Debbo ringraziare innanzitutto, o giovani, il vostro ottimo
direttore prof. Ingegnere Checchia, non soltanto per le sue
cortesi espressioni, superiori ad ogni mio merito, ma anche per
il piacere, l'onore a me procurato con l'invito a venire a
parlare a voi in questa vostra casa, in questa scuola di sicura
vostra preparazione alle inderogabili necessità, esigenze della
vita.
Voi, o giovani, uscirete da questa scuola, come escono gli altri
alunni dalle altre scuole, pensosi dei benefici, della bellezza
dello studio e del sapere; ma voi uscirete da questa scuola,
anche ben preparati, ben temprati ad affrontare la lotta, ad
esercitare il vostro ingegno e la vostra mano, già bene
addestrata nei nobilissimi attrezzi del lavoro, nelle necessarie
opere per l'esistenza. Voi quindi siete su gli altri in
condizioni di privilegio. Amate, adunque, questa vostra scuola,
che può sembrare modesta in apparenza, ma che è invece
importantissima, e destinata senza dubbio col fascismo, che tutto
valorizza, a mettersi in primo ordine nella vita nazionale, ed
amate i vostri insegnanti, i vostri professori che con tanto
amore, con tanto entusiasmo si adoperano per la vostra
educazione, per il vostro perfezionamento. Io ho avuto modo di
ammirare, nella vostra esposizione, la perfezione dei vostri
lavori.
Dopo questa promessa, mossa dalla mia ammirazione per questa
scuola del lavoro, che è gioia della vita, inizio senz'altro la
mia conversazione, che ha per tema: 'L'ultima cannonata'.
Parlo quindi, ancora di guerra. Da qualcuno è stato detto che
sarebbe ormai tempo di finire a parlare di guerra. Mi astengo da
ogni altra considerazione su questa balorda affermazione. (righe
cancellate: Ma non posso riportare su tale argomento
l'infallibile pensiero del Duce: "Bisogna reagire alla
tendenza che affiora nelle nuove generazioni di obliterare quanto
si riferisce al tormento della guerra. Bisogna ricordare la
passione dell'intervento, la passione della guerra e la gioia
della vittoria...")
Parliamo, quindi, anche in obbedienza al comando del Duce, ancora
di guerra, che molto può giovare alla formazione morale,
spirituale delle nuove generazioni, alla vostra educazione
guerresca, o giovani.
"I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del
mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che
avevano discese con orgogliosa sicurezza".
Così o giovani concludeva epicamente l'ultimo bollettino, con il
quale si annunciava all'Italia e al mondo la fine vittoriosa
della più grande guerra del tempo e della storia. L'ultima
cannonata era stata finalmente sparata sul nemico vinto. E sul
silenzio, che aveva in se qualche cosa di strano e di magico,
caduto d'improvviso lungo le sponde dei fiumi sacri, sulle
trincee di sangue, su i campi sconvolti, sconquassati dalla furia
delle battaglie e della morte, si elevava l'urlo possente per
tanti anni represso della patria vittoriosa; si elevava vicino e
lontano, immenso, fragoroso, l'urlo di tutte le sirene, il suono
festoso di tutte le campane, i canti, gli inni di tutte le guerre
e di tutte le vittorie.
Momenti che non è sempre dato di vivere nella vita, o giovani,
quelli che allora noi vivemmo; momenti che compensavano
largamente, ad usura i lunghi anni di sofferenza, di patimenti
senza nome, di sacrifici di sangue senza precedenti. Tripudio
senza limiti, poiché la bandiera santa della patria s'inalzava
divinamente bella sulle speranze appagate, e sul Castello del
Buon Consiglio a Trento, rocca del più puro, del più santo amor
di patria. Si inalzava divinamente, superbamente bella sul
granitico Brennero giù giù, sino all'ultimo baluardo, sul
mitico monte nevoso, divenuto più mitico che mesi dopo la
scomparsa del suo poeta, del suo bianco principe vostro grande
conterraneo, a cui si inalza in questo momento il nostro
reverente pensiero.
I Combattenti, che avevano inseguito su per le valli l'esercito
nemico in rotta, giunti su i sacri limiti nazionali, sostavano, e
nella sosta non potevano non riandare con la mente, come era
naturale, a tutte le vicende, a tutti gli episodi della gloriosa
epopea: dalla partenza festosa del maggio lontano per la nuova
crociata di sangue, dal primo contatto con il nemico, dalle prime
croci piantate fraternamente nei primi improvvisati cimiteri di
guerra, alle ultime croci, all'ultima battaglia, all'ultima
fucilata.
E tornava alla mente in modo particolare, con i più vivi colori,
quel mondo sotterraneo di trincee, di camminamenti, di sacchi a
terra, di caverne nel quale si era vissuti per quattro anni; nel
quale, pur con il più grande disagio, con le più dure
privazioni, con avanti continua l'ombra, lo spettro della morte,
vi si era pur vissuto, nei quattro anni, nella più vera poesia,
nelle passioni più sentite, negli ideali più luminosi; in cui
più che alla morte, ciò che può sembrare strano, si era
pensato alla vita e nelle sue più belle manifestazioni, nelle
sue più rosee promesse, nelle sue più liete realtà.
Ed anche nella mia mente o giovani, di quegli anni eccezionali, i
tanti ricordi sfilavano come in una lanterna magica, talvolta
tenui come in un sogno, tal altra con i colori sanguigni della
grande, sanguinosa tragedia. E di quel primo tempo rammentavo, ad
esempio, quella chiara notte di luna del 15 agosto del 1915, in
cui uno dei tanti nostri valorosi reggimenti, il 115., cadeva
vittima del troppo suo slancio, del suo eccezionale ardimento.
Quel reggimento che sull'Altipiano di Asiago, in una azione
offensiva, conquistata facilmente la prima trincea, con
irresistibile impeto, si slanciava, con il colonnello e la
bandiera alla testa, come si usava di fare all'inizio della
guerra, sulla seconda trincea; si slanciava però pur troppo
sull'insidia e sulla morte. Gli Austriaci, che avevano già un
anno di guerra e di esperienza, e che astutamente non avevano
dato segni di vita, aprivano d'improvviso e da ogni parte un
violento fuoco di artiglieria e di mitragliatrici, distruggendo
in pochi minuti il bel reggimento.
Il nuovo giorno, quindi, si apriva non sulla gioia della
vittoria, ma sul dolore e sul lutto; il nuovo sole sorgeva ad
illuminare non la conquista, ma i nostri prodi camerati, con i
quali la sera avanti ci eravamo separati con festa e con le più
liete speranze, tutti distesi a terra, allineati come nel
combattimento, con le armi in pugno, ma immersi nel sonno della
morte. E li vedemmo così per circa un anno, nel loro
disfacimento, non consentendo gli austriaci, che li avevano sotto
il tiro delle mitragliatrici, di far dar loro conveniente
fraterna sepoltura. Questi erano gli Austriaci del 1915, e che
sono ancora quelli di oggi, senza farci troppe illusioni.
E dell'offensiva nemica del Trentino del maggio del 1916, con i
grandi rammentavo anche i modesti episodi. Rammentavo ad esempio
tra i tanti un giovanissimo soldato, uno dei tanti ignoti eroi,
che quantunque mortalmente ferito al petto, continuava a
combattere, a sparare sul nemico che ci assaliva furioso da ogni
parte; continuava a sparare sino a quando non reclinava il capo
sul suo fucile, sul parapetto delle trincea insanguinata. E lo
vidi così, in atteggiamento di battaglia, per tutta la giornata,
come lo riveggo ancora oggi bello, sereno nel suo pallido placido
sonno; bello e sereno per il dovere eroicamente compiuto sino
alla morte.
(righe cancellate a matita: E rammentavo quell'altro gruppo di
insuperabili prodi combattenti, che quantunque circondati da
forze preponderanti non desistevano dalla lotta, non si
arrendevano. E cadevano ad uno ad uno sul cumulo di nemici uccisi
da essi stessi con le loro mitragliatrici, di cui erano armati.
Nessun soccorso era stato possibile portare loro, sia per
l'asprezza del combattimento, sia per le difficoltà del terreno,
trovandosi essi di là di una stretta e profonda valle, della
quale era stato fatto saltare il ponte per il passaggio. Ma gli
austriaci, pur essendo stati duramente colpiti, commossi da tanto
valore, eressero essi stessi alla loro memoria, un cippo
marmoreo, che noi poi vedemmo ed ammirammo nella nostra nuova
avanzata.)
Ma rammentavo anche di quella grande offensiva, grande nei mezzi
e nei disegni, con la quale gli austro-tedeschi credevano di
concludere con noi la loro partita, quell'episodio di quota 1528
del Costesin, del quale ebbi già a parlare qui a Teramo in un
altra mia conversazione; quell'episodio che è stato fissato
dall'artista in un quadro, che si conserva oggi a Roma in un
museo militare. Quel che vedete quì non è che una copia.
Non sto quì a ripetere su tale offensiva quanto è già bene
noto a tutti, e quanto io stesso ebbi nell'altra conversazione a
dire. Mi limito, quindi, oggi alla narrazione dell'episodio del
Costesin, rappresentato dal quadro.
Nella diabolica opera di distruzione di quella grande offensiva
iniziatasi il 15 maggio non vi era tregua che soltanto di notte,
tregua di cannoni, s'intende. Ma dopo la notte, con la nuova
alba, con il nuovo giorno, con inesorabile esasperante puntualità,
con crescente veemenza, si riprendeva dagli Unni l'opera
infernale di distruzione e di morte. Pareva che non vi dovesse
essere davvero salvezza, tanto più che per un errato calcolo del
nostro comando, non vi erano in quel momento su quel fronte molte
truppe. Il nostro alto comando, in verità, per le gravi
difficoltà del terreno, non aveva mai creduto che gli austriaci
potessero tentare un'offensiva in grande stile nel fronte
montagnoso del Trentino. Quindi se essi avessero superato le
prime linee senza gravi contrasti, prima dell'arrivo dei
rinforzi, forse non sarebbe stato loro difficile di continuare la
marcia oltre l'Altipiano, giù per le valli, per l'ubertosa
pianura veneta.
E tale doveva essere, anzi tale era il loro disegno, allo scopo
di poter colpire alle spalle, per metterle fuori combattimento,
le armate dell'Isonzo; quelle armate che costituivano la maggiore
e la migliore parte del nostro esercito combattente.
Tremendo, quindi, era il nostro compito, il compito delle truppe
del Trentino per una valida resistenza; per la resistenza della
salvezza.
Verso le ore nove del giorno ventuno, settimo dell'offensiva, il
bombardamento, ripreso all'alba con la consueta puntualità e
violenza, volgeva verso altri settori; ma nel medesimo momento si
slanciavano sulle nostre povere sconquassate trincee nuove grosse
ondate della fosca marea assalitrice. Ma la salda difesa, per
quanto duramente colpita, non si scuoteva ancora. Mentre però a
quota 1528 del Costesin, dove io ero, fortemente si resisteva,
gli austriaci, vincitori a sinistra, con azione avvolgente,
attaccavano di sorpresa alle spalle il mio reparto. Il momento, o
giovani, come potete immaginare, si presentava di particolare
gravità. La sorpresa in combattimento è terribile, è quasi
sempre la sconfitta, è quasi sempre la morte, quando non si
posseggono per fronteggiarla nervi di acciaio, una assoluta
padronanza di sè stessi, una assoluta calma. Io stesso, e non lo
nascondo, che non direi la verità, ebbi un momento di
smarrimento. Ma fu per fortuna un momento, che subito dopo, non
avendo tempo di dare ordini, come spinto dall'istinto della
salvezza, mi slanciai su una delle mitragliatrici, che sparavano
per respingere l'attacco frontale, e trasportatala di peso su
un'altra posizione, verso la nuova mortale minaccia, aprivo il
fuoco, aprivo il fuoco quando gli austriaci, ebri di gioia e di
liquore, e ne trovammo loro abbondantissimo nei loro sacchi alla
tirolese, erano, quasi in ordine chiuso, a pochi passi da noi.
Colpiti in pieno dalla mia falciata, neppure uno di quella prima
ondata se ne salvava. Ma gli energumeni delle ondate successive,
trattandosi di truppa scelta ed aitante, disposta a tutto, non si
arrestavano. Una forza cieca, una forza diabolica pareva che li
spingesse avanti, li spingesse al massacro, ricolmando, con
disperato valore, il vuoto dei compagni caduti.
Un Cadetto, intanto, giovanissimo ma valoroso, infiltratosi per
un camminamento nelle nostre linee, mi giungeva non visto alle
spalle. Ma invece di uccidermi, come avrebbe potuto fare
benissimo per non essere stato visto da nessuno, picchiandomi su
una spalla si limitava ingenuamente ad impormi la resa. Baldanza
giovanile, che caramente pagava. Occupato come io ero nella mia
opera sterminatrice, che per la nostra salvezza, non sopportava
un attimo di arresto, non mi potevo interessare di lui. Cercai
soltanto di ricacciarlo, con una forte gomitata, nel camminamento.
Gli balzava invece addosso, mentre con più senno questa volta mi
puntava contro la rivoltella, un mio milite che mi faceva da
servente nell'arma. Avveniva fra i due, uguale di forza e di
valore, una lotta furiosa, furibonda per poter sopraffare. Ma in
ultimo, vinto, in una stretta più forte, il cadetto si abbatteva
esanime al suolo.
Fine tragica, necessaria per la nostra salvezza, ma che io non
avrei voluto. Talvolta anche il nemico, quando è valoroso, poiché
il valore in qualunque campo si manifesta, infonde sempre
profondo rispetto, può destare sensi di pietà e di ammirazione.
Quando, dopo di aver respinto vittoriosamente quell'attacco
scatenatosi da tutte le parti, potevo leggere in una cartolina
cadutagli nella lotta, e scrittagli dalla madre lontana qualche
giorno prima, parole di affettuosa gentilezza materna, gli avrei
voluto restituire la vita. Quella cartolina non avrebbe avuto più
risposta; quella buona madre non avrebbe più riabbracciato il
suo Lieber Bubi, come essa lo chiamava. Ma quella buona madre,
poteva ora scrivere nella sua storia, nella storia della sua
famiglia, a caratteri d'oro, il nome del suo eroico figliolo.
Il quadro riproduce fedelmente un momento del glorioso episodio,
ma il quadro non riproduce, ne poteva riprodurre, quanto
fiammeggiava di grande, di divino nell'animo di quegli eroi, di
quelli che attaccavano, di quelli che si difendevano, che
morivano per la patria.
Ed appunto di eroi nemici, passando ad altri episodi, ne
rammentavo un altro giunto nelle nostre vicinanze in una notte,
nella quale pareva che il cielo avesse sciolto ogni freno a tutte
le sue ire, a tutte le sue tempeste, ed è perciò che ve ne
parlo. Nella profonda, tragica oscurità, nel rumore continuo e
sinistro del tuono, guizzavano, fiammeggiavano abbaglianti lampi,
fragorose folgori. La grandine, con chicchi come uova imbiancava
il terreno come neve. A quell'ira sfrenata del cielo, degli
elementi, fuori di ogni concezione, s'univa l'ira sfrenata degli
uomini. Nel timore reciproco di un attacco, a mano a mano nei due
campi si mettevano in azione tutti gli ordigni distruttivi di
guerra, dai fucili, dalle mitragliatrici, alle bombarde, ai
cannoni. Pareva una immensa bolgia infernale agitata,
sconquassata, con diabolica pazza potenza, da immensi spiriti
folli.
Ed in quel finimondo, che quasi annientava il senso della vita,
che si restava quasi come annientati, un giovane graduato di
artiglieria nemica, coraggiosamente si era infiltrato, per
aprirvi un varco, nelle nostre linee. Ma non fu fortunato. Ne
udimmo nella notte i lamenti, e dopo la tempesta, in su l'alba,
lo trovammo impigliato nei nostri reticolati, ferito nel petto,
moribondo. Non sopravvisse alle nostre amorevoli cure. Lo
sotterrammo con gli onori militari dovuti ai prodi, nelle nostre
vicinanze, con il viso rivolto verso l'Italia.
E ricordavo il mio ricovero, perché ferito, in un ospedaletto da
campo, durante una battaglia. Io ritengo che non vi sia nulla di
più penoso, di più straziante, quanto un ospedaletto da campo,
durante una battaglia. Vi giungevano feriti da tutte le parti, di
ogni gravità, di ogni umore. Molti scherzavano sulle stesse loro
ferite e sulla morte, confortati, paghi dal pensiero del dovere
valorosamente compiuto; altri non si rassegnavano a morire. E
lamenti ovunque, invocazioni, preghiere, parole
d'incoraggiamento, rantoli, agonie penosissime. Tutte le bellezze
dell'animo umano vi affioravano, e tutti gli strazi e tutti i
dolori.
E di tutte quelle scene penosissime in quel luogo dei primi
rattoppi alle carne dilaniate, una scena mi tornava più delle
altre viva alla memoria: quella riferibile ad un giovanissimo
aspirante, che era stato collocato al mio fianco, su una modesta
branda insanguinata. Si lagnava per una grave ferita all'addome;
quelle ferite che non perdonavano. Ai momenti di lamenti, di
spasimo, che profondamente accuoravano, seguivano momenti di
relativa calma. Ed allora quell'aspirante parlava al suo
attendente, che lo aveva accompagnato, dando tutte le
disposizioni per la sua morte, che egli doveva sentire imminente.
Si faceva prendere nella cassetta d'ordinanza, alla fioca luce di
una candela, le sue lettere, che egli attentamente esaminava; ne
faceva distruggere in parte, ed in parte ne faceva conservare.
Mostrava intanto una certa inquietudine quando non riusciva
evidentemente a trovare una lettera, che doveva racchiudere
qualche segreto, forse d'amore. Quando finalmente fu rinvenuta e
bruciata assumeva un atteggiamento di serena calma. Moriva nella
notte stessa, invocando per ultimo il nome della madre lontana. E
nella notte stessa lo condussero fuori dell'ospedaletto, avvolto
in un bianco drappo, per essere seppellito nel vicino cimitero di
guerra; quel cimitero che il giorno dopo fu in parte mandato in
aria da un grosso proiettile nemico. Sorte che spesso toccava ai
prodi seppelliti nelle zone delle operazioni! Essere nuovamente
uccisi nella loro morte.
(cancellato a matita: E mi tornava alla memoria, tra le cose
semplici ma vive di significato e di bellezza, la morte di un
altro bravo soldato del mio reparto, ucciso non dal piombo
nemico, ma da improvviso morbo, dal quale era stato colpito
durante una battaglia. Non si ritirava dal combattimento se non
quando non aveva quasi più coscienza di se, dei suoi atti. E
dopo il combattimento fu rinvenuto dietro un cespuglio, disteso
su la nuda terra, ma addormentato nel sereno sonno della morte.
Eroe? Senza dubbio. Da tre giorni, come mi raccontarono i
compagni, era stato tormentato da un fortissimo dolore di testa,
causato da otite acuta purulenta. Aveva nascosto il suo male per
non essere allontanato, in quel momento di lotta e di particolare
pericolo, dalla linea del fuoco. Ma allora non si consideravano,
nella giusta luce, il valore di certi atti. Fu sepolto, come
tutti gli altri, nel comune cimitero, e di lui non se ne ebbe più
a parlare. Ma io ne trascrissi il nome nel mio diario di guerra,
ed oggi ricordo il fatto a voi, o giovani, per le vostre
considerazioni, per un vostro pensiero.)
E non potevo non rivivere in quelle giornate dell'infausto 1917,
nelle quali parve che si scrivesse nella nostra storia la pagina
nera della nostra guerra; nelle quali parve che avvenisse il
crollo improvviso e doloroso di tutte le nostre speranze, di
tutti i nostri sforzi, di tutti i nostri eroismi. Ma anche in
quelle nere giornate di Caporetto, in cui anch'io vissi, come
attore, in tormentosa mortale ansia, ebbero a fiammeggiare, a
compiersi atti di durevole rinomanza. E fra questi atti
rammentavo anche quello modesto, ma di vivo significato, di uno
sperduto soldato, del solito ignote eroe, forse il solo
superstite di un qualche eroico reggimento; quel soldato che
ripiegava anche lui lacero, sfinito, sanguinante, ma con la
mitragliatrice, che teneva stretta a se, come cosa sacra,
tenacemente; quella mitragliatrice che non volle per nessuna
ragione lasciare, affidare ad altri, pronto a rimetterla in
postazione ed in azione contro i barbari invasori.
Dopo l'attacco violento di innumerevoli velivoli nemici, dai
quali anche io fui ancora una volta ferito, non rividi più quel
soldato; ma quel soldato mi aveva riconfortato sulla santità
della nostra razza, sul vero spirito dei nostri bravi
combattenti, sulla santità della nostra guerra, sulla certezza
della nostra riscossa e della nostra vittoria.
(cancellato a matita: E del luminoso giugno 1918, di cui posso
pure parlare, poiché rimasi al fronte per tutta la durata della
guerra, compiendovi, come tutti i combattenti, il mio dovere
d'italiano. Ed appunto di ciò posso aggiungere che sul petto di
molti prodi combattenti non brillano sempre le medaglie dal
nastro azzurro; ma entro il petto di quei combattenti brilla,
fiammeggia la fiamma, la luce di un metallo, al quale non può
essere assegnato valore umano; brilla, fiammeggia la
soddisfazione, la gioia, l'orgoglio del dovere serenamente
compiuto verso la patria sino agli estremi senza limiti. E non vi
possono essere nella vita, o giovani, e ricordatelo,
soddisfazioni più vive e più pure. Vigilatevi, quindi,
attentamente, o giovani, affinché anche in voi la materia,
destinata ...)
E del luminoso giugno 1918, nel quale si iniziava la nostra
riscossa, e che proprio in questi giorni ricorre il ventennale,
rivedevo un ufficiale, forse superiore, che si ritirava, dopo
l'ultima prova, con il suo reparto in rotta, per ultimo,
lentamente, senza turbarsi della pioggia di proiettili che gli
cadeva d'intorno. Ogni tanto si fermava, si voltava come per
un'ultima sfida, poi, trascinato dagli inesorabili eventi,
scompariva nella boscaglia che aveva dinanzi; scompariva, come
scompariva più tardi, per sempre, a Vittorio Veneto,
pietosamente, quel potente esercito imperiale austriaco, di cui
faceva parte, nostro secolare conculcatore e carnefice.
Tutto questo, o giovani, mi tornava alla mente nella sosta, dopo
l'ultima cannonata, su i sacri limiti della patria, dinanzi agli
stessi silenziosi campi di battaglia. E nella gioia della
vittoria, nell'ora magnifica del trionfo, non mancava a
commuovere un senso di indefinibile malinconia, di profonda
nostalgia. In quei quattro anni di vita eccezionalissima vissuta
minuto per minuto sulla soglia della morte, se ci aveva indotto a
profonde riflessioni, ci aveva anche spinti a salire, a penetrare
nella notte di silenzio nel mistero muto del cielo profondo e
delle stelle luminose. E nel guardare nel viso senza più paura
la morte, eravamo pure stati educati ad amare più vivamente la
vita, e non mai l'anima umana, come affermava il poeta, più
incline alla bontà e alla fede come dopo aver guardato nelli
abissi della morte, come appunto vi avevamo guardato noi!
Rientravamo, quindi, nella vita comune, o giovani, ben diversi da
quando ne eravamo partiti; vi rientravamo sconquassati, menomati
nel fisico sì, ma con una sensibilità, con una spiritualità
non posseduta da nessun altro.
E quando oggi malinconia ci assale, torniamo lassù, per trarre
conforto da quei luoghi resi sacri dal sangue degli eroi e delle
loro sacre tombe. Ma non vi dovremmo andare soli. Voi ci dovreste
accompagnare, o giovani, in quei nostri pellegrinaggi di
devozione e d'amore, per i vostri esercizi spirituali e di fede,
per la vostra purificazione, per attingere direttamente dalle
luminose tombe degli eroi, quella forza, quello spirito, quelle
virtù che rendono valore alla vita, e per le quali gli umani si
avvicinano al divino.