Il Direttorio Nazionale dell'Istituto del Nastro Azzurro di
cui fa parte il Segretario del Partito S.E. Starace, ha in questi
giorni invitato tutte le Sezioni provinciali a tenere speciali
riunioni, allo scopo di ravvivare con racconti di squarci di vita
vissuta in trincea, il ricordo della gloria dei soldati italiani
scritta col sangue nella storia dei popoli. Di parlare
particolarmente ai giovani non presenti nei grandi eventi della
patria, destinati a sostituire a mano a mano, nella corsa
inesorabile del tempo, nella vita nazionale, la martoriata ed
eroica generazione della guerra. Di parlare particolarmente a voi
o giovani che nascevate alla vita, in questa nostra bella Italia,
quando di fronte si stavano per accendere, o da poco si erano
accese le fiamme di quel gigantesco incendio bellico che dovevano
placare in parte i grandi spiriti che si agitavano ansiosi su i
contrasti, su gli incerti destini della patria del 1915. Ma se a
voi o giovani non toccava in sorte di partire e di assistere alle
commoventi ed entusiastiche partenze, e di trepidare poi delle
incerte vicende della lotta; se a voi o giovani non toccava in
sorte di partire o di acclamare coloro che come un turno doloroso
tornavano, quando tornavano, per medicarsi, per sanarsi delle
ferite prodotte dal piombo nemico; se a voi non era concesso
nella vittoria di godere la divina gioia del trionfo, avete però
ancora la fortuna, e non è poco, di poter vantare nella vostra
vecchiezza di aver conosciuto coloro che saranno divenuti già
miti nella fantasia dei vostri nipoti; di avere udito dalla viva
voce dei Combattenti stessi, degli attori stessi del grande
dramma, o meglio delle grandi tragedie, i commoventi ed eroici
racconti della guerra vittoriosa. Di quella guerra necessaria,
santa per noi, come tante volte avete già inteso ripetere, e
nella quale cadeva, per un santo ideale, la più bella
giovinezza; cadevano a centinaia, a migliaia ragazzi, giovanetti
come voi, ma cadevano sereni, lieti, e nella lieta certezza di
rivivere, come rivivono, immortali nell'immortalità della patria.
Quando adunque nel maggio del 1915 si iniziavano le ostilità,
poiché, come sapete, parlo dei miei ricordi di guerra, o meglio
di qualcuno dei miei ricordi del primo anno di guerra, io ero già
al fronte, e precisamente nella zona montuosa del Trentino. Come
molti facevano, anch'io scrivevo il mio diario di guerra, e in
quel primo gran giorno, mentre il cannone iniziava al fronte la
sua sinfonia, quella sinfonia che doveva durare per ben quattro
anni, io vi scrivevo precisamente così: "Odo verso Nord,
verso l'Altipiano di Asiago il rombo del cannone. Quel cannone
non può essere che nostro. La guerra evidentemente è
incominciata. Quel che sento nell'animo mio è indescrivibile.
Salve, o Italia.
Di sopra ai forti sentimenti umanitari sorgono, ora, i più forti
sentimenti di italianità e di patria. Il non intervento penso
rappresentava per l'Italia la povertà, la fiacchezza, la viltà;
penso che l'Italia, rinunciando alla lotta, alle sue giuste
rivendicazioni, rinunciava al diritto di vivere fra le grandi
nazioni. Tra tanti soprusi, tra tante prepotenze, evviva la
guerra! Ben dovrà comprendere e presto, il barbaro teutonico,
quanto sia difficile di tenere o di riporre in catena popoli
liberi e civili. Si picchi, quindi, senza pietà. Ieri fu lotta
di liberazione; oggi sia per l'Italia anche lotta di forza, di
valore, di grandezza".
Così scrivevo italianamente nel mio diario di guerra il 24
maggio del 1915, scritto che oggi, nel rileggere, non mi dispiace.
E con tali patriottici sentimenti raggiungevo, poco dopo, con il
mio battaglione, nella testata di Val d'Assa, sull'Altipiano dei
Sette Comuni le trincee di prima linea. Da fervente
interventista, quale io ero stato, come erano stati tutti i buoni
italiani, e quale nipote di un perseguitato politico, di un
profugo lombardo del 1848, quindi di un patriota quale era stato
mio nonno, una volta in trincea avrei voluto agire subito; avrei
voluto, anche per regolare l'antico conto di famiglia, azzuffarmi
senz'altro con gli austriaci. Non essendo, però là ancora ben
preparati, occorreva aspettare, occorreva pazientare. Intanto,
per non perdere tempo, si facevano i primi assaggi, le prime
prove e col pericolo, e col fuoco.
Ma il primo fatto d'armi, nel quale in seguito potevo prendere
parte, fatto d'armi di una certa importanza, non riusciva,
purtroppo, a noi favorevole. Era stato determinato, anche per
rompere la monotonia, per fare qualche cosa anche nel Trentino,
uno sbalzo in avanti; uno sbalzo oltre la prima linea dei forti
nemici, verso la martoriata Trento. Dopo la consueta
preparazione, il consueto tiro di distruzione delle linee
avversarie da parte delle nostre artiglierie, nella chiara notte
di luna del 15 agosto, il valoroso 115 reggimento fanteria,
secondo gli ordini, iniziava per primo l'attacco, per la marcia
in avanti. Conquistata facilmente la prima trincea, con
coraggiosa sicurezza, con irresistibile impeto, si slanciava
sulla seconda trincea, però, purtroppo sull'insidia e sulla
morte. Gli Austriaci, che sino a quel momento, astutamente, non
avevano dati segni di una vivace resistenza, aprivano
d'improvviso, e da tutte le parti, un violento fuoco di
mitragliatrici, distruggendo, falciando in pochi minuti e quasi
per intero il bel reggimento.
E così quell'azione tanto desiderata, tanto aspettata, ed
iniziata con tanto entusiasmo, dolorosamente finiva. Gli incerti
della guerra!
Dopo quella dura lezione, che ci ebbe a mostrare per molto tempo
fra le due linee, i nostri poveri caduti, divenimmo in quella
zona davvero fortemente trincerata e fortificata, quindi di
difficile conquista, più guardinghi, più prudenti. Ma anche a
stare soltanto in trincea si era sempre nel pericolo, si viveva
pur sempre sul confine della morte, potendo da un momento
all'altro, come spesso avveniva, una scortese granata qualsiasi
fornirci del foglio di viaggio per l'altro mondo. Nonostante non
difettava in noi il buone umore. Non mancavano in quel mondo
coperto di trincee, di camminamenti, di rifugi, di caverne; in
quel mondo sepolto di talpe in cui si viveva, facezie, comicità.
Talvolta si scherzava anche nella tragedia, anche nella morte.
Fra l'altro, costituiva una nota spassosa, allegra in questa
speciale vita, per la novità, certi signori che ad intere tribù,
da veri padroni correvano, scorazzavano per il nostro corpo,
provocando in noi un certo vivace movimento, e facendoci sentire,
da veri caloriferi, molto caldo anche quando faceva molto freddo,
anche quando, d'inverno, gelava; certi signori piccoli, più
grandi, col codino, bianchi, neri, rossi, di tutti i colori,
insomma, e di tutte le razze europee, che noi, nel nostro fiorito
linguaggio di guerra, chiamavamo passeggeri, ma che nel
linguaggio di pace sono chiamati con altro... nome. Altra nota
simpatica la costituivano i medici ed il cappellano del
battaglione, amici carissimi, veri angeli, ma continuamente in
bisticcio, simpaticamente in litigio fra loro.
Ma dopo il doloroso episodio dell'agosto non si viveva, poi, del
tutto rintanati, chiusi nelle nostre trincee, in apatico
raccoglimento. Si era in guerra e qualche cosa si faceva pur
sempre. Rendemmo, ad esempio, la notte di Natale, notte di tregua
e di pace negli affanni umani, direste voi, molto movimentata,
molto agitata, tentando, nonostante la neve caduta e che cadeva,
di fare una visita, una irruzione di sorpresa nelle linee
nemiche, divenendo così la notte di pace, notte di lotta,
d'inferno. Gli Austriaci, cavallerescamente, ci restituirono la
visita il primo dell'anno, accolti da noi, ben s'intende, con
tutti gli onori già resi a noi; con tutti gli onori di una
generale sparatoria, pagando, così, dall'una e dall'altra parte,
per l'uno e per l'altro fatto, buon tributo di sangue. Cortesie
di guerra!
Si eseguivano, inoltre, secondo le necessità del posto e gli
ordini superiori, lavori di rafforzamento e, con ardite
pattuglie, servizi di ricognizione e di molestia al nemico. E fu
proprio in uno di questi servizi spinto di giorno imprudentemente
un po' troppo avanti, che io ebbi ad avere nella carne, come si
diceva pure in gergo guerresco scherzando, una buona iniezione di
piombo.
Ferito così piuttosto gravemente ero costretto a lasciare a
malincuore il fronte per l'ospedale. Lasciavo il fronte però col
proposito di tornarvi non appena possibile, per farvi qualche
cosa di meglio. Ne partivo il 7 gennaio del 1916, e vi tornavo
infatti a mia domanda, non ancora ben guarito, allo stesso
reparto, verso la fine di marzo.
E di quel periodo, della tanta corrispondenza ricevuta
all'Ospedale, voglio leggervi tre cartoline scrittemi da tre miei
dipendenti, per mostrarvi con quale animo, con quale spirito i
soldati italiani combattessero nell'ultima grande guerra di
redenzione. E queste cartoline si scrivevano non dai caffè, ma
dalla linea del fuoco e della gloria; si scrivevano quando la
vita si viveva di minuto a minuto.
(leggere le cartoline) (riportare i testi?)
Tornava al fronte, come dicevo verso la fine di marzo. Ma quei
benedetti austriaci pareva che mi tenessero segnato. Mi
preparavano sempre un qualche brutto scherzo. Uscito un giorno,
dopo qualche giorno del mio ritorno fuori della trincea, da solo,
avanti, per una ricognizione del terreno, vedevo nel forte
Luserna, che era di fronte, girare una delle sue torri corazzate
e sporgere da essa nella mia direzione la bocca di un cannone. Vi
era davvero da rabbrividire, ma io veramente non me ne
preoccupavo, non ritenendo che potessi essere preso di mira,
perché non si usava di sparare con cannoni contro uomini isolati.
Quando mi accorsi che il colpo che partiva era proprio per la mia
modesta persona, anche per il particolare onore che in tal modo
mi si rendeva, ritenni non soltanto scortese, ma anche inutile e
vergognosa la fuga. Poiché fuggire dinanzi al pericolo, dinanzi
al nemico, e ricordatelo o giovani, è sempre una vergogna,
quando non si tratti di vigliaccheria. Intanto il proiettile, non
di grosso calibro però, rumorosamente arrivava, ma anziché
colpire me, tradendo la propria missione, penetrava nel rialzo
del terreno dove io ero e scoppiava. Una comica capriola in aria,
con terra, sassi, schegge, da parte mia, e poi giù ruzzoloni, giù
disteso al suolo come morto. Nello stordimento mi ritenni questa
volta davvero finito, spacciato, fracassato. La vita che ancora
sentivo in me, così vagamente, come in sogno, l'attribuivo alla
sopravvivenza dello spirito, o meglio al ritardo dello spirito
dal distaccarsi dalla materia, dal corpo per il gran volo verso
il mondo dell'eternità. Ma anche questa volta, a dispetto
dell'allegro artigliere nemico, potevo rientrare, sia pure con
molte ammaccature, ma senza nulla di grave, vivo nelle nostre
linee.
Non tardava, intanto, di giungermi un ordine di trasferimento per
un'altra non lontana ma infelicissima posizione, Milegrobe,
cacciata, incuneata tra le linee nemiche, chiamata dal generale
Murari-Brà nel suo più esatto nome di Nido di proiettili. Ad
ogni soldato mandato in quella posizione, si sarebbe dovuto
concedere, per il particolare disagio e sacrificio, una
particolare ricompensa. Nessun movimento vi era consentito di
giorno; nelle deboli trincee, sotto il tiro della fucileria
avversaria, vi si doveva stare appiattati, chiusi come un una
tomba. Nonostante, non mancava il così detto stilicidio, non
mancavano quasi giornalmente feriti, morti. Il giorno di Pasqua,
4 aprile, che non dimenticherò mai, quantunque abituati ormai
alla visione del sangue, pur la nostra sensibilità vi fu
fortemente scossa. Due bravi soldati, approfittando della nebbia
e del nevischio, caso contrario non sarebbe stato possibile, si
offrivano volontariamente di portare a noi in quella tomba, dalle
linee arretrate, nella mistica ricorrenza, cibi caldi, generi di
conforto. Ma lungo il cammino, quasi nelle nostre vicinanze, un
colpo di vento fugata sventuratamente la nebbia, li scopriva al
tiro del nemico, rendendoli così vittime del loro premuroso
generoso cameratismo. Non cadevano, i poveretti, in
combattimento, ma noi li considerammo ugualmente vittime di un
atto non meno bello, non meno nobile. Lasciammo quei due oscuri
eroi a dormire il sonno eterno, poco lontano dal luogo del loro
sacrificio, nel silenzio di Valmorta, ma essi vivono e vivranno
sempre pietosamente nel nostro ricordo. Episodio modestissimo in
sé stesso, nella grande tragedia, ma significativo, pieno di
profonda umanità!
Il fatto per quanto ci commovesse, ci scuotesse, non ci
deprimeva, però. Dalla causa santa, per cui si combatteva, per
cui si sapeva di combattere, si traeva sempre ragione, forza,
conforto per sostenere serenamente le privazioni, le sofferenze,
i pericoli, la morte; per vivere serenamente ed anche
allegramente nell'insidia, nel fango, nella neve. Vi potevano
essere, sì, talvolta, dei brontoloni, degli scontenti, come in
nessun ordine mancano, neppure tra voi, scommetto, che siete
ragazzi; ma fiammeggiava generalmente, nei soldati tra cui io
ero, vivo il senso del dovere, l'orgoglio della razza, l'amore
della patria. Non mancavano, purtroppo, neppure i rinnegati, come
non ne mancavano negli altri eserciti; ma essi da noi non
facevano quasi mai in tempo di pentirsi delle loro tristi azioni.
E vidi io stesso due di costoro essere precipitati nel buio mondo
dal piombo dei propri compagni, essere uccisi in altre parole,
dai propri compagni di propria iniziativa, senza ordini
superiori, mentre vigliaccamente tentavano di passare al nemico.
Quei bravi giustizieri, che a giusto onore, furono posti
all'ordine del giorno delle truppe del Trentino, tutelavano così
fieramente non soltanto l'onore della propria divisa e del
proprio reparto, ma anche l'onore della razza, l'onore della
patria. E così o giovani va sempre fatto contro i vigliacchi,
contro i rinnegati. Essi non debbono avere diritto di vita in un
popolo sano, forte e di nobilissime tradizioni qual è il popolo
italiano.
Ma in tal modo, tra un episodio e l'altro, si usciva dall'inverno
senza che si notassero nel nostro campo, in quella zona, come era
nel desiderio di molti, segni di una qualche preparazione
offensiva. Troppe difficoltà veramente vi erano da superare nel
Trentino per una offensiva favorevole: monti alti, vallate
profonde, una fitta rete di imponenti forti, numerosi ordini di
trincee e reticolati, campi trincerati ovunque da considerarsi
imprendibili. Il generale Cadorna evidentemente preferiva di
continuare nelle sue vittoriose battaglie nel terreno più
favorevole dell'Isonzo e del Carso. Ma se non da noi, l'offensiva
la preparavano, invece, occultamente ma in grande stile, gli
austriaci, con quella loro famosa spedizione così detta
punitiva, ricorrendo per la vittoria a tutti i mezzi. La loro
principessa, la principessa Zita, futura loro imperatrice,
affinché trionfassero le armi austriache, inalzava financo sul
terreno della battaglia una cappella votiva alla madonna.
Preparavano quella Strafe-expedition, con la quale miravano
nientemeno che a Roma. Nach Roma dicevano burbanzosamente e
scrivevano anche su tabelle, su cartelli indicatori, che noi poi
trovammo sulle vie della loro ritirata. Nach Roma. Per Roma.
E con tali pazzeschi propositi, l'azione iniziatasi si può dire,
nella sera piovosa del cinque maggio, con la distruzione di tutti
i posti avanzati, si sviluppava verso il quindici con una pioggia
infernale, spaventosa di proiettili di ogni calibro e di ogni
specie. Non mancavano per le trincee, per produrre i maggiori
danni, anche morali, neppure i 420, proiettili enormi,
giganteschi, da usarsi soltanto contro le fortezze, frantumando
così dove cadevano trincee e campi trincerati, sradicando,
schiantando, abbattendo alberi, sconvolgendo, cambiando
addirittura fisionomia al terreno. E dopo lo scoppio avveniva
un'altra pericolosa pioggia di sassi e di schegge di ogni
grossezza, facendo nuove vittime. I soldati colpiti, o compresi
semplicemente nel raggio di scoppio, erano lanciati in aria
talvolta a brandelli, talvolta, stringendo i fucili, vivi ancora,
che noi vedevamo poi roteare in aria come fuscelli e ricadere
pesantemente, quando non rimanevano impigliati e penzoloni dai
rami degli alberi. Spettacolo fantastico, di tragica grandiosità,
che fortemente scuoteva, impressionava.
L'azione svolta in quei giorni contro il settore dove io ero, dal
corrispondente di guerra austriaco della 'Neuie frei Presse' era
così descritta: "Una delle principali battaglie fu data per
l'espugnazione del Costesin quota 1528 che costituiva un punto
d'appoggio straordinariamente forte nel complesso delle linee
nemiche di difesa. La lotta s'iniziò con un cannoneggiamento che
non è possibile descrivere. A cinquanta passi dai reticolati
nemici stavano gli osservatori d'artiglieria per segnalare i
risultati del tiro. Artiglieri che hanno partecipato alle più
terribili azioni d'artiglieria di questa guerra, dichiarano di
non aver mai visto un bombardamento di simile violenza, e questo
si può credere senz'altro osservando le posizioni nemiche. Vi si
nota un caos raccapricciante; un ammasso di reticolati divelti,
contorti, di tronchi a terra, enormi depressioni del terreno
generate dallo scoppio delle granate. Queste colpirono
potentemente, stroncando tronchi robustissimi di alberi,
sventrando i sacchi a terra, e spargendo il contenuto molto
lontano.
Quando il bombardamento ebbe inebititi i nemici, cagionando loro
terribili perdite, allora fu sferrato l'assalto delle fanterie".
Così scriveva il corrispondente nemico, e scriveva perfettamente
la verità. E in questa diabolica opera non vi era tregua che
soltanto di notte, tregua di cannoni. Ma dopo la notte, con la
nuova alba, con il nuovo giorno, con inesorabile ed esasperante
puntualità, con crescente veemenza, si riprendeva dal nemico
l'opera infernale di distruzione e di morte. Con le trincee, con
le opere fortificatorie, come affermava il giornalista austriaco,
cadevano anche i prodi difensori, che per verità, per sciagurato
caso non erano molti in quel momento in su quel fronte. Essendo
stato l'attacco improvviso, imprevisto, imprevedibile, gli alti
nostri comandi non vi credevano, pareva che non vi dovesse essere
salvezza. Se avessero superato senza gravi contrasti le prime
linee, prima dell'arrivo dei nostri rinforzi, forse ai barbari,
in forza appunto del numero e dei mezzi, non sarebbe stato
difficile di continuare giù per le vallate, per la verdeggiante
pianura veneta la loro marcia rovinosa, la loro marcia maledetta.
E tale doveva essere, anzi tale era ora il loro disegno, lasciamo
andare Roma! Il disegno di scendere giù per colpire alle spalle
per liquidare la partita le armate dell'Isonzo, di porre così
fuori combattimento la maggiore e la migliore parte del nostro
Esercito combattente.
Tremendo, quindi, appariva, il nostro compito, il compito delle
truppe del Trentino per una valida, forte, estrema resistenza;
della resistenza ad ogni costo, della resistenza della salvezza.
Con il giorno ventuno, settimo del bombardamento, il sole
invocato sempre ed atteso come una benedizione, sorgeva, invece,
ancora una volta, come un castigo, ad illuminare, a favorire, non
la gioia e la vita, ma l'odio e la distruzione. Verso le ore nove
come vasto e furioso temporale, il cannoneggiamento volgeva su
altri Settori. Ma nello stesso tempo si slanciavano,
s'avventavano, sulle nostre povere e sconquassate trincee, nuove
grosse ondate della fosca marea invaditrice. Ma la salda difesa,
per quanto colpita, per quanto ridotta, ancora non si scuoteva.
Mentre, però, a quota 1528 del Costesin dove io ero, e di cui
parlava il Corrispondente nemico, fortemente si resisteva, gli
austriaci, vincitori a sinistra, con azione avvolgente,
attaccavano di improvviso alle spalle il mio reparto. Il momento,
come potete immaginare, si presentava di particolare, di estrema
gravità. La sorpresa in combattimento, come ben sanno i
Combattenti, è terribile, e quasi sempre la sconfitta, è quasi
sempre la morte, quando non si posseggano per fronteggiarla nervi
di acciaio, una assoluta padronanza di sé stessi, una assoluta
calma. Io stesso, e non lo nascondo, che non direi la verità,
ebbi un momento di smarrimento. Ma fu per fortuna un momento, un
attimo, che subito dopo, non avendo tempo di dare ordini, come
spinto dall'istinto della salvezza, mi lanciai su una delle
mitragliatrici, che furiosamente sparavano per respingere
l'attacco frontale, e trasportandola di peso su altra posizione,
verso la nuova mortale minaccia, aprivo il fuoco. Aprivo il fuoco
quando gli austriaci, sicuri ormai della vittoria, ebri di gioia
e di liquori, terribili, quasi in ordine chiuso, in massa, erano
a pochi passi da noi. Colpiti in pieno dalla mia falciata neppure
uno di quella prima ondata se ne salvava. Cadevano, sotto la
terribile raffica della terribile arma, come fulminati. Ma gli
energumeni delle ondate successive, trattandosi di truppa scelta
ed aitante, disposta a tutto, non si arrestava. Una forza cieca,
una forza diabolica pareva che li spingesse avanti, li spingesse
al massacro, ricolmando, con disperato valore, i compagni caduti.
Un cadetto, intanto, giovanissimo, ma valoroso, ma prode davvero,
infiltratosi nelle nostre linee da un camminamento, mi giungeva
inosservato alle spalle. Ma invece di uccidermi, come avrebbe
potuto benissimo, si limitava ingenuamente, picchiandomi su di
una spalla, ad impormi con imperiosi cenni, la resa. Baldanza o
inesperienza, ingenuità giovanile, che caramente pagava!
Occupato come io ero nella terribile opera sterminatrice, che per
la nostra salvezza, per la salvezza della posizione, non
sopportava un attimo di arresto, non mi potevo interessare di lui.
Cercai soltanto, essendo in un rialzo, di respingerlo con una
forte gomitata nel camminamento. Gli balzava, invece addosso,
mentre con più senno questa volta mi puntava la rivoltella, un
mio bravo milite, che mi faceva da servente nell'arma, uno
sportivo milanese tutto nervi. Avveniva fra i due, uguali di
forza e di valore, per potersi sopraffare, una lotta viva,
disperata, mortale. Ma in ultimo il cadetto, in una stretta più
forte vinto cedeva, s'abbatteva esanime al suolo. Fine tragica,
inevitabile, necessaria per la nostra salvezza, ma che io non
avrei voluto. Talvolta anche il nemico, quando è valoroso, poiché
il valore infonde sempre profondo rispetto, può destare sensi di
pietà e di ammirazione. Quando, dopo di aver respinto
vittoriosamente quell'attacco scatenatosi da tutte le parti,
potevo leggere in una cartolina, cadutagli nella lotta e
scrittagli qualche giorno prima dalla mamma lontana, parole
d'amore, d'affettuosa gentilezza, gli avrei voluto restituire la
vita. "Lieber Bubi" lo chiamava la madre - Caro ragazzo.
Ed era, nonostante il leonino coraggio, davvero un ragazzo. Onore
quindi anche alla mamma del prode ragazzo, del prode nemico così
eroicamente caduto; eroismo forse rimasto ignorato dalla sua
patria; come rimarranno ignorati tanti atti eroici compiuti nella
missione furiosa dai nostri Combattenti. Onore, quindi, anche al
prode ragazzo, al prode oscuro nemico così eroicamente caduto.
Ma non potei di molto continuare nella cavalleresca
commiserazione poiché gli austriaci, al fallito attacco, così
sanguinosamente da noi respinto, facevano seguire violenta la
reazione. Pareva che non vi dovesse essere più salvezza per noi!
Nonostante che si conservassero vive le forze e vivo l'ardore
bellico, pure più di una volta ci vedemmo, ci sentimmo perduti.
Ormai a forza di combattere su quel cocuzzolo, su quella luminosa
e sconquassata quota che pareva davvero invulnerabile, sulla
quale più tardi fu collocato un ricordo marmoreo, eravamo
rimasti quasi soli, e quasi accerchiati. Gli austriaci,
vicinissimi, tanto da non poter più sparare con i cannoni su di
noi, ci imponevano, alla voce, la resa. Da tre giorni che non si
mangiava; da cinque non si dormiva, e come potete immaginare la
più cupa desolazione era intorno a noi: morti a mucchi, ai quali
non era possibile dare sepoltura , odor di cadaveri, brandelli di
carne umana ovunque, invocazioni, lamenti penosi di feriti e di
moribondi e scialba, tra il fumo della battaglia, la luce del
sole. Quadro fantasticamente infernale, quadro di sangue, e su
questo quadro, come nota comica, come una ironia, come una beffa
un cuculo continuava a cantare allegramente nel bosco. Cantava,
evidentemente, nella verde primavera, nel fiorito maggio, alla
vita, quando la vita là moriva.
Quando verso sera mi poteva giungere l'ordine di ripiegare su
un'altra più favorevole posizione, non erano rimasti della mia
povera Sezione che quattro uomini ed una sola mitragliatrice.
Tutto il resto era andato in aria, come erano andate in aria le
trincee, i sacchi a terra, gli alberi; come era andata in aria
ogni cosa.
Ma la laboriosa giornata, quella giornata che io annovero fra le
più belle, più vive e più poeticamente commoventi della mia
vita non era ancora finita, non era ancora per noi compiuta. Nel
non lontano bosco di Camporosa, che si doveva attraversare, fummo
di nuovo dal nemico violentemente attaccati. La colonna dei fanti
della brava brigata Ivrea al comando del valoroso colonnello
Rossi Luigi, che era la raccolta che con noi si doveva riunire
nel ripiegamento, per essere impiegata altrove, continuava nel
proprio cammino; noi, quali mitraglieri, quindi quale assoluto
nostro dovere, poiché i mitraglieri si debbono sempre
sacrificare per l'altrui salvezza, riponemmo ancora una volta
l'unica arma rimastaci intatta in posizione ed in azione. Per
qualche tempo si ebbe ad udire nella notte e nel bosco, tre razzi
illuminanti, sparo di fucileria e raffiche di mitragliatrice. Poi
a mano a mano scendeva su tutto assoluto il silenzio.
L'inseguimento così era stato arrestato, la colonna dei fanti
era in salvo, ma noi, non riuscendo ad orientarci nell'oscurità,
non potemmo lasciare il bosco che ai primi chiarori dell'alba. Ma
non avendo dato più segni di vita nella notte, fummo ritenuti
perduti. Anzi il buon cappellano del battaglione, don Ferdinando
Caporali, ad ogni buon fine, all'alba alzava preghiere, preci
anche per la salvezza e la pace delle nostre anime. Ma il
trapasso per noi non era avvenuto. Tornevamo però fra i nostri
in pochi, in pochissimi e, come è facile immaginare in
condizioni pietosissime. Tornevamo laceri, contusi, sanguinanti,
con la febbre nel sangue, irriconoscibili, fisicamente disfatti,
ma fieri del dovere italianamente compiuto. Ed in queste
condizioni ma con spirito elevatissimo, in attesa dei rinforzi,
restammo ancora alla difesa delle trincee di Ca-Nova, lungo la
Val d'Assa, nelle vicinanze di Asiago, mentre Asiago colpita da
granate incendiarie, moriva fra le fiamme. Moriva, per risorgere
più tardi più bella del suo sacrificio.
E così si concludeva, nella zona del Trentino, il primo anno di
guerra. Si concludeva mentre la battaglia, pur nel suo
spostamento, continuava viva più che mai, aspra, sanguinosa.
Continuava ma per far scrivere nella storia, dal magnifico nostro
esercito, nuove pagine di incomparabile, commovente, epico,
eroismo. Il nostro magnifico esercito ebbe a compiere in quei
giorni gesta immemorabili, davvero leggendarie; la battaglia
continuava ma per concludersi, nell'inizio del secondo anno, con
la vittoria, con il trionfo del diritto del giusto.
Ed ora, per concludere anch'io, ancora poche parole per voi
ragazzi; per voi che avete la fortuna, nella sana e forte
educazione fascista, di giunger sani e forti nella vita
nazionale; vogliate un po' di bene a questa martoriata
generazione della guerra, e che fu anche la generazione sacra
della Rivoluzione. E sia sempre vivo in voi il rispetto ed il
culto per i loro monumenti, per le loro tombe. Il rispetto ed il
culto per coloro che ebbero tanto a soffrire, che ebbero a
versare tanto sangue per procurare a voi una più libera e grande
patria. Quella patria ricongiunta oggi con il fascismo, figlio
della guerra, ai forti ordinamenti, al forte spirito imperiale
romano. Quell'impero che dovrà essere da voi riconquistato per
intero all'Italia. Noi vi aiuteremo in questa opera, anche se non
più giovani; vi aiuteremo anche con le armi, se si rendesse ciò
necessario, per guidarvi, con la salda e provata nostra
esperienza, nelle nuove battaglie.