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Discorso tenuto da Umberto Adamoli nell'Aula Magna della Regia Scuola Industriale di Teramo in data 11 giugno 1938 - Conferenza sugli 'Episodi di Guerra'


L'ultima cannonata!

Debbo ringraziare innanzitutto, o giovani, il vostro ottimo direttore prof. Ingegnere Checchia, non soltanto per le sue cortesi espressioni, superiori ad ogni mio merito, ma anche per il piacere, l'onore a me procurato con l'invito a venire a parlare a voi in questa vostra casa, in questa scuola di sicura vostra preparazione alle inderogabili necessità, esigenze della vita.
Voi, o giovani, uscirete da questa scuola, come escono gli altri alunni dalle altre scuole, pensosi dei benefici, della bellezza dello studio e del sapere; ma voi uscirete da questa scuola, anche ben preparati, ben temprati ad affrontare la lotta, ad esercitare il vostro ingegno e la vostra mano, già bene addestrata nei nobilissimi attrezzi del lavoro, nelle necessarie opere per l'esistenza. Voi quindi siete su gli altri in condizioni di privilegio. Amate, adunque, questa vostra scuola, che può sembrare modesta in apparenza, ma che è invece importantissima, e destinata senza dubbio col fascismo, che tutto valorizza, a mettersi in primo ordine nella vita nazionale, ed amate i vostri insegnanti, i vostri professori che con tanto amore, con tanto entusiasmo si adoperano per la vostra educazione, per il vostro perfezionamento. Io ho avuto modo di ammirare, nella vostra esposizione, la perfezione dei vostri lavori.
Dopo questa promessa, mossa dalla mia ammirazione per questa scuola del lavoro, che è gioia della vita, inizio senz'altro la mia conversazione, che ha per tema: 'L'ultima cannonata'.
Parlo quindi, ancora di guerra. Da qualcuno è stato detto che sarebbe ormai tempo di finire a parlare di guerra. Mi astengo da ogni altra considerazione su questa balorda affermazione. (righe cancellate: Ma non posso riportare su tale argomento l'infallibile pensiero del Duce: "Bisogna reagire alla tendenza che affiora nelle nuove generazioni di obliterare quanto si riferisce al tormento della guerra. Bisogna ricordare la passione dell'intervento, la passione della guerra e la gioia della vittoria...")
Parliamo, quindi, anche in obbedienza al comando del Duce, ancora di guerra, che molto può giovare alla formazione morale, spirituale delle nuove generazioni, alla vostra educazione guerresca, o giovani.
"I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza".
Così o giovani concludeva epicamente l'ultimo bollettino, con il quale si annunciava all'Italia e al mondo la fine vittoriosa della più grande guerra del tempo e della storia. L'ultima cannonata era stata finalmente sparata sul nemico vinto. E sul silenzio, che aveva in se qualche cosa di strano e di magico, caduto d'improvviso lungo le sponde dei fiumi sacri, sulle trincee di sangue, su i campi sconvolti, sconquassati dalla furia delle battaglie e della morte, si elevava l'urlo possente per tanti anni represso della patria vittoriosa; si elevava vicino e lontano, immenso, fragoroso, l'urlo di tutte le sirene, il suono festoso di tutte le campane, i canti, gli inni di tutte le guerre e di tutte le vittorie.
Momenti che non è sempre dato di vivere nella vita, o giovani, quelli che allora noi vivemmo; momenti che compensavano largamente, ad usura i lunghi anni di sofferenza, di patimenti senza nome, di sacrifici di sangue senza precedenti. Tripudio senza limiti, poiché la bandiera santa della patria s'inalzava divinamente bella sulle speranze appagate, e sul Castello del Buon Consiglio a Trento, rocca del più puro, del più santo amor di patria. Si inalzava divinamente, superbamente bella sul granitico Brennero giù giù, sino all'ultimo baluardo, sul mitico monte nevoso, divenuto più mitico che mesi dopo la scomparsa del suo poeta, del suo bianco principe vostro grande conterraneo, a cui si inalza in questo momento il nostro reverente pensiero.
I Combattenti, che avevano inseguito su per le valli l'esercito nemico in rotta, giunti su i sacri limiti nazionali, sostavano, e nella sosta non potevano non riandare con la mente, come era naturale, a tutte le vicende, a tutti gli episodi della gloriosa epopea: dalla partenza festosa del maggio lontano per la nuova crociata di sangue, dal primo contatto con il nemico, dalle prime croci piantate fraternamente nei primi improvvisati cimiteri di guerra, alle ultime croci, all'ultima battaglia, all'ultima fucilata.
E tornava alla mente in modo particolare, con i più vivi colori, quel mondo sotterraneo di trincee, di camminamenti, di sacchi a terra, di caverne nel quale si era vissuti per quattro anni; nel quale, pur con il più grande disagio, con le più dure privazioni, con avanti continua l'ombra, lo spettro della morte, vi si era pur vissuto, nei quattro anni, nella più vera poesia, nelle passioni più sentite, negli ideali più luminosi; in cui più che alla morte, ciò che può sembrare strano, si era pensato alla vita e nelle sue più belle manifestazioni, nelle sue più rosee promesse, nelle sue più liete realtà.
Ed anche nella mia mente o giovani, di quegli anni eccezionali, i tanti ricordi sfilavano come in una lanterna magica, talvolta tenui come in un sogno, tal altra con i colori sanguigni della grande, sanguinosa tragedia. E di quel primo tempo rammentavo, ad esempio, quella chiara notte di luna del 15 agosto del 1915, in cui uno dei tanti nostri valorosi reggimenti, il 115., cadeva vittima del troppo suo slancio, del suo eccezionale ardimento. Quel reggimento che sull'Altipiano di Asiago, in una azione offensiva, conquistata facilmente la prima trincea, con irresistibile impeto, si slanciava, con il colonnello e la bandiera alla testa, come si usava di fare all'inizio della guerra, sulla seconda trincea; si slanciava però pur troppo sull'insidia e sulla morte. Gli Austriaci, che avevano già un anno di guerra e di esperienza, e che astutamente non avevano dato segni di vita, aprivano d'improvviso e da ogni parte un violento fuoco di artiglieria e di mitragliatrici, distruggendo in pochi minuti il bel reggimento.
Il nuovo giorno, quindi, si apriva non sulla gioia della vittoria, ma sul dolore e sul lutto; il nuovo sole sorgeva ad illuminare non la conquista, ma i nostri prodi camerati, con i quali la sera avanti ci eravamo separati con festa e con le più liete speranze, tutti distesi a terra, allineati come nel combattimento, con le armi in pugno, ma immersi nel sonno della morte. E li vedemmo così per circa un anno, nel loro disfacimento, non consentendo gli austriaci, che li avevano sotto il tiro delle mitragliatrici, di far dar loro conveniente fraterna sepoltura. Questi erano gli Austriaci del 1915, e che sono ancora quelli di oggi, senza farci troppe illusioni.
E dell'offensiva nemica del Trentino del maggio del 1916, con i grandi rammentavo anche i modesti episodi. Rammentavo ad esempio tra i tanti un giovanissimo soldato, uno dei tanti ignoti eroi, che quantunque mortalmente ferito al petto, continuava a combattere, a sparare sul nemico che ci assaliva furioso da ogni parte; continuava a sparare sino a quando non reclinava il capo sul suo fucile, sul parapetto delle trincea insanguinata. E lo vidi così, in atteggiamento di battaglia, per tutta la giornata, come lo riveggo ancora oggi bello, sereno nel suo pallido placido sonno; bello e sereno per il dovere eroicamente compiuto sino alla morte.
(righe cancellate a matita: E rammentavo quell'altro gruppo di insuperabili prodi combattenti, che quantunque circondati da forze preponderanti non desistevano dalla lotta, non si arrendevano. E cadevano ad uno ad uno sul cumulo di nemici uccisi da essi stessi con le loro mitragliatrici, di cui erano armati. Nessun soccorso era stato possibile portare loro, sia per l'asprezza del combattimento, sia per le difficoltà del terreno, trovandosi essi di là di una stretta e profonda valle, della quale era stato fatto saltare il ponte per il passaggio. Ma gli austriaci, pur essendo stati duramente colpiti, commossi da tanto valore, eressero essi stessi alla loro memoria, un cippo marmoreo, che noi poi vedemmo ed ammirammo nella nostra nuova avanzata.)
Ma rammentavo anche di quella grande offensiva, grande nei mezzi e nei disegni, con la quale gli austro-tedeschi credevano di concludere con noi la loro partita, quell'episodio di quota 1528 del Costesin, del quale ebbi già a parlare qui a Teramo in un altra mia conversazione; quell'episodio che è stato fissato dall'artista in un quadro, che si conserva oggi a Roma in un museo militare. Quel che vedete quì non è che una copia.
Non sto quì a ripetere su tale offensiva quanto è già bene noto a tutti, e quanto io stesso ebbi nell'altra conversazione a dire. Mi limito, quindi, oggi alla narrazione dell'episodio del Costesin, rappresentato dal quadro.
Nella diabolica opera di distruzione di quella grande offensiva iniziatasi il 15 maggio non vi era tregua che soltanto di notte, tregua di cannoni, s'intende. Ma dopo la notte, con la nuova alba, con il nuovo giorno, con inesorabile esasperante puntualità, con crescente veemenza, si riprendeva dagli Unni l'opera infernale di distruzione e di morte. Pareva che non vi dovesse essere davvero salvezza, tanto più che per un errato calcolo del nostro comando, non vi erano in quel momento su quel fronte molte truppe. Il nostro alto comando, in verità, per le gravi difficoltà del terreno, non aveva mai creduto che gli austriaci potessero tentare un'offensiva in grande stile nel fronte montagnoso del Trentino. Quindi se essi avessero superato le prime linee senza gravi contrasti, prima dell'arrivo dei rinforzi, forse non sarebbe stato loro difficile di continuare la marcia oltre l'Altipiano, giù per le valli, per l'ubertosa pianura veneta.
E tale doveva essere, anzi tale era il loro disegno, allo scopo di poter colpire alle spalle, per metterle fuori combattimento, le armate dell'Isonzo; quelle armate che costituivano la maggiore e la migliore parte del nostro esercito combattente.
Tremendo, quindi, era il nostro compito, il compito delle truppe del Trentino per una valida resistenza; per la resistenza della salvezza.
Verso le ore nove del giorno ventuno, settimo dell'offensiva, il bombardamento, ripreso all'alba con la consueta puntualità e violenza, volgeva verso altri settori; ma nel medesimo momento si slanciavano sulle nostre povere sconquassate trincee nuove grosse ondate della fosca marea assalitrice. Ma la salda difesa, per quanto duramente colpita, non si scuoteva ancora. Mentre però a quota 1528 del Costesin, dove io ero, fortemente si resisteva, gli austriaci, vincitori a sinistra, con azione avvolgente, attaccavano di sorpresa alle spalle il mio reparto. Il momento, o giovani, come potete immaginare, si presentava di particolare gravità. La sorpresa in combattimento è terribile, è quasi sempre la sconfitta, è quasi sempre la morte, quando non si posseggono per fronteggiarla nervi di acciaio, una assoluta padronanza di sè stessi, una assoluta calma. Io stesso, e non lo nascondo, che non direi la verità, ebbi un momento di smarrimento. Ma fu per fortuna un momento, che subito dopo, non avendo tempo di dare ordini, come spinto dall'istinto della salvezza, mi slanciai su una delle mitragliatrici, che sparavano per respingere l'attacco frontale, e trasportatala di peso su un'altra posizione, verso la nuova mortale minaccia, aprivo il fuoco, aprivo il fuoco quando gli austriaci, ebri di gioia e di liquore, e ne trovammo loro abbondantissimo nei loro sacchi alla tirolese, erano, quasi in ordine chiuso, a pochi passi da noi. Colpiti in pieno dalla mia falciata, neppure uno di quella prima ondata se ne salvava. Ma gli energumeni delle ondate successive, trattandosi di truppa scelta ed aitante, disposta a tutto, non si arrestavano. Una forza cieca, una forza diabolica pareva che li spingesse avanti, li spingesse al massacro, ricolmando, con disperato valore, il vuoto dei compagni caduti.
Un Cadetto, intanto, giovanissimo ma valoroso, infiltratosi per un camminamento nelle nostre linee, mi giungeva non visto alle spalle. Ma invece di uccidermi, come avrebbe potuto fare benissimo per non essere stato visto da nessuno, picchiandomi su una spalla si limitava ingenuamente ad impormi la resa. Baldanza giovanile, che caramente pagava. Occupato come io ero nella mia opera sterminatrice, che per la nostra salvezza, non sopportava un attimo di arresto, non mi potevo interessare di lui. Cercai soltanto di ricacciarlo, con una forte gomitata, nel camminamento. Gli balzava invece addosso, mentre con più senno questa volta mi puntava contro la rivoltella, un mio milite che mi faceva da servente nell'arma. Avveniva fra i due, uguale di forza e di valore, una lotta furiosa, furibonda per poter sopraffare. Ma in ultimo, vinto, in una stretta più forte, il cadetto si abbatteva esanime al suolo.
Fine tragica, necessaria per la nostra salvezza, ma che io non avrei voluto. Talvolta anche il nemico, quando è valoroso, poiché il valore in qualunque campo si manifesta, infonde sempre profondo rispetto, può destare sensi di pietà e di ammirazione. Quando, dopo di aver respinto vittoriosamente quell'attacco scatenatosi da tutte le parti, potevo leggere in una cartolina cadutagli nella lotta, e scrittagli dalla madre lontana qualche giorno prima, parole di affettuosa gentilezza materna, gli avrei voluto restituire la vita. Quella cartolina non avrebbe avuto più risposta; quella buona madre non avrebbe più riabbracciato il suo Lieber Bubi, come essa lo chiamava. Ma quella buona madre, poteva ora scrivere nella sua storia, nella storia della sua famiglia, a caratteri d'oro, il nome del suo eroico figliolo.
Il quadro riproduce fedelmente un momento del glorioso episodio, ma il quadro non riproduce, ne poteva riprodurre, quanto fiammeggiava di grande, di divino nell'animo di quegli eroi, di quelli che attaccavano, di quelli che si difendevano, che morivano per la patria.
Ed appunto di eroi nemici, passando ad altri episodi, ne rammentavo un altro giunto nelle nostre vicinanze in una notte, nella quale pareva che il cielo avesse sciolto ogni freno a tutte le sue ire, a tutte le sue tempeste, ed è perciò che ve ne parlo. Nella profonda, tragica oscurità, nel rumore continuo e sinistro del tuono, guizzavano, fiammeggiavano abbaglianti lampi, fragorose folgori. La grandine, con chicchi come uova imbiancava il terreno come neve. A quell'ira sfrenata del cielo, degli elementi, fuori di ogni concezione, s'univa l'ira sfrenata degli uomini. Nel timore reciproco di un attacco, a mano a mano nei due campi si mettevano in azione tutti gli ordigni distruttivi di guerra, dai fucili, dalle mitragliatrici, alle bombarde, ai cannoni. Pareva una immensa bolgia infernale agitata, sconquassata, con diabolica pazza potenza, da immensi spiriti folli.
Ed in quel finimondo, che quasi annientava il senso della vita, che si restava quasi come annientati, un giovane graduato di artiglieria nemica, coraggiosamente si era infiltrato, per aprirvi un varco, nelle nostre linee. Ma non fu fortunato. Ne udimmo nella notte i lamenti, e dopo la tempesta, in su l'alba, lo trovammo impigliato nei nostri reticolati, ferito nel petto, moribondo. Non sopravvisse alle nostre amorevoli cure. Lo sotterrammo con gli onori militari dovuti ai prodi, nelle nostre vicinanze, con il viso rivolto verso l'Italia.
E ricordavo il mio ricovero, perché ferito, in un ospedaletto da campo, durante una battaglia. Io ritengo che non vi sia nulla di più penoso, di più straziante, quanto un ospedaletto da campo, durante una battaglia. Vi giungevano feriti da tutte le parti, di ogni gravità, di ogni umore. Molti scherzavano sulle stesse loro ferite e sulla morte, confortati, paghi dal pensiero del dovere valorosamente compiuto; altri non si rassegnavano a morire. E lamenti ovunque, invocazioni, preghiere, parole d'incoraggiamento, rantoli, agonie penosissime. Tutte le bellezze dell'animo umano vi affioravano, e tutti gli strazi e tutti i dolori.
E di tutte quelle scene penosissime in quel luogo dei primi rattoppi alle carne dilaniate, una scena mi tornava più delle altre viva alla memoria: quella riferibile ad un giovanissimo aspirante, che era stato collocato al mio fianco, su una modesta branda insanguinata. Si lagnava per una grave ferita all'addome; quelle ferite che non perdonavano. Ai momenti di lamenti, di spasimo, che profondamente accuoravano, seguivano momenti di relativa calma. Ed allora quell'aspirante parlava al suo attendente, che lo aveva accompagnato, dando tutte le disposizioni per la sua morte, che egli doveva sentire imminente. Si faceva prendere nella cassetta d'ordinanza, alla fioca luce di una candela, le sue lettere, che egli attentamente esaminava; ne faceva distruggere in parte, ed in parte ne faceva conservare. Mostrava intanto una certa inquietudine quando non riusciva evidentemente a trovare una lettera, che doveva racchiudere qualche segreto, forse d'amore. Quando finalmente fu rinvenuta e bruciata assumeva un atteggiamento di serena calma. Moriva nella notte stessa, invocando per ultimo il nome della madre lontana. E nella notte stessa lo condussero fuori dell'ospedaletto, avvolto in un bianco drappo, per essere seppellito nel vicino cimitero di guerra; quel cimitero che il giorno dopo fu in parte mandato in aria da un grosso proiettile nemico. Sorte che spesso toccava ai prodi seppelliti nelle zone delle operazioni! Essere nuovamente uccisi nella loro morte.
(cancellato a matita: E mi tornava alla memoria, tra le cose semplici ma vive di significato e di bellezza, la morte di un altro bravo soldato del mio reparto, ucciso non dal piombo nemico, ma da improvviso morbo, dal quale era stato colpito durante una battaglia. Non si ritirava dal combattimento se non quando non aveva quasi più coscienza di se, dei suoi atti. E dopo il combattimento fu rinvenuto dietro un cespuglio, disteso su la nuda terra, ma addormentato nel sereno sonno della morte. Eroe? Senza dubbio. Da tre giorni, come mi raccontarono i compagni, era stato tormentato da un fortissimo dolore di testa, causato da otite acuta purulenta. Aveva nascosto il suo male per non essere allontanato, in quel momento di lotta e di particolare pericolo, dalla linea del fuoco. Ma allora non si consideravano, nella giusta luce, il valore di certi atti. Fu sepolto, come tutti gli altri, nel comune cimitero, e di lui non se ne ebbe più a parlare. Ma io ne trascrissi il nome nel mio diario di guerra, ed oggi ricordo il fatto a voi, o giovani, per le vostre considerazioni, per un vostro pensiero.)
E non potevo non rivivere in quelle giornate dell'infausto 1917, nelle quali parve che si scrivesse nella nostra storia la pagina nera della nostra guerra; nelle quali parve che avvenisse il crollo improvviso e doloroso di tutte le nostre speranze, di tutti i nostri sforzi, di tutti i nostri eroismi. Ma anche in quelle nere giornate di Caporetto, in cui anch'io vissi, come attore, in tormentosa mortale ansia, ebbero a fiammeggiare, a compiersi atti di durevole rinomanza. E fra questi atti rammentavo anche quello modesto, ma di vivo significato, di uno sperduto soldato, del solito ignote eroe, forse il solo superstite di un qualche eroico reggimento; quel soldato che ripiegava anche lui lacero, sfinito, sanguinante, ma con la mitragliatrice, che teneva stretta a se, come cosa sacra, tenacemente; quella mitragliatrice che non volle per nessuna ragione lasciare, affidare ad altri, pronto a rimetterla in postazione ed in azione contro i barbari invasori.
Dopo l'attacco violento di innumerevoli velivoli nemici, dai quali anche io fui ancora una volta ferito, non rividi più quel soldato; ma quel soldato mi aveva riconfortato sulla santità della nostra razza, sul vero spirito dei nostri bravi combattenti, sulla santità della nostra guerra, sulla certezza della nostra riscossa e della nostra vittoria.
(cancellato a matita: E del luminoso giugno 1918, di cui posso pure parlare, poiché rimasi al fronte per tutta la durata della guerra, compiendovi, come tutti i combattenti, il mio dovere d'italiano. Ed appunto di ciò posso aggiungere che sul petto di molti prodi combattenti non brillano sempre le medaglie dal nastro azzurro; ma entro il petto di quei combattenti brilla, fiammeggia la fiamma, la luce di un metallo, al quale non può essere assegnato valore umano; brilla, fiammeggia la soddisfazione, la gioia, l'orgoglio del dovere serenamente compiuto verso la patria sino agli estremi senza limiti. E non vi possono essere nella vita, o giovani, e ricordatelo, soddisfazioni più vive e più pure. Vigilatevi, quindi, attentamente, o giovani, affinché anche in voi la materia, destinata ...)
E del luminoso giugno 1918, nel quale si iniziava la nostra riscossa, e che proprio in questi giorni ricorre il ventennale, rivedevo un ufficiale, forse superiore, che si ritirava, dopo l'ultima prova, con il suo reparto in rotta, per ultimo, lentamente, senza turbarsi della pioggia di proiettili che gli cadeva d'intorno. Ogni tanto si fermava, si voltava come per un'ultima sfida, poi, trascinato dagli inesorabili eventi, scompariva nella boscaglia che aveva dinanzi; scompariva, come scompariva più tardi, per sempre, a Vittorio Veneto, pietosamente, quel potente esercito imperiale austriaco, di cui faceva parte, nostro secolare conculcatore e carnefice.
Tutto questo, o giovani, mi tornava alla mente nella sosta, dopo l'ultima cannonata, su i sacri limiti della patria, dinanzi agli stessi silenziosi campi di battaglia. E nella gioia della vittoria, nell'ora magnifica del trionfo, non mancava a commuovere un senso di indefinibile malinconia, di profonda nostalgia. In quei quattro anni di vita eccezionalissima vissuta minuto per minuto sulla soglia della morte, se ci aveva indotto a profonde riflessioni, ci aveva anche spinti a salire, a penetrare nella notte di silenzio nel mistero muto del cielo profondo e delle stelle luminose. E nel guardare nel viso senza più paura la morte, eravamo pure stati educati ad amare più vivamente la vita, e non mai l'anima umana, come affermava il poeta, più incline alla bontà e alla fede come dopo aver guardato nelli abissi della morte, come appunto vi avevamo guardato noi!
Rientravamo, quindi, nella vita comune, o giovani, ben diversi da quando ne eravamo partiti; vi rientravamo sconquassati, menomati nel fisico sì, ma con una sensibilità, con una spiritualità non posseduta da nessun altro.
E quando oggi malinconia ci assale, torniamo lassù, per trarre conforto da quei luoghi resi sacri dal sangue degli eroi e delle loro sacre tombe. Ma non vi dovremmo andare soli. Voi ci dovreste accompagnare, o giovani, in quei nostri pellegrinaggi di devozione e d'amore, per i vostri esercizi spirituali e di fede, per la vostra purificazione, per attingere direttamente dalle luminose tombe degli eroi, quella forza, quello spirito, quelle virtù che rendono valore alla vita, e per le quali gli umani si avvicinano al divino.



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