una robusta figliuola che aveva bene armonizzate, in sé le
caratteristiche delle due razze. S'avvicinò a parlare con essa
un giovane discendente anche lui, in linea materna, dalla
famiglia degli Sciarra.
Da tre giorni i montanari godevano la festevole ospitalità di
Venezia. I giovani nati nelle rocce molti idillii avevano
intrecciato con le fanciulle nate nelle onde.
Santuccio, per le cognizioni acquistate in seminario, qualche
idea aveva su l'arte; ma dinanzi alle marmoree costruzioni e al
potere magico dei pennelli, dai quali erano uscite le classiche
deità, conservate nelle pinacoteche, rimaneva come smarrito.
Così Santuccio mentre il giovane Centicolo si ingentiliva con la
graziosa parente.
"E' ben diversa la vita che si vive nella mia terra, cugina.
Bello è l'oro, belle sono le trine, le gemme che incastonano le
facciate, le logge, le merlature dei fantastici palazzi. Belle
sono pure le nostre montagne, grandi più di tutte le torri, di
tutti i campanili, di tutte le isole messi insieme. E le valli
sono più ampie dei vostri canali, le strade più larghe delle
vostre calle. La vostra piazza San Marco, che ha pure tante
meraviglie, è povera cosa di fronte alle nostre valli fresche di
acqua, ai nostri boschi freschi d'ombre, alle nostre campagne
ricche di prati, di fiori, di arbusti."
"Ogni regione, certo, ha le sue bellezze. E le donne come
sono?"
"Come i fiori dai vividi colori, nati spontanei nella libertà
dei campi. Vestono senza artificio e vestono con panni da esse
tessuti nel telaio domestico.
La domenica, vestite a festa, vanno a messa, nella piccola chiesa
ove vanno, in devoto raccoglimento, anche i giovani. E sono
brune."
"Brune?"
"Si, e armonicamente costituire, esuberanti di vita."
"Amano?"
"Ingenua domanda. Tutto quanto è sotto l'influsso della
luna, pallida amica degli animi che palpitano, arde d'amore.
Amano gli uccelli, gli insetti, i fiori; amano gli uomini.
Ritengo però che la bruna del Martese, che non finge né
sopporta infingimenti, sia in amore più fervida della bionda
nata nella morbidezza della laguna di San Marco.
Semplici sono i nostri costumi."
"Non so. Perdona la mia curiosità, cugino. Il bisnonno,
quando ero bambina, mi raccontava piacevoli e strane novelle e mi
parlava di banditi. Chi sono questi banditi?"
"Chi erano, vuoi dire. E' ormai tramontato, come tramontano
tutte le cose, il loro regno. Ma che importa a te di banditi?
Gente d'armi era, che viveva sulla montagna, assetata di libertà,
che non conosceva la paura, non temeva la morte.
La vita, cugina, è commedia e dramma insieme, gioia e dolore.
Dopodomani partiremo per il teatro della tragedia."
"Così presto? Non tornerete dopo a Venezia?"
"Non so. Dipenderà dalla benignità o meno del caso, e
degli umani eventi. Ma la tragedia si scioglie sempre nel
sangue."
"Non dir questo. Tu vivrai. Noi ci rivedremo."
"Potrei anche sopravvivere. Che interessa a te la mia vita?
Pur discendendo da uno stesso ceppo, non vi è più parentela tra
noi. E' stata estinta dal tempo."
"E' vero. Vi è però sempre un po' dello stesso sangue
nelle nostre vene. La parentela che langue potrebbe, però,
essere richiamata in vita. Talvolta, senza sapere il perché, mi
viene in uggia la laguna. Talvolta odo in me strane voci, strani
richiami, come se uscissero dai monti, dalle valli, dai
boschi."
"Dopodomani partiremo, bambina e tutto sarà finito. Andremo
in Dalmazia a unirci, nel territorio di Citelut, agli altri
nostri compagni per sbarrare agli infedeli la via di Venezia.
La quercia dei nostri boschi non piega sotto l'infuriare
dell'uragano. Noi, figli della quercia, non piegheremo, con
Venezia nel cuore, sotto la brutale forza maomettana."
"Se è così, siate benedetti da Dio. Noi aspettiamo."
"Con questa gentile espressione, come di buon augurio,
chiudiamo il nostro discorso, che i corni chiamano a
raccolta."
E si lasciarono.
Prima di partire da Venezia Santuccio e molti dei suoi
parteciparono, per desiderio del Doge, a una serata di gala nel
teatro San Beneto, il maggiore della città. Quando entrarono,
accompagnati da una guida, ebbero un senso smarrimento. In un
castello incantato pareva che fossero, non in un pubblico
ritrovo. Nei palchi cesellati e dorati non figure umane
apparivano, quelle che vi erano, ma deità fastose delle mille
leggende. Chiome d'argento incorniciavano i visi d'avorio delle
dee, gli occhi delle quali sfavillavano dietro una mascherina
nera, che per metà copriva il volto. Abiti di broccato, di
foggia strana, avvolgevano i loro corpi flessuosi. Gli uomini,
dalle argentate parrucche e dai visi sbarbati e incipriati, erano
poco dissimili dalle donne.
Su tutto pioveva una luce morbida di crepuscolo.
Quei montanari, nell'apparire, attirano la generale attenzione.
Con la semplicità dei bruni vestiti, con i visi dal bronzeo
colorito, costituivano un vivo contrasto con quel mondo posticcio
di cipria.
Successivamente la scena magica, con l'inizio del preludio
sinfonico dell'opera Orontea del maestro fra Marcantonio Cesti,
mutava. Comparivano a mano a mano sul palcoscenico illuminato gli
artisti, anch'essi falsi nei vestiti e nelle sembianze.
Santuccio e Centiolo rammentavano le funzioni religiose là nel
Duomo di Teramo, il suono dell'organo, i canti liturgici che pure
scendevano a scuotere l'animo commosso, ma in quel ritrovo
fantastico altro effetto producevano e musica e canto.
Talvolta essi avevano la sensazione come se si trovassero in uno
di quei mondi misteriosi visti nella stranezza dei sogni o creati
dalla fantasia accesa di narratori di leggende.
La guida li seguiva nelle espressioni e quando calò il sipario
sul primo atto rivolse loro la parola.
"Lavoro delizioso, non è vero? E' certo tra le opere più
belle scritte, nel silenzio del convento, dal francescano padre
Cesti, morto qualche anno fa. Sempre con godimento ascoltava
questa opera e applaudiva. Il maestro vi ha rivelato genio anche
per avere introdotto nel lavoro, per la prima volta, il preludio
sinfonico, novità festosamente accolta, che avrà nell'avvenire,
senza dubbio, fortuna.
Dei cantanti che ve ne pare? La soprano, dall'ugola d'oro, che
manda in delirio il pubblico, è la celebre Luigia Todi."
"Tutto bello, meraviglioso", rispose Santuccio.
"Noi, in verità, gente della montagna, non avevamo mai
assistito a simili spettacoli. D'altro genere sono le nostre
rappresentazioni musicali di chiesa.
Diteci: quali le ragioni di tutto l'artificioso scintillio di
orpelli, di luci e d'inganni? Non lo comprendiamo. In altro modo
si vive nella nostra terra."
"Non so che rispondervi. Noi certo armonizziamo, fatalmente,
con le mollezze delle acque, che teneramente ci cullano; con la
schiuma delle onde che s'infrangono musicalmente intorno alle
nostre case; con la luce che avvolge, tenuamente, il nostro
essere. Subiamo la magia della laguna."
"Diteci ancora: chi è colui che apparso nel palco di
centro, tutto il teatro ha ossequiato?"
"E' il doge Francesco Morosini, colui che nella qualità
d'ammiraglio ha vinto tutte le battaglie combattute contro i
turchi.
E' un'autentica gloria, che tutto il mondo ci invidia. Gloria
latina che combatte con cuore italiano, per uno Stato italiano.
Se i nostri uomini, seguendo i decadenti costumi, mettono
anch'essi parrucche e cipria, sanno però combattere e morire per
i santi umani ideali."
S'alzo intanto il sipario, si sospesero i discorsi, continuò la
rappresentazione.
Continuarono i pretuziani nelle segrete considerazioni. Quanta
diversità di vita dall'una all'altra regione! Nelle loro
montagne, a quell'ora non si vedeva, nella profondità del cielo,
che lo scintillio tremulo delle stelle; non vi si udiva altra
musica che quella delle acque e dei boschi. Teatro anche quello
ma che aveva per attori e spettatori pastori intabarrati di
pellicce di capre; boscaiuoli incipriati anch'essi ma della
cipria sprigionata dalle affumicate carbonaie.
E il Doge di Senarica? Vestito pure lui dei ruvidi panni dei
pastori.
Alla fine dell'opera si ritirarono nel loro alloggio con l'animo
turbato. Tornava sempre alla loro mente, specialmente nelle
feste, la cara terra natia che forse non avrebbero più rivista.
Il sole, nella calda stagione, incendiava al tramonto la laguna
quando i veneziani s'erano raccolti sull'ampio molo in gran
numero per salutare i pretuziani alla partenza. Secondo le
simpatie e le amicizie erano stati formati, qua e là, gruppi per
gli ultimi discorsi, per gli auguri e le promesse. Vi era anche
Balbina che parlava, afflitta, con Centiolo.
"Noi ci rivedremo, non è vero cugino?"
"Ci rivedremo se lo consentiranno, ripeto, gli eventi.
Rivederci poi perché? Ci siamo incontrati come si possono
incontrare su una strada assolata due viandanti che percorrono
opposto cammino. Riposano per un momento insieme, come in una
piccola casa, nel fresco boschetto; si parlano con affettuosa
ansia, si confortano. Riprendono più tardi, ognuno per proprio
conto, il fatale andare, scomparendo in lontananza come
inghiottiti da una voragine. Mi è sempre caro a ogni modo di
aver conosciuta, nella città meravigliosa, una così simpatica
cugina."
"M'aspettavo da te altro linguaggio. La giovinezza sogna
sempre festa di fiori, vermiglie aurore. Anch'io ho
sognato."
"E' bene cugina rimanere nel sogno, tanto più che in fondo
alla mia meta vi potrebbe essere non l'aurora ma il
tramonto."
Il piccolo idillio si concluse nelle lagrime. L'ora della
partenza giunse. I veneziani mandarono commossi con i fazzoletti
gli ultimi saluti al naviglio che s'allontanò a vele spiegate
verso la Dalmazia.
Nuove lagrime solcarono il bel volto della bionda Balbina, quando
il cugino Centiolo scomparve, con le navi, nella distesa glauca
del mare.
Il comandante, veneziano schietto, nel nuovo giorno disse a
Santuccio, desideroso di sapere:
"Quell'azzurrognola terra che si spiega a noi di lato è la
Dalmazia, terra italianissima ove nacquero imperatori romani,
geni italiani. Anche da questa parte aveva ben provveduto natura
a mettere tra la barbara rabbia e il latin sangue gentile lo
schermo imponente delle Alpi Giulie e Dinariche. Ma un giorno non
fausto, spiriti folli, come si racconta, strapparono dal corpo
della penisola una delle sue più pittoresche regioni, ricolmando
il vuoto con acque tolte al burrascoso Mediterraneo. Corsero i
fratelli sbigottiti, rimasti dall'altra parte, sulle rive
dell'improvvisato nuovo mare; lanciarono grida, chiamarono i
fratelli scomparsi nelle acque, ma non ebbero risposta. Tutto era
stato inghiottito dalle onde, e uomini e paesaggio."
"Come la Dalmazia era unita alla penisola?"
"Così raccontano. I secoli, con la sabbia del fiume,
livellarono la sponda opposta; lasciarono invece intatti i
promontori, le penisole, le isole, i canali, i porti determinati
in quest'altra sponda dal gigantesco cataclisma. E nacquero qua e
là rifugi, grotte, antri profondi, entro i quali s'annidarono
mostri enormi, dalle forme stranissime, di natura anfibia, che si
cibavano di carne umana, ricercata tra i naviganti e tra gli
abitanti della costa. Favola s'intende, come tutte le favole
uscite dalla fantasia degli antichi. Ma altri mostri vi si
nascosero successivamente nella realtà e vi si nascondono
ancora, col nome di pirati, e da là escono per le loro
ribalderie, sul mare e sulla terra.
Dicono pure che negli antri, nel cuore dei dirupi che noi
vediamo, vi siano palazzi, giardini, laghetti e una lussuriosa
principessa orientale di grande bellezza.
Festa è per quegli abitanti il tempo, orgia la vita.
Molti pericoli, quindi, da questa parte. Nonostante ciò, per la
chiarezza del cielo e del mare, sui promontori, attorno alle
rade, in fondo ai porti sorsero ugualmente linde piccole città
che hanno per nome poesia, per vita canto. E cantano in sul
mattino e in sulla sera alla terra, al mare, alla vita.
Un qualche giorno, una qualche poeta adriatico, nella pienezza
del godimento, nel mistico delirio, ne canterà la divina
bellezza."
Così disse il comandante e mentre le bianche città apparivano e
sparivano ne faceva il nome, ne ripeteva la storia.
Indicava in fondo all'Istria, Pola la eroica, che serbava con i
suoi archi, i suoi templi, il suo ampio anfiteatro le impronte
incancellabili di Roma.
Indicava a mano a mano della Dalmazia, nel passaggio, la
leggiadra Zara, la beata Sebenico, la gentile Traù, fresche come
fanciulle uscite dal mare. Tra l'una e l'altra le mille isolette,
ricche anch'esse di leggende, d'api, di miele e di spirito
latino.
Indicava finalmente, meta del loro viaggio, la superba città di
Diocleziano, dove i pretuziani scendevano per riprendere la vita,
non più di banditi, ma di soldati della Serenissima.
CAPITOLO UNDICESIMO: Arrivo a Spalato. Lettera di Santuccio a
Barbara sua moglie. Gita a Poggio Umbricchio di Cinzia, Barbara e
altri.
A Spalato incontrarono uomini della banda del Montecchi,
convalescenti per ferite riportate nei combattimenti della Morea.
Avevano operato contro i turchi con abilità e valore. La loro
bravura rifulse in modo particolare nella conquista di una altura
fortemente presidiata, non molto lontano da Patrasso. Tutti gli
attacchi dei veneziani erano stati respinti, col pericolo di
essere ricacciati in mare. Il comandante, nella critica
situazione, dava ordine ai pretuziani di avanzare.
Nella notte di san Francesco mossero verso l'obiettivo. Giunti ai
piedi del colle, penetrarono a piccoli gruppi nelle pieghe del
terreno, nei valloncelli, tra i cespugli e gli alberi.
Penetrarono da ogni parte, con gli istinti delle volpi, col
silenzio dei fantasmi. Nelle vicinanze del nemico si fermarono.
Sul far del giorno, nella freschezza dell'alba, al suono dei
corni, si lanciarono su i maomettani, immersi nel sonno. Breve la
lotta, completa la vittoria.
I turchi più tardi, con nuove forze, tentarono di riprendere
l'altura, ma inutilmente.
Altri vittoriosi combattimenti sostennero i pretuziani sulla via
che conduceva i veneti ad Atene.
Tutte queste notizie riempirono di gioia e di orgoglio Santuccio
e pensò che anche la sua banda, giunta l'ora, si sarebbe fatta
onore.
A Campli, ove si viveva in ansiosa attesa, la notizia
dell'arrivo, dopo qualche tempo, d'una lettera di Santuccio,
aveva fatto accorrere nella casa di Barbara molta gente: madri,
spose, fidanzate dei lontani.
La lettera, di cui prendevano visione, tra l'altro diceva:
Il nostro è stato un viaggio attraverso un territorio colmo di
bellezze. A Loreto, nella Casa Santa, deposi l'armatura del
passato. Venezia, avvolta e carezzata morbidamente dalle acque,
ci cantava il canto malioso della sirena. Ne uscimmo con i sensi
sconvolti, trascinati altrove, come legati alle galee su cui
eravamo.
Siamo ora a Spalato, altra sirena, ma di minor pericolo. Spalato,
città di Diocleziano, uno tra i più grandi imperatori romani,
il quale, come ci dicono, si ritirò qui, volontariamente, per
coltivare, nella pace domestica, terra e legumi.
A differenza di Venezia, gabbia dorata, qui ci possiamo muovere
in ogni direzione, liberamente. E saliamo le colline e le
montagne, per rivivervi un po' la nostra passata vita.
Spalato ci è cara anche perché, come ci assicurano, ha di
fronte a no, di là dal mare, la nostra bella terra e che da
queste alture, nei giorni sereni, si vede la cima del nostro Gran
Sasso. Per quanto si salisse in alto e si scrutasse, con l'anima
negli occhi, di là del mare, la nostra ansia non è stata mai
appagata. Ma vi siamo sempre tornati, per rimirare, se non altro,
il cielo sotto il quale voi vivete.
L'illusione di cose care scende sempre come balsamo nell'animo
angosciato.
Ed ora sono lieto di dirti, e tutti i buoni ne dovrebbero gioire,
che le bande del Montecchi e del Colranieri, nei combattimenti
contro i turchi, si sono già coperti di gloria.
Noi, per il momento, restiamo qui in attesa della nostra ora.
L'aspettiamo con impazienza. La prova non dovrà fallire. E' un
impegno sacro rispetto ai nostri caduti, alle nostre famiglie, al
nostro onore. Ogni giudizio men che favorevole sul nostro passato
dovrà essere col sangue cancellato per sempre.
La lettera continuava in una crescente commovente esaltazione.
Era tutto un risveglio di quei sentimenti elevati, che potevano
essere sopiti negli animi degli italiani, spenti mai. Risveglio
che non faceva certo piacere agli stranieri, divenuti, dopo la
scomparsa dei banditi, insopportabilmente arroganti.
Il preside Garofali, che aveva sostituito il Torrejon, di nome e
di sangue italiani, non era nella persecuzione meno zelante del
suo predecessore.
Eterno contrasto di grandezza e di miseria in questa benedetta
razza latina. Un Francesco Ferrutti trovava sempre, sulla sua
via, un Fabrizio Maramaldo.
Nell'entusiasmo di quella lettera a Campli si concordava un
pellegrinaggio, quasi religioso, per Poggio Umbricchio.
La comitiva, condotta da Cinzia e da Barbara, partita di buon
mattino, faceva la sua prima sosta a Rocciano, ove trovava larga
ospitalità. Cinzia e Barbara erano accolte nell'antica famiglia
degli Spinozzi.
In sulla sera andarono a sedere, con la giovane signora che le
ospitava, in un'aia, dinanzi alla quale s'apriva in tutta la sua
bellezza l'ampia vallata del Tordino.
"Quadro magnifico", esclamò Cinzia, scossa
d'ammirazione. "Sembrano quei villaggi in vista branchi di
gregge, tuffati in godimento nella verde vegetazione. Su quel
cocuzzolo è Frondarola, non è vero?"
"Si, Frondarola col suo aguzzo campanile. L'altro più
lontano, sotto i monti, è Valle San Giovanni, covo sino a poco
tempo fa di banditi. Quanti conflitti, quanto inutile spargimento
di sangue! Tempi terribili."
"Avevate paura dei banditi?"
"Terrore più che paura. Non a torto. Neppure in casa si era
sicuri. Feroci erano negli istinti e negli atti."
"Ne siete sicura?"
"Sicurissima. Ascoltate. Un giorno io e i miei ci mettemmo
in cammino per andare a visitare a Frondarola un parente malato.
Pareva che tutto fosse tranquillo. Passato il punto in cui si
distaccano i due valloncelli, l'uno scendente verso il Tordino,
l'altro verso il Vomano, entrammo nel bosco. Guardando avanti
vedemmo penzolare da due alberi due figure umane, attorno alle
quali gracchiavano a stormo i corvi.
Di chi quelle prodezze? Non proseguimmo. Rientrammo in casa con
quella macabra visione, quasi senza respiro, con i brividi della
febbre."
"Certo: azione barbara. Però, prima di formulare un
giudizio, occorrerebbe sapere le ragioni del misfatto. Anche i
banditi avevano leggi inesorabili. Non perdonavano ai traditori.
Feroci! Non più degli altri. Non avete mai saputo dei tanti
banditi impiccati alle porte di Teramo? Ma se sono feroci sono
anche generosi. Oggi, mentre gli altri italiani gemono sotto il
calcagno straniero, essi, i banditi, difendono con i soldati
della repubblica veneta, in mortale lotta con i turchi, con
grande valore, le nostre famiglie, la nostra religione, la romana
civiltà.
Un giorno nessuno più parlerà di noi, neppure il sepolcro,
destinato anch'esso a finire nel tempo come finiranno in polvere
i nostri corpi. Vivi invece rimarranno i loro nomi, per le loro
gesta, nel volgere dei secoli."
"Strana questa vostra difesa. Per me sono sempre quei
masnadieri che brutalmente rapivano, come si racconta, a
Mosciano, a Campli, a Cellino e altrove donne nobili, fiorenti di
giovinezza. Non è vero, forse? I miei genitori, per sottrarsi a
un tale pericolo, mi tennero chiusa per molto tempo nel convento
di San Matteo di Teramo.
Essere moglie d'un bandito! Si rabbrividirebbe al solo
pensarlo."
"Certamente. Voi siete felice del nostro matrimonio?"
"Felice! La felicità è sempre relativa. Ho una bella casa.
Vivo in agiatezza. La domenica vado a messa, serena. La gente tra
la quale passo i miei giorni mi vuol bene. Che debbo desiderare
di più?"
"E vostro marito?"
"Brav'uomo. Non ha molta dimestichezza con i libri, ma non
importa. Qualche rinuncia bisogna pur fare, per non ridurre la
vita a povera cosa."
"Brava. Ora rispondeteci con franchezza. Avreste disdegnato
d'ascoltare, in una notte di luna chi, sotto la vostra finestra,
con fiorito linguaggio, vi avesse dolcemente elevata nel regno
dei sogni?"
"La donna, sesso debole, si lascia facilmente avvincere dal
canto della sirena."
"Quindi non avreste respinto il notturno cantore
d'amore."
"Chi sa. Forse si, forse no. Il cuore della donna è sempre
un po' bizzarro."
"E se sotto la veste di quel cantore fosse stato nascosto un
bandito?"
"Il lupo non può avere il canto dell'usignuolo."
"Talvolta... Ma basta con i banditi. Ormai per la vostra e
per la tranquillità degli spagnuoli, non ci sono più. Parliamo
ancora di voi, colma di sensibilità e di grazia. Ci sembrate, in
questo vostro romitaggio, una fresca rosa, fiorita in un campo di
rovi. Dovrà essere molto melanconica per voi educata in città
questa solitudine."
"Solitudine per modo dire. D'inverno trascorro il giorno nel
lavoro del telaio e nella lettura di libri che mio fratello
medico mi manda da Teramo. La sera, raccolti intorno al focolaio,
dopo il rosario, si raccontano dai vecchi novelle graziose.
D'estate si va lietamente nei campi, ricchi di frutta e verso
sera si viene qui per godere non soltanto il fresco venticello e
il bel panorama, ma anche per lasciarsi trascinare dalle liete e
bizzarre fantasticherie.
Guardo, come facciamo in questo momento, la vallata, il fiume
nelle sue tortuosità, Teramo con le torri e i bianchi palazzi;
guardo le colline, i villaggi, i monti e penso a coloro che nel
passato vennero e a coloro che in avvenire verranno ad ammirare
da questo stesso posto le stesse cose. Penso che mentre i
fenomeni delle aurore e dei tramonti, del sole e della lune si
ripeteranno sempre uguali nei secoli, non così i fenomeni che
riguardano i mortali e che quella vallata così ricca d'acqua non
debba rimanere sempre nel silenzio. E vedo laggiù, nel tempo, e
ponti e strade e nuove case e nuovi villaggi e nuove operosità."
"Avete fervida la fantasia, elegante la parola, dovete molto
leggere."
"La lettura concorre a riempire il vuoto che mi circonda.
Scusate: voi dove andate con tutta quella gente che vi
accompagna?"
"In pellegrinaggio, verso la montagna."
"Pellegrinaggio! Che io sappia non vi sono, su la montagna,
santuari."
"Eppure uno ve n'è che un giorno, per i fatti che vi si
sono svolti, potrà costituire buon argomento a coloro che di
sera si raccoglieranno, come fate voi, attorno al focolare a
raccontar novelle."
"E' molto lontano?"
"A due giorni di cammino e si chiama Poggio
Umbricchio."
"Poggio Umbricchio! Ne ho inteso parlare ma come covo di
banditi."
"Si, ma anche covo e meglio rocca di eroi."
"Questo non lo sapevo."
"Lo saprete meglio un giorno. Allora vi pungerà il
desiderio di conoscere qualcuno di quegli eroi, se senza saperlo
non li aveste già conosciuti."
"Questo no. Qui non passano che sperduti girovaghi, serpari
e qualche scampato dal patibolo. Oggi vi siete passata voi."
"Scampata dal patibolo?"
"Voi, no graziosa colomba. Perché non restate qualche
giorno con me? M'avete inspirato confidenza, simpatia.
Restate."
"Voi siete bella e amabile, ma domattina dobbiamo sudare.
Come vi chiamate?"
"Maria Grazia."
"Maria Grazia! Nome che sembra creato per voi. La violetta
gentile pare che non possa avere altro nome. L'usignuolo è già
con il suo nome una melodia."
"Grazioso! E voi come vi chiamate?"
"Io Cinzia."
"Bel nome anche questo: gentile e romantico. L'amica?"
"Barbara."
"Rustico panno che avvolge deliziose membra. Voi siete
deliziosa anche se il nome è barbaro.
Le ore in lieta compagnia volano. Cala la notte. Suona
l'Avemmaria. Andiamo ché la cena ci aspetta."
"La bellezza s'unisce sempre alla bontà. Quantunque abbiamo
le provviste per il viaggio non possiamo ricusare invito così
cortese. Vostro marito?"
"E' a Teramo. Tornerà tra due giorni. Abbiamo laggiù amici
e parenti che molto nel passato ci aiutarono. Essendo Rocciano
sul confine della lotta, nel sospetto dei favoritismi, eravamo
minacciati dagli uni e dagli altri. E i vostri mariti"!
"Bravi anch'essi, ma sono lontani."
"Lontani e scrivono."
"Scrivono! Che cosa scrivono?"
"Un giorno lo saprete. Ora è bene che rimanga un
segreto."
"Non insisto. I segreti sono sempre sacri."
E andarono chiacchierando piacevolmente a cena, dopo a dormire.
Il giorno seguente, ascoltata la messa nella piccola chiesa, la
brigata riprese lentamente il cammino.
CAPITOLO DODICESIMO: Arrivo a Poggio Umbricchio. Incontro con i
proprietari del castello. Conversazione sui diversi avvenimenti.
Racconto di novelle.
"Gente numerosa sale la valle, Rossana. Chi può
essere?"
"Pastori, senza dubbio, che tornano dalla pianura per i
pascoli estivi."
"Non sono pastori. Non si vede la gregge. Non abbiamo noi
pastori che vanno nelle Puglie."
"Allora sono banditi."
"No, no. Neppure banditi. Quelli che non sono a Venezia,
sono nella darsena di Napoli a espiare i loro peccati: in terra
prima, dopo all'inferno. Qui non torneranno più. Ci voleva
proprio il viceré marchese del Carpio per estirpare una così
cattiva erbaccia, fortemente radicata sui nostri monti. Era
davvero per noi una vergogna. Abruzzo, terra di briganti."
"Se ci udisse Giancarlo de Adamnis o quel frate Fulgenzio! E
se tornassero?"
"Dovremmo di nuovo far fagotto. Ma non sarebbe proprio una
disgrazia. Solitudine, silenzio, pace, tutte belle cose e
romantiche, ma finiscono sempre, dopo il primo entusiasmo, di
stancare. Tutte le fiamme, anche quelle dell'amore, a mano a mano
s'attenuano, se non si spengono del tutto."
"Lo so, lo so. Prima sospiri, spasimi, dimagrimenti,
promesse di cielo; dopo si cercano cento cavilli per litigare,
per tornare in terra."
"Il fenomeno non riguarda noi. Tu non ti puoi lagnare.
Volevo dire che non è stato un buon consiglio, per quel che
nutro nell'animo, mettersi all'ombra dei boschi."
"Non capisco."
"Eh! Non capisci. Eppure tante volte ne ho parlato. Il
titolo di barone sa ormai troppo di vecchiaia."
"Ho compreso. Ti solletica la corona di marchese. L'avrai,
l'avrai. La Spagna sa premiare i suoi fedeli servitori anche se
vivono lontano dai rumori. Quella gente intanto cammina, avanza.
Sembra che vi siano anche donne."
"Gente pacifica allora, che dopo tanta inerzia ama
sgranchirsi un poco. Possono essere pellegrini diretti a
Roma."
"Non è l'Anno Santo."
"Ma a Roma città eterna, si va in tutti i tempi."
"Se fossero diretti a Roma non verrebbero su questa
altura."
"E' vero. Tra poco sapremo chi sono."
Quando la comitiva, tra l'abbaiare dei cani, comparve sul
piazzale le andarono incontro.
Cinzia e Barbara rimasero meravigliate di trovare il castello, in
così breve tempo dagli eventi della distruzione, ricostruito e
abitato. Molta meraviglia provarono anche quelli del Poggio nel
vedere, in quella compagnia di banditi a riposo, due donne di
civile aspetto. Fecero loro a ogni modo, per istinto e per
educazione, lieta accoglienza.
In sulla sera, dopo una attenta ricognizione del tragico luogo,
Cinzia e Barbara sedevano con i proprietari sul terrazzo, in
raccoglimento.
La baronessa cercava in sé le ragioni di quella visita e della
commossa curiosità con cui quelle ospiti tutto avevano
osservato.
"Perché siamo venuti qui? Non lo sappiamo neppure noi. Ci
siamo messe in cammino, come per pellegrinaggio. I santuari di
solito sono sui poggi, in alto, bene in vista. Anche questo
castello potrebbe essere un santuario.
Poi avevamo grande desiderio di novelle che il popolo racconta
con accento di verità. Molte leggende vi debbono essere su
questa antica rocca."
"Molte, si. Alcune tratte dalla fantasia, altri dai fatti
veri."
"Ce ne vorreste raccontare qualcuna?"
"Non ne ho la capacità. A ogni modo, se vi fa piacere, mi
ci provo. D'altra parte somigliano un po' tutte le favole e le
località che ad esse si riferiscono. Poggi solitari, come
questo, nel mezzo delle valli; boschi d'intorno e cascate
d'acqua; corvi e aquile che gracchiando svolazzano di picco in
picco. Squallore ovunque d'inverno: neve alta, neve che cade;
rumore di tormenta, fragore di valanghe; camini che fumano,
focolai che sfavillano; fiamme che rallegrano e riscaldano. Notte
di luna, scintillio di stelle, d'estate. Sospiri, nell'infiorato
verone, della mesta castellana. Nella strada solitaria il bruno
trovatore che manda su, con il liuto, le pene d'amore."
Non è vero?"
"Perfetto il quadro."
"Ed ora ascoltate la novella vera di Poggio Umbricchio.
Siamo nel secolo dei grandi tormenti e dei grandi amori. Sul
cielo sfavillano, nelle arti e nella poesia, i suoi astri
maggiori. La divina Vittoria, come la chiamavano, signora di
Pescara, affidava alle rime i suoi amorosi lamenti.
Proprio in quel tempo signoreggiava su questa rocca una bruna
fanciulla votata, come pareva, alla castità. S'aggirava per i
boschi come Diana, armata d'archibugio.
Non vi erano banditi, ma neppure allora mancavano predoni
pericolosi e belve.
Un mattino, mentre la nostra Lucina ascoltava, raccolta, le voci
del bosco, s'avvedeva che non molto lontano due occhi sanguigni
d'un lupo torvamente la fissavano. I lupi, come sapete, sbranano
senza pietà. Non aveva con sé il cane, né il corno per
invocare soccorso. Fuggire non era possibile."
"Poveretta!", esclamò Cinzia,
"E la poveretta non vedeva altro scampo che nel suo
archibugio. Se colpiva era salva; se non colpiva addio la
vita."
"Oh Dio!", esclamò questa volta Barbara.
"C'è davvero da rabbrividire. A un tratto, come se si
svegliasse da un brutto sogno, si sdraiava, puntava, sparava.
Quantunque la belva avesse sobbalzata non pareva colpita. La
fanciulla per la salvezza correva verso un albero, ne tentava la
salita. Il lupo, che la seguiva, vi giungeva quando non poteva più
nuocere."
"Meno male!", esclamarono con sollievo le ascoltatrici.
"Vedeva poi dall'alto il lupo a terra; lo vedeva rialzarsi,
cadere ancora, dibattersi, sussultare, dare i tratti. Finalmente
lo vedeva disteso, immoto, per sempre.
Non aveva fallito il colpo ed era salva.
Altro giorno, nel suo gironzolare, trovandosi in fondo alla
valle, guardava lo scorrere vorticoso tra i sassi dell'acqua.
Stava sola e, come dice il poeta, senz'alcun sospetto quando
s'accorse che due occhi erano su di lei, non di lupo questa
volta. Ne rimase colpita. Dopo un po' di titubanza richiamò il
cane e riprese la salita.
Il cavaliere, al quale appartenevano i due occhi, la raggiunse.
Avvenne tra i due una conversazione che io conservo trascritta.
Se non vi dispiace vado a prenderla."
Andava, tornava, ne faceva la lettura.
"Non credo ancora ai miei occhi poiché non credo alle
favole. Mi par di sognare. Ditemi, bella ninfa, se non siete
Diana a quale altra deità appartenete? Non m'avvenne mai, nel
mio girovagare, d'incontrare nella solitudine delle valli, nei
silenzi dei boschi, sulle rive dei torrenti donna come voi e
armata.
Mal si concilia un ordigno di guerra con la gentile violetta,
colma di tenue profumo.
Ditemi: se non siete una napea chi siete?"
"Sono una che vive. Se mi si dovesse attribuire un nome mi
si chiami pure Diana o Lucina, se il nome vi sembra più bello.
Diana, m'intendente?"
"Diana! Ne conosco le vicende. Diana in tutto?"
"In tutto: nei sentimenti, nei propositi, nei sogni."
"Non mi vorrete trasformare, come Atteone, in cervo. Quando
vi ho ammirato, a ogni modo, non eravate nuda nell'acqua, per il
bagno."
"Non ne ho il potere. Sono mortale. E ora lasciatemi andare
e voi continuate per la vostra strada."
"Sono sulla mia strada. Debbo giungere, per ordine del mio
signore, a Poggio Umbricchio."
"Signore! Poggio Umbricchio e Senarica hanno nel Doge il
proprio signore. Siete quindi su una strada non vostra. Ne
potreste essere anche arrestato."
"Ne sarei felice. Siate però buona. Avete detto che vi
chiamate Lucina."
"Diana si chiamava pure Lucina. Altro è il mio nome."
"Quale?"
"Francesca."
"Nome altamente lirico, eternato nella più dolce delle
cantiche, dal più grande dei poeti."
"Molte cose sapete."
"Tante quante ne occorrono per vivere con dignità in una
società di sfaccendati."
"Venite di molto lontano?"
"Non molto. Ho con me, ed è fermo nel bosco, il mio
scudiero."
"E ora tornate indietro. Andate a raccontare ai vostri amici
sfaccendati, con gli abbellimenti della fantasia, l'incontro nei
boschi con Lucina."
"Sono troppo avanti per tornare indietro. La meta d'altra
parte deve essere raggiunta."
"Ma quali ragioni vi spingono verso Poggio Umbricchio?"
"Lo saprete, ma più tardi."
"E venite non però nella veste di Endimione."
"Gli eventi umani sono nelle mani del fato. Scusate: questa
strada, con la sua scabrosa tortuosità, è degna dei lupi.
Strada pure pericolosa. Lo dicono questi macigni giganteschi
precipitati, rovinosamente, da quei picchi d'aquila, da dove
altri macigni, come si vede, stanno per precipitare. Non è da
tutti percorrerla."
"Strada che consente di vivere fuori della cattiveria del
mondo. Pure ha una storia meravigliosa, da pochi conosciuta. Su
questa strada i diecimila cavalieri di Ambrogio Visconti, che
tante città avevano saccheggiate, furono affrontati e
sbaragliati da un pugno di montanari, che vi conquistarono
imperitura gloria.
Da quell'episodio, per la liberalità e per l'ammirazione della
regina Giovanna, nacque la più piccola e la più famosa
repubblica della storia.
La rocca è inespugnabile. Chi s'avventurasse a salire ad essa
con cattive intenzioni non tornerebbe indietro. Anche quei
macigni lassù vigilano sulla sua sicurezza. Siete
avvertito."
"Ne prendo nota. Più che gli uomini mi fanno pensare quei
macigni, contro i quali, quando venissero giù, non ci si
potrebbe proprio difendere. O fuggire, se ci fosse tempo, o farsi
schiacciare. Fuggire, specialmente per un soldato, è la perdita
della vita. Alternativa tremenda. Ma lunga è questa via. Non
temete d'aggirarvi da sola per questi dirupi? Gli uomini ovunque
tendono insidie."
"Ho in mia difesa il corno, il cane, l'archibugio. Stiamo
per arrivare. Ecco mio padre che ci viene incontro. Anche lui,
secondo lo spirito dei tempi, è stato un po' cavaliere di
ventura. Venite. Ve lo presento.
Mio padre, Gianberardino di Ciantro, feudatario di Poggio
Umbricchio, di Poggio Ramonti e di Altavilla, doge della
Serenissima repubblica di Senarica. Ora dite a mio padre che
siete voi."
"Consentitemi innanzi tutto che io m'inchini dinanzi a tanto
nome. Le conchiglie più sperdute nascondono le perle più
luminose. E' il caso che guida a scoprirle. Il caso questa volta
è stato con me benigno.
Il mio nome? Molto modesto: Angelo Castiglione, signore e
feudatario di Penne di altre non lontane contrade. Modesto il
nome; ardite le aspirazioni. Luci vive fiammeggiano sulla mia
via.
Ognuno ha il dovere di spingersi sempre più avanti, sempre più
in alto. O si progredisce, nella vita, o si muore. E' ciò nelle
comuni leggi. Se il cielo non mi sarà sfavorevole, i miei
discendenti non dovranno essere scontenti di questo loro
antenato."
"Lodo, o giovane, nel forte spirito, la vostra baldanza. Voi
siete degno della vostra famiglia che io so molto antica. Anche
la mia famiglia è antica. Compariva nella storia, presso a poco,
quando con Berardo de Castellone, compariva la vostra. Federico
II il re poeta affidava ad essa nel 1239, con Andrea, la custodia
su questo poggio di prigionieri lombardi. Nel 1279 la mia
famiglia era feudataria.
Progredirono i miei ma con me purtroppo tutto finisce. L'onore,
l'avvenire, i sogni di grandezza rimangono affidati a questa
figliuola, la quale vuol rinunciare alle gioie terrene per
consacrarsi, suora, a quelle del cielo."
"Sogno un po' di tutte le fanciulle elette!", replicava
il Castiglione. "Sogno che dura sino a quando non rintrona
nella valle il suono del corno, non appare sotto il castello il
bruno cavaliere.
Non sembra poi che questa fanciulla che gira armata, che sfida i
pericoli, abbia predisposizione alla quiete monacale."
"Voi mi confortate, nobile giovane. Speriamo che questo
cavaliere non tardi a giungere."
"Forse no. Forse è già in vista."
L'anima di Francesca s'illuminava dinanzi a quell'incontro e a
quel parlare di luce nuova. Endimione penetrava dolcemente nel
suo cuore ribelle.
Non era trascorso un anno che la ninfa delle acque e dei boschi,
la soave Lucina, in una grandiosa festa legava la sua fervida
giovinezza non al monastero, ma al nobile cavaliere giunto da
Penne e aveva per dote il feudo di Poggio Umbricchio, ormai
separato per decreto del re Cattolico dalla repubblica di
Senarica.
Ecco che cosa è scritto in questo libro. Così al nome secolare
della famiglia Ciantro, subentrava in questo feudo, con il titolo
di barone, la non meno secolare famiglia dei Castiglione, dalla
quale abbiamo l'onore di discendere.
Mio marito, che ne ha il possesso e i titoli, è appunto un
discendente dei Castiglione e si chiama Gianbattista, io Rossana.
Voi?"
"Bella la novella piacevolmente letta. Altra novella avevamo
udito raccontare di altra castellana, di altro cavaliere, giunto
pare su questo colle da lontano. Ma novella tragica.
Noi come ci chiamiamo? Cinzia io, Barbara la mia amica. Non
abbiamo molti titoli, ma non siamo del volgo."
"E' manifesto. I vostri mariti?"
"Lontani, per la vita di Venezia, per la difesa di Roma, per
la gloria d'Italia. Ma diteci: non avete altro da raccontare di
questo poggio?"
"Sì, purtroppo. I banditi, occupandolo, ne avevano fatto,
qualche anno fa, la loro roccaforte. Qui, negli ultimi anni,
opposero alle truppe del gran re, nostro signore, una resistenza
degna di miglior causa. Le donne, loro mogli, come si racconta,
non furono nell'ardimento inferiori agli uomini. Sapete chi però
ebbe soprattutto a pagare le spese? Proprio noi, avendo trovato,
nel tornarvi, tutto distrutto. Si salvò tra tanta rovina, come
un miracolo, la sola piccola chiesa che è qui sotto, loro ultimo
rifugio."
"Lo sappiamo."
"Come fate a saperlo..."
"Ve lo diremo. Quale concetto avete di quelle donne
guerriere?"
"Lo stesso concetto che abbiamo dei banditi loro mariti.
Donne diaboliche."
"Quale concetto avete di noi?"
"Non mi sembrate donne comuni."
"E' vero. Noi siamo appunto quelle donne che combatterono su
questo poggio per una idea santa. Noi siamo mogli di quei banditi
che ricordando di essere romani, non intendevano vivere da servi.
Banditi i soli che, nella loro libertà, tennero alto e acceso lo
spirito guerriero; alta la dignità italiana.
Banditi che mentre gli altri imputridivano nell'oziosa viltà,
corsero a difendere, con il sangue, la civiltà latina e
cristiana.
Ecco chi erano i banditi che combatterono su questo poggio.
Ne volete conoscere meglio i sentimenti? Leggete questa lettera,
vi prego."
E Barbara porgeva e Rossana prendeva a leggere la lettera scritta
da Spalato da Santuccio.
Era evidente la commozione che quella lettera destava in lei.
Abbracciava alla fine e baciava Barbara e Cinzia, esprimendo, per
i loro mariti, tanta ammirazione.
"Molti eventi s'ebbero a svolgere, nel fluire del tempo, in
questa contrada", aggiunse. "Voi donne vi avete scritta
un'altra meravigliosa pagina che non sarà mai cancellata dalla
storia. E ricordati degnamente saranno i vostri mariti."
Intanto il sole era scomparso dietro i monti della laga. Stettero
ancora un po' a contemplare mute il salire delle ombre, mentre il
cielo si riempiva di luci, i dintorni di stridii, gli animi di
pensieri.
Dopo si ritirarono, per la cena e per il riposo, nelle stanze del
castello.
Durante la cena raccontò alcuni episodi del tempo della
rivoluzione di Napoli, che s'era estesa anche negli Abruzzi,
sostenuta qui, molto stranamente, dal duca Carafa di Castelnuovo.
A Penne il solo padre, Angelo Castiglione, s'era mantenuto fedele
al re, per la qual cosa nel 1647 dovette fuggire, lasciando alla
mercé dei rivoltosi i beni e la famiglia. Egli, allora
giovinetto, rammentava tutto benissimo. Ebbero a vivere in quei
tragici giorni ore di trepidazione e d'angoscia, ché il popolo,
imbestialito, devastava, uccideva, dava al fuoco i beni, allo
scempio i morti.
Suo padre riconquistò con la truppa messa a sua disposizione,
Montepagano e mantenne nell'ordine i paesi del territorio tra il
Vomano e il Tronto.
Concludeva col dire che l'umanità non era che un mare in
movimento, con qualche bonaccia, con molte tempeste.
Dopo la cena il sonno cadde sulla valle, sul castello, sugli
uomini.
Cinzia e Barbara rientrarono a Campli, dal mistico
pellegrinaggio, dopo qualche giorno.
Giunse, intanto, altra lettera di Santuccio ad annunziare, col
consueto entusiasmo, altre vittorie sui turchi.
Gli amici, come al solito, corsero a darne notizia al buon de
Adamnis.
"Non ho mai dubitato del valore dei nostri", egli
disse. "Soltanto i pusillanimi, nel cuore dei quali nessuna
luce mai di vita e di bellezza palpita, ne potevano dubitare.
- Giova il sacrificio? - mi si potrebbe domandare. Senza dubbio.
Quando nell'autunno si spande a larghe mani il seme sembra che la
terra non se ne accorga. L'inverno che segue, pare, a sua volta,
che con le gelide bufere tutto sommerga e distrugge. Squallore
regna nei campi.
Ma la natura non fa che svolgere, nel suo segreto, le eterne
leggi, i suoi mutevoli eterni cicli. Muore nella neve ma per
risorgere più bella in ogni primavera novella.
L'Italia, con Roma, secondo i decreti ignoti, toccava l'apogeo
della sua grandezza. L'Italia, con Roma, tornerà a risplendere,
con la fatalità, nel tormentato buio del mondo.
Allora nessun piede straniero calpesterà più, burbanzosamente,
questa terra sacra alla divinità.
In Dalmazia i nostri spargono col sangue quel seme che, come
quello del buon agricoltore, dovrà rigogliosamente fruttificare
nei secoli futuri.
Non deludono le leggi che regolano le vicende del mondo e della
vita.
Non deludono, purtroppo. Sulla mia casa, afflitta dal più
crudele inverno, non tornerà più a risplendere la primavera;
nessuna luce potrà più diradare le tenebre dalle quali è stata
d'improvviso avvolta; nessuna fiamma potrà riaprire il cuore
della speranza.
Sono ormai un uomo finito, amici. La mia anima, già tanto
vigorosa, sanguina senza possibilità di guarigione. Sono ormai
anch'io, come la mia compagna, sulla via che conduce al regno del
silenzio. Io presto me ne andrò. Ma voi, come sacro dovere,
dovete rimanere; dovete lottare; dovete vincere per godere quel
poco che è dato godere su questa dolorosa valle, raramente
illuminata da squarci azzurri di cielo."
Gli amici lo ascoltavano con profonda pietà. Molte ore liete
avevano trascorse in quella casa, illuminata dalla grazia d'una
dolce donna, che incoraggiava a vivere e a sperare. Era ora
trasformata in un buio luogo di dolore e di pianto.
CAPITOLO TREDICESIMO: Lettera di Giulio a Cinzia. Lettera di
Barbara a Santuccio. Partenza da Spalato per il luogo di
combattimento delle bande di Santuccio di Froscia e di Giulio
Montecchi. Arrivo a Sebenico quindi nella zona di Citelut. Primo,
secondo, terzo combattimento, tutti vittoriosi. Morte a Teramo
del fiero patriota de Adamnis. Ultimo vittorioso combattimento.
Giulio a Cinzia:
"L'ansia degli eventi di guerra, come già ti dissi, mitiga
in qualche modo la pena della lontananza. Già più anni sono
passati dalla partenza, pure queste montagne che molto somigliano
alle nostre, hanno avuto il potere di farci vivere in una
continua cara illusione. Vi abbiamo condotto, d'altra parte, la
stessa vita di movimento e di lotta. Allora avevamo di fronte gli
spagnuoli, miti piuttosto; ora i turchi, generalmente brutali.
Non ti spaventare, ché noi, con la nostra speciale tattica, li
abbiamo nei combattimenti sempre sconfitti. Ma la partita non è
ancora chiusa. Essi rumoreggiano ancora intorno a noi; noi non
abbiamo ancora scritto la nostra vera pagina.
La fiducia riposta in noi da Venezia non è stata né sarà
delusa. Le imprese più difficili sono state e saranno sempre a
noi affidate. D'altra parte la Serenissima, in ogni occasione e
nel modo più largo, ci manifesta la sua gratitudine.
Compiute vittoriosamente le operazioni di Grecia e di Macedonia
avemmo l'ordine di tornare verso la Dalmazia, ove trovammo
Santuccio. Anche lui con la sua banda aveva condotto azioni
vittoriose contro le brigantesche orde turche-slave, sui monti
Dinarici. Ora siamo qui in attesa di altri ordini. Titta è stato
inviato a Traù, altra gentile cittadina dalmata, dal puro sangue
italiano.
Santuccio e io facciamo frequenti salite su queste alture per
spingere lo sguardo e il desiderio verso voi che siete di là dal
mare, di fronte a noi. Parliamo sempre con rimpianto delle nostre
case, delle nostre montagne dove forse non torneremo più. Non
siamo nati per vivere in ischiavitù.
Penso con nostalgia ai nostri figli, che non sono più bambini.
Penso pure se non sia il caso di collocarli, per le loro
educazione, in seminario, come ha fatto Titta per il figlio
Giuseppe. Io non sono scontento di esservi stato. Studiare in
seminario non significa vincolarsi al sacerdozio.
E' piacevole e utile possedere una coltura. E' vero che al segno
di croce che il Doge di Senarica apponeva agli atti il
cancelliere aggiungeva: - Non sa scrivere perché galantuomo. -
Ma si può saper scrivere ed essere galantuomo. Non si deve
esagerare sui pregi dell'ignoranza. A me sembra come se si
vivesse, in tale stato, in una eterna notte. Se fossi analfabeta
come tanti altri non avrei oggi la gioia di mettere su questa
carta le mie idee, le mie pene, la mia passione. Nel
raccoglimento di questa mia cameretta è come se io stessi a
conversare, mentre scrivo, con te e di sentire la tua voce, il
tuo respiro, il tuo profumo quasi la tua carezza.
Fa studiare adunque i figli e saremo da essi benedetti un giorno.
Non so perché, spesso mi tornano alla mente le parole del mago
di Nepezzano. Ho visto, certo, in Venezia la città che sorge dal
mare, in Dalmazia i monti non nostri. Non ho visto ancora la
colonna di marmo... Questi stregoni, con i gufi, i serpi, i
vecchi logori libracci hanno un notevole potere profetico. Sarà
quel che sarà. Qualunque siano gli eventi non potranno non
essere da te accettati, con il consueto sereno spirito.
Altra sorte doveva però esserti riservata, buona Cinzia.
Talvolta il rimorso mi punge di aver legato la tua alla mia vita
di bandito. Bandito però che ha fatto risuonare nella profondità
del tuo animo una voce che altri, nei loro scialbi ozi non
sarebbero stati capaci di far risuonare.
Sono stato bandito è vero, e ne ho compiuto gli atti. Ma altri
atti ho pure compiuti di sana rinomanza. E la mia giornata non è
ancora finita.
Se non dovessi tornare non disperare. Quando di maggio tornerai
nella casa paterna va alla nota finestra e ascolta. Forse nelle
voci che salgono dal giardino vi potrà essere l'antica voce,
mestamente lirica.
- Notte deliziosa, buona Cinzia. Anche il tuo nome è in armonia
con la bellezza che ci circonda. Lirico nome. Notte da
innamorati! -
Ricordi? La luna, le stelle, la vita tramontano; ma la gloria non
tramonterà che con l'ultimo raggio di sole, dopo il quale il
mondo rientrerà nella eterna oscurità."
Questo ed altro scriveva Giulio a Cinzia, con mestizia.
Barbara a Santuccio:
"Le tue lettere, non appena giungono, fanno accorrere, ed è
naturale, i parenti di coloro che con voi combattono e i buoni
italiani che tanto si entusiasmano dei vostri trionfi. Molti
vengono per notizie pure da Teramo e fanno i loro più o meno
benevoli commenti.
Ma mandano per notizia anche i nostri ineffabili padroni
spagnuoli, i quali, con la vostra partenza, non mettono più
limiti alle loro prepotenze. Nessuno più ha il coraggio di
elevare la sdegnosa protesta. Si limitano i migliori a
rimpiangere il passato. Sempre così.
L'altro giorno Cinzia ricevette lettera dal suo Giulio, assai
accorata.
Ne sono rimasta colpita. La sorte di Giulio è legata senza
dubbio alla tua sorte.
E' vero che non tornerete più? Questo è un altro nostro
tormento. La schiavitù non dovrebbe tanto spaventare quando vi
sono grandi affetti ad alleviarla. Ma se non tornerete voi
verremo noi, a guerra finita, in Dalmazia. E' sempre terra
italiana.
Spesso per distrarci facciamo passeggiate. Molto mi attrae il
colle, ove fui prigioniera dei banditi: tua prigioniera. Spesso
vado a Boceto a inginocchiarmi dinanzi al quadro di Sant'Antonio,
ai piedi del quale tu sei chinato in preghiera. Anch'io prego,
per la tua salvezza. In chiesa, mentre il suono dell'organo si
diffonde e il canto s'eleva, il mio animo viene a te colmo di
tenerezza.
Se ne avessi la facoltà quante cose belle vorrei scrivere. La
mia infanzia era stata circondata, nell'antica casa paterna, da
amorevoli cure. Crebbi in istituto di suore. Fortificai la
giovinezza in quello spirito forte che mi condusse a correre con
le armi sugli spalti per difendere il luogo natio.
Poi la cattura, la notte d'ansia, i banditi che cantavano, un
bandito mi parlava d'amore.
- Voi siete bella, gentile Barbara... più bella della primavera
che penetra maliosa nei nostri pensieri, nei nostri cuori, nel
nostro sangue, nella nostra vita. -
Ricordi? Io, nei miei diciotto anni, non avevo mai inteso un tal
parlare.
Poi?... Poi il resto. Ora la dolorosa lontananza, la penosa
attesa.
Tempo fa Cinzia altri ed io andammo, come per pellegrinaggio, a
rivedere il poggio sul quale accendemmo quella luce che
difficilmente si spegnerà nei secoli. Ciò che vi provammo non
è possibile ripetere. Sembra che non vi siano parole per poter
esprimere certi sentimenti, nascosti come gemme nella profondità
dell'anima. E rivedemmo la piccola chiesa, dove si pregava.
La sera, quando le ombre riempirono con la mestizia la valle, i
boschi, i monti pregammo ancora per voi."
Così Barbara a Santuccio.
I turchi, dopo le gravi sconfitte di Grecia, ridivennero, per la
rivalità tra gli Stati europei, pericolosi. Il loro disegno di
ricacciare i veneziani dalle terre conquistate era evidente.
La moralità politica di allora, che si reggeva sull'egoismo e
sulle ragioni dinastiche, non faceva sperare una duratura intesa
tra le case regnanti per una comune difesa contro la minaccia
maomettana.
Anche sul prode principe Eugenio, al servizio dell'impero, non si
poteva fare sicuro assegnamento. Venezia, quindi, nonostante le
promesse, non poteva fidare che soltanto sulle proprie forze e su
quelle dei volontari aprutini, che già tante prove di fedeltà e
di valore avevano dato sui diversi campi di battaglia. Per tali
ragioni aveva fornito i mezzi affinché Domenicantonio Montecchi,
fratello di Giulio, tornasse a Offida per arruolare i banditi là
rifugiati dal teramano, allo scopo di reintegrare le perdite.
All'inizio del 1697 le tre bande, ricostituite nella loro forza
iniziale, si trovavano ancora a Spalato e Traù.
I maomettani intanto rioccupate alcune contrade, minacciavano di
nuovo la Dalmazia. Il riposo non sarebbe durato ancora a lungo.
Giunse infatti a Spalato, in uno di quei giorni, un ufficiale
della repubblica, che disse a Santuccio e a Giulio:
"La Serenissima, e voi lo sapete, considera le vostre bande,
e a giusta ragione, tra le migliori sue truppe. In ogni occasione
avete dato prove tali che non vi possono essere più dubbi su la
vostra bravura. Nessuno come voi ha capito l'importanza della
strenua lotta della repubblica contro una aggressione che se
trionfasse verrebbe a travolgere tuta la nostra millenaria civiltà.
Noi la difenderemo questa civiltà, a qualunque costo, sino in
fondo. Si spera che gli altri Stati, anche essi minacciosi, lo
comprendano e si schierino, per una comune difesa, ancora una
volta al nostro fianco. Nel caso contrario Venezia saprà fare da
sé, con le sole sue forze, tra le quali annovera le vostre forze
e dove siete voi, come avete ben dimostrato, nessuno passa. Voi
state scrivendo, nel vostro poema, un'altra splendida cantica.
Vengano un giorno gli increduli a frugare nei nostri archivi!
S'inchineranno pensosi dinanzi ai vostri nomi, stampati nella
nostra storia a caratteri d'oro.
E' poi nostra intenzione, come già si fece per i superstiti del
prode Marco Sciarra, di eleggervi cittadini della repubblica in
modo che, a pace conclusa, possiate godere i diritti e i benefici
che oggi vi derivano dallo stato di guerra.
Figli della laguna, non tornerete più a vivere figli sperduti e
perseguitati della montagna. Le vostre famiglie verranno a vivere
con voi.
Io sono stato inviato qui non per essere vostro capo, ma soltanto
per coordinare i vostri movimenti, come già in Grecia, con
quelli delle truppe della repubblica.
Siamo di nuovo minacciati dalla parte delle Alpi Dinariche.
Faremo tutto il nostro dovere, sino al sacrificio, per sottrarre
l'Europa da un'altra invasione degli unni. E voi sarete con
noi."
"Sino al sacrificio", rispose Santuccio e aggiunse:
"spesso ci accusano di gente primitiva, ma non lo siamo. Sin
dal tempo di Roma noi possedemmo una civiltà molto elevata e un
carattere forte. Roma trovò in noi nemici formidabili quando ci
volle dominare con la violenza e la lega italica di Corfinio lo
prova; amici fedeli quando tenne con noi altra condotta e noi
fornimmo, per le sue conquiste, le migliori legioni. Abbiamo però,
degli uomini primitivi, l'anima semplice e siamo per natura
testardi. Abbiamo detto che dove siamo noi gli infedeli non
passano. Ebbene, non passeranno.
Non diremo altro per oggi. Non possiamo però non esprimere alla
Serenissima, per la fiducia riposta in noi e per l'offerta della
sua cittadinanza, la nostra gratitudine. Non sappiamo se
riusciremo a distaccare dalle nostre montagne la nostra anima. Il
Gran Sasso, quel grande monte che costituisce il cuore della
penisola, con l'imponenza, le caratteristiche, le sue bizzarre
guglie pietrose ci tiene avvinti.
Ma ciò è d'ordine secondario. Noi oggi ci consideriamo figli
della laguna e per essa combatteremo con tutte le nostre forze,
per la vita e per la morte. Dopo chi vivrà risolverà gli altri
problemi."
Mentre Santuccio parlava il messo di Venezia ne osservava le
fattezze, i lineamenti regolari del volto bruno, ornato da due
piccoli baffi e da occhi grandi e neri, melanconicamente velati.
Ma osservava pure il Montecchi, dal volto simpaticamente pallido,
dagli occhi espressivi, dalla ricciuta capigliatura, che
ascoltava raccolto e pensoso.
Sotto quell'apparente mitezza leggeva però la forza dei
propositi, la fierezza della robusta razza alla quale essi
appartenevano.
Da tutto ciò deduceva che quei capi, con le loro bande,
avrebbero assolto con onore il duro compito ad essi assegnato.
I turchi, mentre a Spalato si parlava e si pensava, s'erano già
messi in movimento per la conquista della Dalmazia e di altre
terre. E invero il giorno dopo entrava nel porto, a vele
spiegate, una galeotta che portava il seguente urgente ordine:
"I turchi hanno già iniziata la grande offensiva. Superata
la catena delle Alpi Dinariche e vinta la prima debole resistenza
si lanciano alla conquista dei monte Gandi. Momento molto
pericoloso. Vi è stata già inviata da Sebenico la banda del
capitano Titta Colranieri. Le bande dei capitani costì ferme,
sulle quali si fa sicuro assegnamento, appena giunto il naviglio
già inviato, dovranno partire, per la difesa dei monti Santo
Stefano e San Salvatore, seriamente minacciati.
Si diano chiare istruzioni e sicure guide."
Gli eventi precipitavano. Dopo gli accordi i pretuziani mossero,
ordinati e composti, accompagnati dal saluto e dall'augurio della
cittadinanza, schierata lungo il passaggio, verso le navi, sulle
quali subito s'imbarcarono.
"Tornate, tornate presto e vittoriosi", si gridava da
terra.
"Torneremo", si rispondeva dal mare, "e vi
porteremo la barba di Maometto."
Quel naviglio lasciava Spalato che era già notte. Notte serena,
vivida di stelle. Soffiava un venticello piacevole che increspava
le acque, gonfiava le vele.
Nessuna preoccupazione, in quella truppa, per i prossimi eventi.
Dopo qualche canto scendeva essa tranquilla di sotto, per il
notturno riposo.
Santuccio e Giulio, rimasti a poppa, osservavano silenziosi
l'andare delle galee: andare che aumentava con l'aumentare del
vento. La ciurma, non essendo necessario l'uso dei remi,
anch'essa riposava tranquilla.
"Perché non parli Giulio? Quali pensieri ti turbano?"
"Non sono tranquillo, Santuccio. Io non credo ai sogni,
belli o brutti che siano. Eppure nella decorsa notte feci un
sogno che mi ha non poco scosso. Questa volta certo la nostra
impresa è ardua. I turchi, quando vogliono, sanno combattere con
il loro fanatismo e con le loro barbariche orde. Usciremo dalla
nuova prova senza dubbio vittoriosi. Ma... quel sogno... Non è
che io abbia paura di morire...
Ti ricordi, Santuccio, la notte di Campli? Quanti eventi da
allora! Quella notte, già tanto lontana, torna a me con il riso
e con il pianto della divina anima innamorata.
Povera Cinzia! Meglio per lei se io avessi continuato lo studio
per la tranquilla vita sacerdotale. Ora? Il romanzo continua. Non
sono superstizioso, te lo giuro, Santuccio; ma quel sogno, che mi
rese angoscioso il sonno, mi pesa terribilmente sull'anima."
Coraggio, Giulio. Anch'io, tu lo sai, amo la mia Barbara e ci
scambiammo affettuose lettere; ma non mi lascio vincere dallo
scoraggiamento. Sarà di noi quel che sarà. Se fummo banditi,
non fummo predoni. Cercammo sempre di difendere, nella libertà,
le ragioni sante d'Italia. Qui abbiamo dimostrato di essere
soldati di fede e d'onore.
Molto abbiamo già fatto; molto certo dobbiamo ancora fare. Su
uno di quei monti affidati a noi dalla città che sorge dal mare,
in cui i maomettani troveranno la loro tomba, s'eleverà la
colonna che dovrà proiettare nel tempo la luce eterna della
gloria."
"Santuccio, hai gettato un fascio di luce sull'oscuro enigma
del mago di Nepezzano. Hai ripetuto, con medesimo senso
profetico, quasi le stesse parole. Su quella colonna dovranno
essere incisi molti nomi; uno a grandi caratteri. Di chi sarà
quel nome?
Le notti della montagna, con le ombre e i misteriosi suoni, ci
conducevano a vivere quasi fuori del senso della vita. Anche
questa notte, che vivissimo nel sospiro largo del mare, sconvolge
la mia anima.
Santuccio, quel nome forse sarà mio."
"Perché dovrà essere tuo, Giulio? Potrebbe essere, se mai,
mio; potrebbe essere di Titta. Ma basta con questi discorsi cupi
come la notte che ci circonda. L'aurora non lontana rinfrancherà
i nostri spiriti. Noi andiamo verso la vita che non tramonta, non
verso la morte."
Intanto si presentò ad essi il comandante della galea, al quale
Santuccio, per iniziare una conversazione qualsiasi, domandò se
era molto tardi.
"Le stelle, nel loro eterno regolare movimento, dicono che
si è superata di tre ore la mezzanotte."
"E' ancora molto lontana Sebenico?"
"Abbiamo superato, grazie al vento favorevole, la metà del
cammino. Se nulla muta vi arriveremo nelle prime ore del giorno.
A Sebenico aspettano con ansia il vostro arrivo. I turchi, giunti
nel territorio di Citelut, stanno per attaccare i monti che
costituiscono l'ultimo baluardo della Dalmazia. Il pericolo è
grave. Una vostra banda è stata già mandata da quelle parti.
Voi, come è nella comune credenza, rappresentate la
salvezza."
"Ci adopereremo nel miglior modo, per sacro dovere, per
impegno d'onore. Amiamo Venezia, che sa tenere altro il prestigio
latino."
"E' vero. Anche il Piemonte ha, in tal senso, alte
benemerenze."
"Ha anch'esso, senza dubbio, fiammate d'italianità, ma è
soffocato dai forti Stati che lo circondano. Il prode principe
Eugenio è per necessità al servizio dello straniero.
Non è da escludere però che i figli delle Alpi non debbano
anch'essi scrivere, nella storia d'Italia, la loro pagina
gloriosa.
Diteci: non si incontrano più pirati da queste parti?"
"Da qualche tempo non danno più segni di vita. Venezia ebbe
a fare contro di essi una guerra spietata ma santa. Sembra che i
superstiti si siano rifugiati, protetti dai loro amici
maomettani, nelle isole dell'Egeo.
Non visitavano questi signori, briganti del mare, la vostra
terra?"
"Qualche volta, ché avevano un sacro terrore dei nostri
banditi."
"Conosco un po' anch'io i vostri banditi. Una volta approdai
nella rada di Ortona per caricarvi grano. Scendemmo, io e i miei,
cercammo, domandammo, senza nulla rinvenire. I banditi appunto,
con un colpo di forza, avevano fatto prendere a quel grano altra
direzione. Dove vivono?
"Negli antri dei monti", rispose Giulio. "Non ne
escono che di notte, con i lupi, e assaltano, predano, uccidono.
Ne abbiamo anche noi, in questa nave, pronti a mettere fuori gli
artigli."
"Carico pericolo, dunque, il mio, questa volta."
"Si, non per voi, ma per i nemici di Venezia, per i
tormentatori d'Italia."
Quando, attraverso le tante isole, le galee entrarono, con
vento favorevole, a Sebenico, il sole era già alto. Le bande di
Santuccio e di Giulio, dalle brune divise e in assetto di guerra,
scesero tra due ali di popolo plaudente. Le ragazze, sempre prime
nelle patriottiche manifestazioni, distribuirono, gioiose, fiori
e sorrisi.
Dopo il saluto delle autorità, poiché non vi era da perder
tempo, le bande ripresero il cammino verso la zona minacciata di
Citelut. Vi giunsero a buona andatura quando gli infedeli, con
preponderanti forze, stavano per vincere le ultime resistenze.
Vedevano già, i novelli unni, aperte le vie per la discesa
trionfale verso la pianura dalmatica. Vedevano le linde
cittadine, ricche di oro e di monumenti, da saccheggiare. Erano,
sulle raggiunte cime, festanti, quando si lanciarono su di essi,
da ogni parte, come folgori a ciel sereno, i lupi del Martese.
Spari d'archibugi, suono di corni, urli, rumori di percosse,
violenti tafferugli, lamentevoli rantoli.
Le unghie dei lupi si conficcarono spietate nelle gole degli
orsi. Dopo una disperata resistenza, i maomettani erano
ricacciati, disfatti, in fondo valle. Ma avendo molte riserve, il
giorno dopo, con nuove truppe, ripresero la salita. Sul tramonto,
in vista del campo di lotta, il comandante dispose per la sosta
notturna. Sull'alba, dopo il riposo, si sarebbero lanciati al
nuovo assalto, sicuri del successo.
Prima che il sonno scendesse sul loro campo, prostrati a terra e
rivolti verso la Mecca, secondo il proprio rito, elevarono ad
Allah la preghiera, che si diffuse come un lamento nella notte.
Stavano, nell'esaltazione mistica del loro fanatismo,
profondamente assorti, quando d'improvviso si rovesciò su di
essi una nuova tempesta di proiettili, entrando subito dopo in
funzione e unghie e lame di pugnali ben affilate.
La fuga verso il basso salvò i superstiti.
Dei giorni che seguirono gli aprutini, dopo di aver respinto un
terzo violento attacco, resero onore e sepoltura ai caduti.
I comandanti si raccolsero per le loro considerazioni.
"I nostri pugnali e le nostre unghie", disse Santuccio
a Giulio, "hanno sin qui trionfato sulla scimitarra. I figli
pallidi della mezzaluna torneranno, senza dubbio, in maggior
numero e con maggiore violenza, alla quarta prova. I nostri non
cederanno, ne sono sicuro. Parevano non uomini, nella lotta, ma
spiriti folli sorti dalle tenebre. Non deluderemo Venezia, né le
care cittadine che si specchiano bianche sul mare. Non
arretreremo, a ogni modo. Se noi cadremo anch'essi gli infedeli
cadranno, ma i nostri corpi dovranno pur sempre costituire una
barriera tra la mongolica rabbia e il latin sangue gentile.
Ma ti veggo, Giulio, nonostante le chiare vittorie, ancora
pensoso. Quali altri sentimenti ti tormentano?"
"Non certo, Santuccio, quelli della paura. I banditi del
Martese non conoscono la dea dei vili, né temono la morte. Non
si può, però, in quest'ora difficile impedire alla fantasia i
suoi voli, all'affetto i suoi diritti. Per la prima volta sento
l'animo avvolto da fredda ombra. Torneremo alle nostre
montagne?"
"Forse no. Ormai siamo un po' figli anche della laguna. Noi
che abbiamo avuto da Venezia la nostra seconda vita non possiamo
tradirla. D'altra parte anche la terra di San Marco è terra
italiana. Le nostre famiglie, finita la guerra, verranno a godere
con noi le gioie della pace."
"Bello il sogno. Ma non mi posso adattare, Santuccio,
all'idea che non debba più rivedere profilarsi al mio sguardo,
con la maestosa testa, il paterno Gran Sasso, né più udire la
voce dei nostri boschi, il canto dei nostri fiumi. Non è
possibile. Sono troppo profondamente impressi nel mio cuore i
santi luoghi della nascita e della fanciullezza, avvolti si da
ombre ma anche da divine luci.
Un nero presentimento, dall'altra parte, mi dice che finirò come
il buon Centiolo. Quanti lieti sogni allietavano la sua
giovinezza. Che ti disse mentre si spegneva la vita?"
"Tante cose con un fil di voce. Chiuse la sua esistenza con
la più gentile e santa delle parole: mamma.
"Anch'io tra non molto invocherò i nomi, a fil di labbra:
Mamma, Cinzia!"
"Scaccia una buona volta questi pensieri."
"Ma non posso scacciare la colonna di fuoco del mago di
Nepezzano."
"Dimentica questo maledetto stregone che tanto ha
conturbato, con le sue fantasticherie, il tuo vivere."
E tante altre cose si dissero i due amici, anche in relazione ai
nuovi combattimenti che si sentivano ormai vicini. Dopo,
Santuccio, tornò sul monte San Giovanni, non lontano, affidato
alle sue armi.
Calava intanto la notte ampia, solenne. Ai rumori della luce si
sostituivano, a mano a mano, i rumori delle tenebre che uscivano
dai boschi, che salivano dalle valli, che discendevano dalle
cime. Si sentiva, nell'oscuro avvolgimento, il distacco, quasi,
dalle cose terrene; si sfiorava quasi, con i sensi tesi, il mondo
ignoto del mistero. Pareva che le stelle, con il vivo scintillio,
nel profondo cupo del cielo, parlassero agli umani la voce
dell'eternità.
Il vice comandante Biasiolo, nel buio della notte, esponeva a
Santuccio le notizie raccolte durante la sua assenza su le grosse
colonne di maomettani in marcia d'avvicinamento.
"Domani, comandante", aggiunse, "tutti vedranno il
sorgere del sole, non tutti vedranno il tramonto. Gli infedeli,
con forze fresche, si lanceranno feroci per la rivincita.
Alla nuova notte sarà commesso l'ufficio d'avvolgere i corpi
degli eroi col suo morbido mento. Io sarò forse nel numero di
costoro."
"Curioso. Tutti siete angustiati dal presentimento della
morte. Non è da buon soldato. Anch'io ho persone care, ma non mi
lascio vincere, in questo momento, dagli affetti che mi legano
alla vita.
Andiamo. Le nostre scolte potrebbero chiamare alle armi. Il
chiarore dell'alba annuncia il giorno e non lontana la
lotta."
"Comandante, tu sei forte e capace, tu sei il capo di tutti
noi, il nostro padre. Comandante, ho un segreto, che debbo
rivelare, che a te solo posso confidare."
"Ma è questo il momento di parlare di segreti? Potresti
pentirti di averli svelati innanzi tempo. Me ne parlerai, se
ancora sarà il caso, dopo la vittoria."
"Ma io debbo parlare; è necessario. Non troverei pace se
scendessi nel sepolcro con questo segreto. Ti prego.
Ascoltami."
"Non vi è più tempo. Le scolte chiamano con i segnali
dell'urgenza. Corriamo al combattimento."
I maomettano erano già in vista, numerosi, a falangi serrate,
per l'urto decisivo. Ma l'urto, quando fu compiuto, trovò
dinanzi a sé il vuoto, ché i pretuziani, secondo la loro
tattica, s'erano sparsi qua e là, nella foresta. Capirono però
sin dall'inizio che questa volta sarebbe stata ardua l'impresa di
disfare le orde che inesorabilmente avanzavano verso le cime.
Nelle loro vicinanze la lotta diveniva a mano a mano furibonda.
Cadevano tra urli, imprecazioni e colpi di archibugi e di
scimitarre, gli uni sugli altri.
Durava la mischia già da tempo senza che accennasse a esaurirsi,
quando dalle nubi che coprivano il cielo sfolgorarono
d'improvviso vividi lampi. Rintronò il fragore del tuono. Si
scatenò più tardi, con grandine e folgori, l'ira degli spiriti
infernali. Urlava il vento, sinistramente, nella foresta;
scrosciava l'acqua giù per i valloncelli; urlavano imbestialiti
gli uomini; falciava la morte.
I pretuziani, abituati nei loro monti a quegli uragani, non
s'avvilivano; i maomettani, forse a essi nuovi, ne erano
depressi, ma non cedevano. La lotta diveniva, nella furia, un
corpo a corpo. E i corpi, avvinghiati in strette mortali,
ruzzolavano giù per la china, quando non erano trattenuti dagli
alberi; la grandine colpiva i corpi; l'acqua lavava il sangue.
Pareva che l'ira del cielo e l'ira della terra ubbidissero,
ciecamente, alle occulte forze sterminatrici.
Ma l'ira a poco a poco diminuiva la sua rabbia, la grandine la
sua caduta, il tuono il suo fragore. Si affacciò più tardi, sul
tramonto, dagli squarci delle nubi, pallido nella sua
mortificazione, l'astro della luce.
Con il calar della notte si sospese la lotta. Non era possibile,
nel frammischiamento, continuarla. Gli uomini passarono ancora,
tra gli alberi, da un punto all'altro, come fantasmi. S'udirono
ancora, sotto i passi, scricchiolii di sterpi, fruscii di frasche
e di foglie, rotolamenti di sassi, qualche folata di vento e poi
silenzio.
Era discesa cupa la notte, ma nel cielo, tornato sereno, dopo la
tragedia, fiammeggiavano con luce più viva le costellazioni. E
nel fitto delle ombre, in quel bosco, uomini di due razze, di due
civiltà, di due credenze vegliavano torvi, col cuore gonfio di
odio, pronti a scagliarsi nuovamente, per la distruzione, gli uni
su gli altri.
I contendenti vegliavano con gli abiti bagnati di acqua e di
sangue, con le orecchie aguzze, gli animi tesi.
Vegliavano, ma in quella tenebrosa tregua pensavano, non senza
pena, che la grifagna falciatrice trovava la più larga
collaborazione nella stessa follia degli uomini.
Eppure alto inno s'elevava alla morte incontrata, nella primavera
degli anni, in difesa d'un ideale. Bello era invero morire, come
là si moriva, per ubbidire alle leggi sante della razza e della
patria.
La notte intanto seguiva imperturbabile il suo corso. Le stelle
nascevano e tramontavano, mute, nel loro eterno movimento.
Sorgeva l'alba. Alle prime faville dell'aurora i pretuziani,
riordinati, con nuove energie, con nuovo furore si lanciarono sui
maomettani.
Si riaccese sui tre monti feroce la lotta, che a mano a mano
diveniva quasi individuale. Chi per un momento era costretto ad
arretrare, tornava avanti con nuovo furore. Chi cadeva, anche se
sanguinava, anche se mortalmente colpito, si rialzava per
l'ultimo sforzo. Tutti gli episodi si risolvevano, ormai, tra
urli e bestemmie, con le unghie e i pugnali. Ogni senso d'umanità
era sopraffatto dal risvegliato istinto bestiale.
Essendo il disprezzo della morte, il cieco puntiglio, il valore
uguali nell'uno e nell'altro campo, si capiva che la lotta
sarebbe durata a lungo. Ma all'ultimo in un disperato sforzo, i
pretuziani trionfarono.
Alto splendeva il sole quando suoni di corni annunziarono,
dall'uno all'altro monte, la vittoria.
E Venezia era salva.
Ai superstiti gloriosi non rimase che compiere il pietoso ufficio
di raccogliere i feriti, di dare sepoltura ai morti, avvolti con
i fiori della fede, con il verde della speranza.
Speranza non per loro che la povera vita, compiuta la sua
parabola, scendeva inesorabilmente nella fossa del disfacimento.
Speranza per la patria, realtà viva e indistruttibile, a favore
della quale i pretuziani delle tre bande avrebbero saputo ancora
versare, senza risparmio, il loro sangue.
Tra i caduti apparve il giovane Biasiolo, che aveva combattuto
come un leone. Santuccio rimase a lungo, pensoso, dinanzi al suo
corpo esanime.
Un altro dei suoi valorosi se ne era andato. E portava con sé,
il povero Biasiolo, nella fossa che si sarebbe tra poco aperta
per lui in quella stessa foresta, il suo segreto.
Quale? D'amore, forse. Forse d'odio e di morte. Ma quella tomba,
come tutte le tombe, avrebbe conservato in sé il suo segreto.
Mentre gli eventi di sangue e di gloria si compivano in Dalmazia,
il buon de Adamnis, vinto dal dolore, in un luminoso tramonto,
forse assistito dallo spirito della soave compagna, reclinò il
campo al sonno dell'eternità.
Reclinò il capo mentre sospiravano in giardino i fiori,
stormivano nella campagna gli alberi, piangevano sui tetti i
passeri amici. Sentivano forse essi, con il lamentevole pigolio,
di non avere più il loro protettore. Anche le rondinelle, che
nidificavano in soffitta indisturbate, spinte forse da misterioso
istinto, s'affollarono attorno alla casa in lutto.
Per onorare la sua santa, che sentiva viva nella sua anima, aveva
ornata la casa e le sue immagini di fiori, coltivati in quel
giardino nel quale avevano trascorse tante ore felici.
Nelle notti serene rimaneva a lungo, con lo spirito separato
dalle miserie della terra, a contemplare le stelle, nella
profondità misteriosa del cielo. Pareva come se ricercasse in
qualche costellazione, l'anima gemella.
Ed ora anch'egli era volato, nelle alterne vicende, nelle alte
regioni senza confine.
E la casa, già piena di luce, era rimasta freddamente vuota.
Vivo il compianto, accorato l'addio degli amici a quella figura
nobilissima, che aveva insegnato con l'esempio la pratica delle
virtù, inspirate dal cielo.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO: Glorificazione degli eroi caduti sul
monte San Salvatore. Trascrizione dei loro nomi in una colonna di
marmo ivi innalzata. A Campli muore Cinzia.
La notizia della disfatta degli ottomani nel territorio di
Citelut, a opera degli aprutini, corse in un baleno in tutta la
Dalmazia e oltre, destando ovunque fiammate d'entusiasmo. A
Venezia il popolo, ancora sotto l'incubo della minaccia
maomettana, dalla laguna tutta accorse in piazza San Marco per
sciogliere la sua gioia in una grandiosa manifestazione di
gratitudine.
I pochi abruzzesi che vi si trovavano, facilmente riconoscibili,
erano festeggiati con commoventi dimostrazioni di simpatia.
Anche Balbina, nella esuberante giovinezza, apparve in piazza
particolarmente lieta. Ignorava la poveretta la fine eroica del
cugino Centiolo, oggetto di cari sogni.
Il Doge a sua volta, nella pienezza della gioia, sentì il dovere
d'unirsi al pubblico gaudio. Promise, tra l'altro, di inalzare
sul luogo delle gloriose gesta, a nome della Serenissima, per la
consacrazione dell'evento, una colonna di marmo con i nomi dei
caduti.
La sera, mentre le campane suonavano a festa, i canali della
laguna, con una grandiosa luminaria, assunse un fantastico
aspetto.
Mentre la festa continuava a Venezia, a Campli, dove la buona
notizia non era ancora giunta, Barbara leggeva agli amici altra
lettera del suo Santuccio, nella quale tra l'altro era detto:
"Sino a questo momento i banditi del Martese hanno tenuto,
con il loro valore, alto il prestigio e il nome. Le tre battaglie
già combattute contro gli infedeli sono state vinte in modo
superbo. Molti i caduti, tra i quali il giovane Centiolo.
Ci stiamo ora preparando per la quarta battaglia, forse l'ultima,
che sarà senza dubbio la più aspra. Quando ti giungerà la
presente, essa sarà stata già combattuta e sarà stato già
segnato il nostro destino di vita o di morte. Qualunque esso sia,
noi siamo sicuri che voi l'apprenderete con serenità. Una volta
si nasce, cara Barbara, e una volta si muore. Ma perché rimanga
ricordanza di noi bisognerà morire bene, ciò che noi cercheremo
di fare.
Le bande, per il prossimo cimento che potrebbe essere anche
domani, continuano a rimanere schierate di fronte al nemico, su i
propri posti. La mia è alla difesa del monte San Giovanni;
quella di Titta, del monte San Salvatore; quella di Giulio, del
monte Santo Stefano.
Superbo schieramento.
Questi monti, baluardi della Dalmazia, largamente bagnati del
nostro sangue, non saranno superati dagli adoratori della
mezzaluna. Cademmo piuttosto tutti.
Ci dicono che altre truppe, comandate dal prode principe Eugenio
di Savoia, si stanno coprendo di gloria in Ungheria.
E' sempre l'Italia, come si vede, che offre la nota luminosa del
genio e del valore.
Dopo i turchi, speriamo di poter combattere, con Venezia, come ci
è stato promesso, contro quegli altri oppressori che calpestano
il sacro suolo della patria."
Non erano trascorsi due giorni da quella lettera quando giunse la
notizia dell'ultima battaglia vittoriosa.
Ultima almeno per quel tempo, poiché i turchi, sconfitti e in
Dalmazia e a Zenta, sul Danubio, erano stati costretti a chiedere
la pace, conclusa successivamente e firmata a Carlowitz nel 1699.
Pace era pure, dopo tanti eventi, per le nostre bande.
I superstiti, compiuta così superbamente la loro missione, dai
monti di sangue, tornarono a Spalato, a Sebenico, a Venezia.
Gli altri rimasero lassù, per la glorificazione, in eterna
guardia.
Nel maggio del 1700 colonne di popolo salivano lentamente verso
la cima del monte Santo Stefano.
Quasi nessun segno era rimasto, in quel territorio, della lotta
sanguinosa che vi era stata combattuta qualche tempo prima.
Nei prati verdi pompeggiavano i fiori; nei boschi stormivano le
foglie; sugli alberi cantavano gli uccelli.
La primavera sfolgorava nella sua romantica pienezza.
A mano a mano che toccava la vetta, tutta quella gente, tra la
quale numerosi i superstiti, si disponeva in composto
raccoglimento attorno a un'alta colonna di marmo coperta da un
ampio telo. Un mormorio si diffondeva quando, seguito da numeroso
corteo, giungeva l'inviato del Doge.
Erano con lui Santuccio di Froscia e Titta Colranieri.
L'inviato di Venezia sostava dinanzi alla colonna. Dopo un breve
raccoglimento, come di adorazione, parlava. Diceva che nel
precedente anno i turchi, per una rivincita sulle gravi sconfitte
d'oriente, avevano preparata, con forze notevoli, una grande
offensiva. Dalla parte dell'Ungheria davano sicurezza le truppe
del principe Eugenio, che vi erano di presidio; non vi era
sicurezza dalla parte della Dalmazia. La Serenissima provvedeva
d'inviarvi d'urgenza le compagnie dei pretuziani, sulle quali già
splendeva, per precedenti azioni, la luce della gloria.
Ancora una volta Venezia non era stata delusa nella fiducia
riposta in questi forti soldati, nati per il combattimento. Non
ponevano limiti alla loro bravura. Assalivano, azzannavano,
abbattevano, erano abbattuti, ma non cedevano.
Lotta di titani pareva la loro, non di uomini, combattendo i
turchi con uguale valore.
Ma i nostri eroi, sostenuti da una divina forza, vincevano,
concorrendo efficacemente a salvare Venezia. E la Serenissima,
nella commossa gratitudine, disponeva di consacrare le loro gesta
e i nomi degli eroi in questo marmo di vita e di luce, per oggi e
per i secoli.
"Molti sono qui presenti di persona", aggiungeva
l'inviato. "Altri, i più, in ispirito. Non titubarono un
sol momento a sacrificare la loro giovinezza a Venezia, che essi
consideravano, con concetto altamente italiano, come la loro
stessa patria. Non appartenevano alla solita milizia mercenaria
che operava con torvo spirito di rapina, ma a soldati italiani,
che con piena consapevolezza combattevano per una giusta causa
italiana.
Noi ci siamo sempre commossi all'esaltazione degli eroi, creati
spesso, in ogni tempo, dalla fantasia dei poeti. Le gesta
compiute da questi soldati nella realtà dei fatti, e noi ne
siamo testimoni, non soltanto ci commuovono, ma ci costringono a
inginocchiarci dinanzi a questo marmo, che supererà, col suo
splendore, la fatalità dei secoli."
Tali parole scendevano come un'armonia celeste, nel profondo
della divina anima, racchiusa nell'umana materia.
Dopo, l'inviato di Venezia, avvicinatosi alla colonna, faceva
cadere il telo che l'avvolgeva, e la baciava.
Tutto in quel momento, sotto la diffusa luce del sole, taceva.
Gli alberi non muovevano foglie; tacevano gli insetti canterini;
si diffondeva la musica, che pareva che uscisse dal mistero
dell'ignoto.
Momento solenne, che rifletteva la divinità.
Quando caduto il telo gli sguardi si volsero alla marmorea
colonna, vi videro incisi, a caratteri d'oro, molti nomi, con la
dedica:
- AI BANDITI DEL MARTESE - EROI DI CITELUT -
In mezzo era inciso, con caratteri più grandi, il nome del
capitano GIULIO MONTECCHI.
Mentre sulla vetta di Santo Stefano avveniva la solenne
celebrazione, un funereo corteo percorreva, con flebile salmodia,
le vie di Campli.
Andava a deporre nella tomba dell'eternità la soave Cinzia.
Non aveva avuto la forza, la fata benefica, la figlia della
poesia, la eroina di Poggio Umbricchio, di sopravvivere al suo
eccezionale amatore.
Dopo un anno di lamenti, d'angoscioso pianto, di vana attesa, non
sapendo più che cosa fare su questa valle d'inganni, mestamente
se ne era andata.
Se ne era andata in quel momento, per correre, forse, ad
assistere in ispirito, sul luminoso monte, alla glorificazione
del suo Giulio.
E calava sul dramma d'odio e d'amore, di cattiveria e di bontà,
di negazioni basse e di affermazioni sublimi, melanconicamente,
il sipario dei fugaci eventi umani.
F I N E
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