Gli antichi, per eccellenza guerrieri, per elevare a divina
bellezza il valore, la forza vittoriosa; per inalzare al sublime
la poesia eroica, dotavano i combattenti di spirito e poteri
sovrumani. Non si peritavano dal far discendere spesso
dall'Olimpo, nelle contese umane, gli stessi Dei potenti e
bellicosi. Ma creando con la calda, con la fervida fantasia il
trionfatore di ogni forza non potevano mai supporre che un
giorno, per effetto, per virtù di un ordigno guerresco di
creazione umana, le gesta meravigliose del loro più forte eroe
potessero essere nella realtà superate.
Ed invero, quello che ebbero a compiere le mitragliatrici di cui
oggi qui si parla, si compie un rito, doveroso, santo rito,
supera di molto le splendide e commoventi narrazioni della
leggenda.
La storia di queste armi, adunque, non discende dai secoli.
Sembra che nella ricerca affannosa di mezzi sempre più
distruttivi nella difesa e nell'offesa una intuizione l'avesse già
avuta, nella sua vasta mente, il grande Leonardo da Vinci,
allorquando designava un archibugio che da solo raggiungesse gli
effetti di molti archibugi posti insieme. Ma né dai suoi studi,
né da quelli degli altri, nei secoli successivi, con il concetto
delle canne riunite, delle canne multiple, s'ottenevano decisivi
risultati. Nelle guerre del secolo scorso, come quelle di
Secessione d'America e coloniali; come quelle Franco-Prussiana-Anglo-Boera,
comparivano armi celeri sì, ma gli svantaggi su i vantaggi erano
tali da non consigliarne, da non incoraggiarne la diffusione.
Anche l'Italia, nel 1895, nella battaglia di Dogali, in Eritrea,
faceva con le Gardner un infelice esperimento. Sul principio del
nostro secolo, l'ingegnere Maxim, continuando negli studi
iniziati sin dal 1884, rendendo più perfetto il meccanismo,
meglio utilizzando la forza di espansione dei gas prodotti nello
sparo, dava vita alla vera odierna mitragliatrice, ossia a
quell'arma che con poteri davvero diabolici, consentiva ad un
solo uomo, se ben temprato, di poter affrontare e sgominare
interi reggimenti; a quell'arma che con il getto portentoso dei
suoi cinquecento colpi al minuto, riceveva, a giusto titolo, il
terribile nome di falciatrice. Nella guerra Russo-Giapponese, ove
largamente se ne provavano i micidiali effetti, ricevevano
l'altro nome, non meno terribile, di Annaffiatoio della morte.
Ora è da pensare, una volta conosciuta, come quest'arma fosse
ovunque accolta e con quanta sollecitudine, nella gara degli
armamenti, ogni Stato provvedesse a ben fornirsene. Non solo, ma
ogni Stato, per sottrarsi ai pericoli dei rifornimenti stranieri,
in caso di bisogno, studiava per crearsi, sullo stesso tipo,
un'arma ed una fabbricazione propria, nazionale. Di conseguenza
anche l'Italia, dagli studi dei propri ingegneri, poteva avere,
con la Fiat, la sua migliore moderna mitragliatrice; vera
provvidenza, poiché proprio all'Italia, nel momento del bisogno,
nella guerra ultima, mancava il rifornimento delle Maxim, che le
doveva essere fatto dall'Inghilterra.
Vera provvidenza, ma allorquando nel maggio del 1915, quel maggio
di vivi fremiti passato alla storia col nome di radioso, con
nuovo spirito, si riprendevano le armi lasciate nel 1866, in un
giorno non di fortuna, sui campi di Custoza e nelle acque di
Lissa, purtroppo, non ve ne erano molte di queste armi. Alle
migliaia degli altri eserciti l'Italia non ne poteva contrapporre
che poche centinaia: una Sezione di due armi per ogni
battaglione; molti battaglioni, anzi molti reggimenti ne erano
anche senza. Forse non era ancora ben penetrato in tutti il
convincimento della loro necessità, della loro utilità, della
loro potenza nei combattimenti; o forse il ricordo non favorevole
degli inconvenienti, degli inceppamenti nelle sabbie Libiche, non
ne aveva incoraggiato una larga dotazione. Non solo, ma molti le
riguardavano ancora con diffidenza, quasi con dispregio, come
oggetti ingombranti, da non servire ad altro che ad attirare le
mire delle artiglierie avversarie. Ma nella dura prova del fuoco,
nella guerra che si combatteva, anche per le lezioni che ci
giungevano dagli avversari, non si tardava a comprenderne il
vero, grande valore. I disegni audaci dei nostri migliori reparti
dallo spirito Garibaldino di quel primo periodo, come i
combattenti ben rammenteranno, spesso urtavano, si infrangevano
contro questi durissimi scogli, nidi invisibili ma terribili di
proiettili, di cui, nella deficienza degli uomini, era ben munita
la difesa nemica. E di quel tempo mi sia consentito che io
ricordi, anche per onorare i caduti, poiché ogni cerimonia, ogni
festa patriottica deve essere anche una esaltazione degli eroi,
dei benigni della patria, tra i tanti, un episodio di valore e di
dolore. Era stato determinato nel Trentino, mi riferisco al
Trentino per parlare soltanto di cose viste, e propriamente sul
fronte dell'Altipiano dei Sette Comuni, uno sbalzo in avanti, uno
sbalzo verso la dolente, la martoriata Trento. I cannoni, i
nostri cannoni, che per cinque giorni si erano nobilmente
adoperati, affaticati a colpire, a sconvolgere i forti campi
trincerati degli avversari, ritenendo di aver compiuto l'opera già
tacevano. Dovevano ora entrare in azione le fanterie. Nella notte
del 15 agosto del 1915 prescelta per l'attacco, serena, chiara
notte di luna, in apparenza tutto dormiva, ma all'orecchio teso
nella solennità del momento giungevano bisbigli, voci
misteriose, come di tomba. Lo spazio stesso, nell'attesa e nella
accesa fantasia, si popolava di vive immagini, di strane visioni.
Nell'imminenza dell'attacco e della lotta cruenta bagliori strani
pareva che avvolgessero gli animi attoniti dei combattenti, come
già vaganti sulla soglia del mistero, sulla soglia della morte.
Scoccava l'ora. Il bel reggimento del valoroso colonnello Rivera,
il 115, rompendo l'indugio, moveva per primo risoluto e compatto
all'attacco. Nessuna fanteria, di certo, ne avrebbe potuto
spezzare la foga assalitrice. E conquistata la prima, si
slanciava con irresistibile, con entusiastico impeto sulla
seconda trincea, sull'agguato, sull'insidia oscura e terribile.
Al 'Savoia' di vita e di vittoria dei nostri, riecheggiante per
le valli, rispondeva d'improvviso lugubremente il rauco canto di
morte delle micidiali armi... Nonostante lo sforzo eroico per un
altro sbalzo in avanti, per un altro sbalzo sull'insidia, per
superare l'insuperabile, in pochi minuti l'intrepido reggimento
cadeva quasi per intero falciato. Il nuovo giorno illuminava
bagnato di sangue la strada di Trento. Onore ai prodi caduti!
Le dure lezioni non rimanevano, però, senza insegnamenti, e
prima di un anno con le stesse armi e su quegli stessi posti
l'ardimentoso reggimento poteva essere vendicato. Gli Austro-Tedeschi,
nel maggio del 1916, trovavano appunto nelle mitragliatrici la
causa prima del fallimento dei loro pazzi, minacciosi disegni
della loro grandiosa spedizione cosiddetta punitiva. Chi era in
quel periodo su quel fronte può ben rammentare la pioggia di
proiettili di ogni calibro, compreso i 420, che per intere
giornate cadeva spaventosa sulle nostre posizioni. Dopo la tregua
della notte, tregua di cannoni, in ogni nuova alba, fresca, rosea
alba di maggio, risvegli di vita in contrapposto con inesorabile
ed esasperante puntualità, con crescente veemenza, si riprendeva
l'opera infernale di distruzione e di morte. Con le trincee, con
le opere fortificatorie, cadevano anche i prodi difensori, che
per verità, per sciagurato caso, non erano molti, in quel
momento, su quel fronte. Pareva che non vi dovesse essere
salvezza. Se avessero superato senza molti contrasti le prime
linee, forse ai barbari, in forza del numero e dei mezzi, non
sarebbe stato difficile di continuare, prima dell'arrivo dei
rinforzi, nella loro marcia maledetta, verso le agognate,
doviziose pianure venete. Al più prodo degli uomini, al più
eroico dei manipoli, in quelle condizioni, con le comuni armi,
non sarebbe rimasto che compiere il divino sacrificio
dell'estrema difesa, soltanto per un'eroica affermazione,
soltanto per ubbidienza alle sacre leggi del dovere, dell'onore,
della patria. Ma mentre qua e là avvenivano inevitabili crolli;
mentre, nella furia di ferro e di fuoco, nel terreno sconvolto,
si aprivano larghi varchi, elevandosi ad alta potenza, ebre di
vendetta e di sangue, le micidiali armi rimanevano spesso da sole
a fronteggiare, ad arginare le torbide onde invaditrici, a
sfidare il destino. Non s'udiva allora nel cozzo, nella mischia
feroce e sanguinosa, che gli urli delle furie, degli energumeni
colpiti a morte, ed il canto che accompagnava le erinni tremende
nella spietata ma santa opera sterminatrice.
Pareva che quelle armi infondessero ai combattenti, con la loro
potenza, un sovrumano vigore, una pazza esaltazione. Stringendole
all'impugnatura sembrava che mitraglieri e mitragliatrici, nella
viva volontà di lotta e di vittoria, formassero un solo bronzeo
corpo con una stessa anima, avido di colpire, di abbattere, di
uccidere. Molti di quei nuclei, così tenacemente, ferreamente
costituiti, compiuto, nel supremo cimento, lo sforzo massimo,
superiore sempre alle possibilità umane, scomparivano negli
incendi delle battaglie, come spiriti magni, gloriosamente,
dovendo spesso generosamente sacrificarsi, perché tale era il
comandamento, per la salvezza degli altri; dovevano spesso
sacrificarsi per far superare, per far vincere una crisi. E le
truppe in crisi trovavano sicurezza e tranquillità, nei loro non
facili movimenti, in questi minuscoli nuclei, che sparsi qua e là
pel campo di battaglia, non cedevano mentre tutto intorno
crollava; non cedevano e non tacevano, mentre dai boschi
abbattuti ed in fiamme, dal terreno sconvolto, dalle case
diroccate, dai campi devastati saliva, si distendevano a mano a
mano lugubre e il silenzio e la morte; non cedevano e non
tacevano finché nella mischia restasse intatta una
mitragliatrice ed in vita un mitragliere. E ben lo dimostravano,
in quelle tragiche giornate del Trentino, i Mitraglieri del
Costesin, dal generale Murari Brà chiamati, nel suo libro di
ricordi, pugno di eroi leggendari, per avere resistito
vittoriosamente ai furiosi e ripetuti attacchi delle migliori
truppe nemiche, lanciate pazzamente in ordine chiuso ed ubriache
all'assalto; per avere vittoriosamente resistito, in ultimo con
una sola arma e largamente falciato le furie assalitrici, mentre
le proprie truppe ripiegavano e si riordinavano con tranquillità
nelle linee di resistenza arretrate. Lo provavano i mitraglieri
del Monte Lèmerle che con due sole mitragliatrici affrontavano e
sgominavano un intero reggimento sceltissimo ungherese ed altre
truppe, salvando e mantenendo VALOROSAMENTE l'importantissima
posizione attaccata con particolare furia. Lo provavano i
mitraglieri del monte Zovetto, che cadevano gloriosamente sulle
proprie armi e sui cumuli di cadaveri nemici da essi stessi
falciati in una lunga, titanica, disperata lotta. Lo provavano le
mitragliatrici non meno gloriose del Sisèmol, e le
mitragliatrici della Vallarsa e di tanti altri posti, che
fiaccavano sanguinosamente e con gloria l'imbaldanzito nemico.
Azioni gloriose, d'altra parte, compiute anche prima e che, dopo
il trentino, si ripetevano, come possono far fede i combattenti,
su tutta la linea di battaglia, e in Albania, e sul Piave, e sui
monti, e sugli altipiani ancora, per tutta la durata della
guerra, nei momenti più pericolosi e tragici. Azioni gloriose
che culminavano nella gloriosa cifra di 150.000 mitraglieri
caduti sulla propria arma e nella concessione al loro valore di
ben ventitré medaglie d'oro e nelle motivazioni che
costituiscono oggi il più bel poema eroico che si sia mai
scritto: poema non di bizzarra, esaltata fantasia, ma di superba,
luminosa verità. Gloria del resto divinata, riconosciuta,
consacrata dall'augusta Signora d'Italia, quando sullo scorcio
del 1916, commossa ed ammirata per i sacrifici, i prodigi già
compiuti, con sicura fede, con poetica significazione, come Dea
benefica e protettrice, poneva i singolari combattenti sotto
l'alto suo patronato, conferendo loro il superbo e fatidico nome
di 'Mitraglieri della Regina'. Fatidico e superbo nome, in onore
del quale i mitraglieri, come cavalieri antichi, orgogliosi e
fieri rialzavano ordinati la loro insegna, e strenuamente
combattevano ancora per renderla, con nuovi prodigi e con nuovo
vermiglio sangue, più luminosa e santa.
Quando, finalmente, sotto i potenti colpi di un esercito
rinnovato, cadevano l'ultima speranza e l'ultima difesa
avversaria, e nelle fiamme di Vittorio Veneto si concludevano
vittoriosamente duri sforzi di quattro anni di titanica,
sanguinosa lotta, l'ordine di disarmo procurava ai mitraglieri
superstiti melanconia. I luoghi delle loro gesta, dei loro fasti,
arrossati ancora di caldo sangue e cosparsi, coperti di eroi
s'illuminavano, nel distacco, di sacra luce, inducendo al mistico
raccoglimento, alla venerazione. E l'addio alla loro arma,
all'arma fedele, fatata e benedetta suonava, alla loro anima, pur
tra la festa del trionfo, mesto come l'addio rivolto ad un
oggetto santo, ad una persona cara che si lascia per sempre. E
nel congedo, nel volgere degli anni, come per gli affetti forti
che non tramontano, non si affievoliva nello spirito il loro
ricordo; né nello spirito s'affievoliva l'eco del loro
caratteristico canto. E se per ventura nella tranquilla vita
della pace, nella vita degli uffici, delle officine, dei campi
riudivano quel canto, ne fremevano, se ne entusiasmavano, come
nei giorni di battaglia, di fiammate generose e bellicose.
Forse questi vivi risvegli, queste vive generose nostalgie del
passato guerriero, determinavano, inducevano i mitraglieri nella
pace a ritrovarsi, ad unirsi come in una forte famiglia, in una
grande associazione nazionale: mitraglieri di ogni arma e di ogni
corpo, non essendo mancato a nessun'arma e a nessun corpo il
vanto, la gloria dei loro eroismi.
Ma come fatto nuovo, riconosciuto dallo stesso Duce, non in uso
nelle altre associazioni combattentistiche, s'associavano non
soltanto per un ideale raggruppamento di spiriti, per
l'esaltazione delle glorie del passato, ma anche e più ancora
per aumentare, per potenziare le capacità, lo spirito
mitraglieresco, accordando, con appositi corsi d'istruzione,
all'esperienza sicura della guerra combattuta, gli insegnamenti
tecnici e tattici nuovi; insegnando ai mitraglieri delle nuove
generazioni, ammessi, anzi desiderati nell'associazione, non
soltanto le astuzie del combattimento, i segreti meccanici
dell'arma, ma anche e più ancora i segreti e la forza dello
spirito che sorreggono nella lotta e che conducono alla vittoria;
insegnando ai nuovi mitraglieri gli accordi del canto dell'arma
prodigiosa, che infiammava nella mischia, quell'arma che
costituisce oggi, per la sua potenza di fuoco universalmente
riconosciuta, la base dei nuovi ordinamenti, dei nuovi
apprestamenti militari, non albeggiando ancora la pace,
nonostante le ipocrite chiacchiere degli ipocriti signori di
Ginevra, nonostante i pii desideri di pie anime, sull'umanità
agitata ed eternamente in movimento.
Se le ragioni, adunque, la dignità, i diritti di vita e di
sviluppo di un popolo, destinato, come quello italiano, alla
riconquista del suo primato e della sua missione imperiale romana
e di civiltà, debbono essere ancora sostenuti con le armi, si
benedicano queste giovani armi e la loro potenza di fuoco, e si
benedicano questi riti di forte e squisita poesia. Si benedicano
questi riti, in cui, tra l'altro, le donne gentili dimostrano
ancora una volta che se nate per le opere belle naturalmente
simpatizzano, desiderano la gioia, l'amore, la famiglia, sanno
pure, nella fierezza di razza e negli ideali della patria, umani,
elevare inni al valore, alla forza, alla bellezza guerriera; si
benedicano questi riti in cui, tra l'altro, le donne gentili
dimostrano ancora una volta che se nei teneri affetti, nella
gioia, nella dolcezza del vivere e della vita, amano la
tranquilla pace, sanno pure riconoscere e rendere omaggio alle
ragioni della guerra; sanno pure, come ebbero a provare in tutti
i cimenti nazionali e nell'ultima grande guerra prendere le armi
e combattere per la libertà e per la patria. E molte donne
contano oggi gli azzurri.
I mitraglieri di Teramo sono commossi ed orgogliosi di questa
manifestazione mitragliera promossa, con vivo sentire, dal Fascio
femminile della loro città, formato da nobili dame, e retto con
tanto giovanile fervore dalla benemerita gentile signorina
Galluppi; dame della loro città a nessun'altra seconda e nelle
opere di pietà, e nelle opere di fierezza, e nello spirito
patriottico. Rendono loro vive grazie. Ma rendono anche vive
grazie alla nobile compagna del Capo della provincia, signora
Witzel, sostenitrice ed animatrice della bella cerimonia,
squisita madrina nel mistico rito della benedizione. E nel
prendere in consegna il bel gagliardetto loro offerto ed or ora
benedetto dalla Chiesa, e che la gentile Madrina un giorno
potrebbe rivedere fieramente spiegato al vento attraversare la
sua nobile, forte, guerriera ragione, diretto in altri campi di
rivendicazione ed altri cimenti, i mitraglieri ne sentono tutto
il valore, tutto il profondo significato. E' ben consapevoli dei
nostri destini verso cui, con la saggezza del suo Re marcia il
popolo italiano, checché ne dicano e ne pensino gli ottusi, i
pusillanimi, gli unni in veste di italiani, promettono e giurano
che non se ne renderanno indegni; non si renderanno indegni, non
si renderanno degeneri delle eroiche loro tradizioni, delle loro
purissime glorie. E se gli eventi lo dovessero ancora richiedere,
se la santa Diana dovesse ancora una volta suonare, presto o
tardi, ovunque e dovunque, saprebbero ancora far vibrare, far
cantare, far operare come al Costesin, come al Lèmerle, come al
Piave, come su tutto il fronte di battaglia, pel trionfo della
giustizia e dei santi ideali della patria, con la loro anima, la
divina falciatrice.
Ed ora, a santificare maggiormente il rito, si elevi con il
gagliardetto il pensiero, devoto e riverente, per la Sua festa,
che è anche nostra festa e festa della nazione, alla magnifica
ed augusta Patrona dei mitraglieri, Fata benefica e luminosa
della Patria risorta.