ATTO PRIMO
A Teramo, nel palazzo civico, il Vicario Aniello Porzio, da poco
giunto, parla nel suo ufficio, con il Segretario di Napoli anche
lui. L'arredamento dell'ufficio secondo la sua importanza e gli
usi del tempo.
SCENA PRIMA
VICARIO - (oscuro, accigliato, desolato) E' molto duro, caro
Segretario, il pane della servitù. Non riesco ancora a
comprendere come la scelta per questa missione, da me non
desiderata, sia caduta proprio su di me. Vi è tanta gente nel
mondo che darebbe l'anima al diavolo per elevarsi, si molesta
invece chi non desidera che di vivere al buio, pur di vivere
tranquillo.
SEGRETARIO - Ma da che cosa è stato determinato questo
provvedimento, che ha trascinato anche me in questa pericolosa
avventura?
VICARIO - che ne so io. Fui chiamato d'improvviso da quel caro
marchese del Carpio che mi diceva: "Abbiamo una provincia
del vicereame, Teramo, quasi ribelle, infestata da banditi. Voi
restituirete a quella provincia, dove siete stato destinato come
Vicario, ordine, pace, lavoro." Così mi diceva l'ineffabile
Viceré. Ed ora sono qui, dopo il più avventuroso viaggio tra
monti e valli, briganti e lupi, a deliziarmi in questo felice
paese.
SEGRETARIO - Davvero felice ma... per i cani.
VICARIO - Neppure per i cani che corrono per le vie, come ho
visto, randagi, affamati, spelacchiati.
SEGRETARIO - Eppure a sentire questi signori Teramo è la città
delle meraviglie.
VICARIO - Può darsi, ma per le case scalcinate, per le strade
sassose, per le chiese cadenti.
SEGRETARIO -(guardando sospettoso verso la porta) Che non ci
odano, per carità. Quando questi briganti si ritengono offesi
mettono mano ai coltelli e poi via sulla montagna.
VICARIO - Eh questa montagna, questa montagna!...
SEGRETARIO - Covo di belve. I baldanzosi soldati di Spagna ben la
conoscono, per le gloriose sconfitte. L'ultima di pochi mesi fa.
Spettacolo il loro ritorno davvero pietoso.
VICARIO - Che san Gennaro ci protegga. Che dicono qui di san
Gennaro?
SEGRETARIO - Non lo conoscono.
VICARIO - Non conoscono san Gennaro?
SEGRETARIO - Qui non conoscono che san Berardo.
VICARIO - San Berardo! Chi è san Berardo?
SEGRETARIO - Il Patrono della città. Della montagna anche lui.
VICARIO - Della montagna?
SEGRETARIO - Di Pagliara, amico dei boschi, dei lupi e forse
anche dei banditi.
VICARIO - Poveri noi!
(S'odono di là alcune voci. Un messo annunzia l'arrivo di gente
e si ritira.)
SEGRETARIO - Saranno senza dubbio gli invitati alla riunione.
Vicario - Vediamo un po' se ne possiamo ricavare qualche cosa di
buono. Fate entrare.
SCENA SECONDA
SEGRETARIO -(che va e che rientra con diversi cittadini, dice
ipocritamente) Ecco, Vicario, coloro che, con le loro eminenti
qualità, occupano, nella universale considerazione, un elevato
posto.
VICARIO - (con uguale ipocrisia) Bravi, bravi. Sono proprio lieto
di poter scambiare qualche idea con persone così insigni. Ne
potrebbero derivare molte cose buone. Il mondo, amici, ed è
inutile nasconderlo, brancola oggi nel buio della perdizione.
Tocca agli uomini di senno fugare, con la parola e con l'esempio,
questo buio. Che ne dite?
PIERSECCHI - (uno degli invitati, sulla cinquantina, di aspetto
austero) Propositi nobili, ma col buio, di cui avete parlato, vi
è pure ovunque malafede, ipocrisia, inganno.
VICARIO- Può darsi, ma negli uomini in genere, non nei
governanti.
PIERSECCHI - Anche nei governanti, purtroppo. Se a Napoli, ad
esempio, vi fosse stata maggiore onestà, noi saremmo oggi molto
vicini alla pacificazione. Molti banditi, che oggi costituiscono
il vostro turbamento, tempo fa, come certamente sapete, con il
promesso indulto, erano tornati con le migliori intenzioni. Ma
poco dopo dovettero riguadagnare in fretta la montagna, poiché a
Napoli si tramava, perfidamente, per il loro arresto.
VICARIO - Ma... ma... Non lo credo, non lo posso credere.
PIERSECCHI - E' la verità. Non solo, ma stoltamente si è voluto
creare, tra la montagna e la pianura, il deserto. L'abbandono
delle terre, la demolizione delle case potevano accrescere la
miseria, non indurre i banditi alla resa. I contadini, rimasti
senza dimora e senza lavoro, premono oggi, con i loro bisogni,
sulla città. Il Vescovo, inoltre, è fuori di sé per le dieci
case rurali demolite nella sua baronia di Rocca Santa Maria. Con
l'agricoltura, fonte prima di ricchezza, si va pure spegnendo
l'attività dei lanifici, nostro antico vanto.
VICARIO - (con una certa compunzione) Ecco quindi le necessità
della disciplina, dell'ordine, dell'ubbidienza alle leggi. Se ci
fossero stati sbagli in alto, come voi dite, con un po' di buona
volontà, dall'una e dall'altra parte, tutto si potrebbe
accomodare.
PIERSECCHI - (mentre gli altri con il capo approvano) Non credo.
I banditi, ammaestrati dai fatti, difficilmente si esporrebbero a
un nuovo pericolo.
VICARIO - Non vorrei, anche come italiano, che io fossi deluso
nelle mie buone intenzioni.
PIERSECCHI - E se ciò avvenisse?
VICARIO - La legge avrebbe, sia pure con mio rammarico, il suo
regolare corso.
PIERSECCHI - Complimenti. Non vi è stato ancora conferito il
Toson d'Oro?
VICARIO - Che intendete dire?
PIERSECCHI - Nulla. Domanda senza malizia. So che la Spagna
premia bene gli zelanti servitori.
VICARIO - E punisce i ribelli. Non è vero?
PIERSECCHI - Non sono ribelli, signor Vicario, coloro che
difendono, con l'onore, la libertà e la propria casa.
GLI ALTRI - (che hanno fatto sempre segni d'approvazione) Così
la intendiamo tutti, signor Vicario.
VICARIO - Va bene, va bene. Non ci possiamo ancora intendere.
Speriamo di rivederci presto, con altro spirito, per altre
conclusioni.
(Gli intervenuti si ritengono licenziati, salutano con un inchino
e se ne vanno.)
SCENA TERZA
VICARIO - (rivolto al segretario, turbato) Che ne dite di questi
signori dalle eminenti qualità?
SEGRETARIO - Da mandare tutti alla forca.
VICARIO - E quel Piersecchi o Piedisecchi, così caparbio ed
insolente, che è?
SEGRETARIO - Un povero esaltato, amico dei banditi.
VICARIO - Si capiva. Che fa?
SEGRETARIO -(che si dimostra bene informato) Gira, parla,
complotta. Spesso in casa sua, fuori della città, di là del
Vezzola, avvengono riunioni misteriose. Un po' di darsena, se non
di forca, non gli farebbe male.
VICARIO - Ci penseremo, ci penseremo. Non si potrebbe, intanto,
cercare di parlare con i banditi?
SEGRETARIO - Difficile. Tempo fa volevano venire a Teramo...
VICARIO - (come toccato da una speranza) Si?
SEGRETARIO -(con cupo tono) Si, si, ma come dicevano, e come
avevano fatto altra volta, per impiccarvi i traditori: uno per
ogni porta. Sette sono le porte.
Noi, al servizio della Spagna, non siamo per essi che traditori.
VICARIO - Traditori! Possono avere anche ragione, dura cosa, caro
segretario, servire lo straniero che conculca la patria.
Diffidenza, derisione, insulti dagli uni; disprezzo, maledizione,
forca dagli altri. Avete capito l'ironia della domanda: "Non
vi è stato ancora conferito il Toson d'Oro?" Come dire:
"Non avete ancora ricevuto i trenta denari del
tradimento?"
SEGRETARIO - E' vero. D'altra parte come fare? Un'intesa con i
banditi non è più possibile, poiché pensano di entrare a far
parte, con l'aiuto di Venezia, con tutta la montagna, della
repubblica di Senarica.
VICARIO - Senarica! Cos'è questa Senarica!
SEGRETARIO - Non è che un paesucolo dell'alta vallata del
Vomano, i cui abitanti, poveri pastori, vivono con leggi proprie,
in una propria repubblica.
VICARIO - Le ragioni?
SEGRETARIO - Qualche secolo fa, come raccontano, tentarono il
passaggio, per quell'angusta vallata, diecimila cavalieri,
condotti da un certo Ambrogio Visconti, diretti, con propositi
non benevoli, verso Napoli. Furono affrontati, nelle loro
ribalderie, da quei montanari, fermati, sbaragliati. Da quel
glorioso episodio nacque appunto, per la liberalità della regina
Giovanna, allora regnante, la più piccola, la più famosa
repubblica della storia.
VICARIO - E questa repubblica vive ancora?
SEGRETARIO - Non solo vive, ma è stretta, con un patto di
alleanza, con Venezia, dalla quale è chiamata "Serenissima
sorella" e doge ha nome il suo capo.
VICARIO - Siamo davvero nel paese delle favole. Io non capisco
perché la Spagna si ostini di tenere a sé questa provincia.
SEGRETARIO - Per la nostra disperazione.
Vicario - E per la nostra morte. E il Vescovo?
SEGRETARIO - Non c'è molto da fidarsi, specialmente dopo la
distruzione delle sue case di Rocca Santa Maria. Il clero, in
genere, e i segni sono evidenti, parteggia per i banditi. Con
questi banditi vive un frate. Tempo fa il sacerdote don Germanio
Rozzi di Campli si dichiarava onorato di dare in isposa, al
terribile Santuccio di Froscia, la propria nipote Barbara.
VICARIO- Ma qui a quanto pare sono tutti banditi.
(In questo momento è annunciata dal messo una visita: il Vicario
del Vescovo. A questo nome il Vicario s'alza e va tutto premuroso
intorno al prelato, che entra.)
VICARIO - Accomodatevi, Monsignore. A che debbo tanto onore?
(Seggono.)
PRELATO - Sono qui a nome del Vescovo, per alcuni chiarimenti.
VICARIO Dite, dite, Monsignore. Tra le autorità ecclesiastiche e
quelle civili debbono correre sempre i migliori rapporti.
PRELATO - Così dovrebbe essere, ma i fatti smentiscono i buoni
propositi. Credete forse voi che col distruggere, come avete
fatto, le campagne, le case, i ponti, le strade di costringere
alla resa i banditi? Anche la Curia è stata colpita da questi
folli provvedimenti e vi presenta la propria protesta.
VICARIO Necessità di guerra, Monsignore, necessità di guerra.
Ma vi posso assicurare che questa provincia più settentrionale
del vicereame sta tanto a cuore al nostro amatissimo viceré
conte di Castrillo. E' sempre vivo a Napoli il ricordo della
gloriosa resistenza opposta nella fortezza di Civitella del
Tronto, da un pugno di eroi, alla potente armata francese
condotta dal duca di Guisa. E' vero che anche truppe
pontificie... ma lasciamo andare.
PRELATO - Già, già. Ma oggi tutto il clero è con voi.
VICARIO Tutto?
PRELATO - Le eccezioni non costituiscono regola.
VICARIO Certo, certo, Monsignore. Io molto conto sul vostro
aiuto: aiuto per estirpare il male che turba questa bella
provincia.
Assicurate l'Eccellentissimo Vescovo della mia devozione e della
mia ubbidienza ai suoi voleri.
PRELATO - (alzandosi) Questi vostri sentimenti faranno tanto
piacere a monsignor Vescovo, tanto desideroso di pace.
(Dopo i convenevoli d'uso il Prelato esce. Subito dopo rientra il
segretario che durante il colloquio era rimasto fuori.)
VICARIO Non so chi sia stato più abile nell'ipocrisia.
SEGRETARIO - Non è certo la più facile l'arte della diplomazia.
VICARIO Certo occorre sapersi destreggiare per accontentare gli
uni, non scontentare gli altri.
SEGRETARIO - Ma è sempre saggio consiglio, per non sbagliare,
appoggiarsi al più forte.
(A questo punto l'usciere annuncia altra visita.)
VICARIO (infastidito) Ma questa mattina non mi lasciano in pace.
Ma chi è?
USCIERE - Uno del contado, un certo Tornese da Comignano.
SEGRETARIO - Ah! E' un fedelissimo al nostro servizio.
VICARIO Altra peste, questi fedelissimi. Ad ogni modo fate
entrare.
(L'usciere esce e rientra subito col Tornese)
SEGRETARIO - Ecco, Vicario, un elemento prezioso, al nostro
servizio.
TORNESE (sconvolto) Così non fosse.
SEGRETARIO - Che è accaduto...
TORNESE Quel che si aspettava.
SEGRETARIO - E cioè?
TORNESE I miei due compagni notturni dondolano in una quercia,
nei pressi di Frondarola.
VICARIO (turbato più che mai, ansioso) Come, come?
TORNESE Là, a Frondarola... (completa la frase stringendosi con
le mani il collo.)
VICARIO Disgraziati... Raccontate, raccontate...
TORNESE Ieri notte, come d'intesa, ci dovevamo incontrare,
appunto, nei pressi di Frondarola, con amici della montagna, per
avere informazioni sui banditi. Mentre, giunti sul posto,
facevamo i segnali convenuti una voce rauca ci tolse il respiro.
"Ah! Marrani, ci siete." Io che ero ultimo e a una
certa distanza, mi fermai senza fiato. Retrocedetti piano, piano;
mi ficcai non visto in un cespuglio. (Pausa)
VICARIO (che segue ansiosa la narrazione) E gli altri?
TORNESE Dondolano là, nelle querce di Frondarola. Pasto ai
corvi.
VICARIO Quanta tristezza nel mondo e nella mia età canuta! Ed
ora che cosa intendete fare?
TORNESE Fuggire, andare lontano, disperdermi. La montagna è ben
fornita di capestri.
VICARIO (come per confondere se stesso) Ma abbiamo armi, molte
armi per difendermi.
SEGRETARIO - (sconsolato) Armi! Armi! Si lasciano in pace, per
ora, queste armi, se, un giorno o l'altro, vogliamo tornare a
Napoli. I banditi non scherzano.
VICARIO Ma a Napoli, che molto da me si aspetta, che dirò?
SEGRETARIO - Tutto tranquillo sui monti d'Abruzzo.
VICARIO (desolato) Tutto tranquillo! Eh! Nacqui proprio sotto una
cattiva stella. "Non vi è stato ancora conferito il Toson
d'Oro?. No. Non mi è stato, né mi sarà mai conferito. Andrò
piuttosto a fare il facchino anziché continuare in questa
penosa, falsa vita.
(S'ode d'improvviso suono di campane e spari di mortaretti. Il
Vicario, turbato, interroga con lo sguardo il segretario.)
SEGRETARIO - Nulla, nulla. Domani è festa nella parrocchia della
Madonna del Carmine.
(Nel mentre il Vicario eleva le braccia e gli occhi al cielo e lo
scampanio delle campane continua si chiude il)
SIPARIO
ATTO SECONDO
Nell'alta vallata Castellana, nelle vicinanze del Bosco Martese,
in una casa rustica. In mezzo ad un vano ampio un tavolo, sul
quale sono oggetti vari ed un qualche organino ed una qualche
chitarra. Armi del tempo. Archibugi e pugnali, sono appesi alle
pareti. Un gruppo di giovani cantano al suono d'un organino e
d'una chitarra e ballano il saltarello abruzzese. Dopo non molto
entra, di ritorno da una esplorazione, accompagnato da altro
giovane, Santuccio di Froscia, di circa trent'anni.
SANTUCCIO - (depositando l'archibugio) Bravi ragazzi. Così va
bene. La giovinezza, come la primavera, deve cantare. Quando si
canta si sente che bella è la vita e bella è la promessa della
giovinezza.
GIOVANI - (sospendendo il suono ed il canto) Evviva Santuccio.
SANTUCCIO - Evviva i giovani, conforto della nostra montagna,
anima della nostra resistenza.
GIOVANI - Ai vostri ordini, per la vita e per la morte.
SANTUCCIO - Per oggi e per domani. Con voi si può tutto osare e
tutti oseremo per conservare, nella libertà, le nostre
tradizioni, le nostre leggi, i nostri diritti.
CENTIOLO (uno dei giovani) Sempre con voi, pronti a ripetere
quelle gesta che ci resero felici nel vedere precipitare giù per
i burroni i... prodi soldati di Spagna. Perché tanta festa sulla
fuga del nemico?
SANTUCCIO - Perché, miei giovani, nella forza del valore un
popolo acquista, come fu per i romani, i diritti alla vita, alla
grandezza, alla gloria. E ciò che è per un popolo è anche per
un uomo.
CENTIOLO Come fu per vostro nonno, Marco Sciarra, il nome del
quale vive, come una perenne fiamma, in queste valli.
SANTUCCIO - Non nonno, ma bisnonno. Uomini rari, ragazzi, che
sanno contemperare, a seconda dei casi, la ferocia dei lupi con
la dolcezza delle colombe. Uomini che lasciano, dove passano,
tracce di sangue, si, ma anche tracce di luminosa poesia.
MASSIO - (altro dei giovani) Perché non ci raccontate qualche
altro episodio della sua vita?
SANTUCCIO - (mentre i giovani si mettono a sedere) Vi voglio
riassumere, una volta per sempre, i punti più notevoli della sua
vita. Altre bande vi erano anche allora in Abruzzo, ma la banda
del bisnonno era la più forte, la più temuta. Accorreva ovunque
vi fosse una prepotenza da rintuzzare, una soverchieria da
eliminare, una giusta ragione da sostenere. Una volta ebbe a
gettare a Roma, quando comparve alle sue porte, per una giusta
rappresaglia, molto panico. Uscirono, spavaldamente, per
affrontarlo, i più famosi capitani, che furono senz'altro
sconfitti. Pago di tale vittoria e per rispetto al Pontefice non
proseguì, il bisnonno, nell'azione.
GIOVANI - Molto generoso.
SANTUCCIO - Più che bandito, questo mio antenato potrebbe
paragonarsi ad uno di quei tanti capitani di ventura, che
riempiono di sé, per atti nobili, la storia del loro tempo. Poté
talvolta, per necessità, eccedere nelle azioni e nelle reazioni,
ma, da vero cavaliere antico, rispettò e fece rispettare la
religione, la donna, i vinti.
La sua fama, per le sue gesta, s'allargò a tal punto che Alfonso
Piccolomini, duca di Monte Marciano, con le sue bande ribelle al
granduca di Toscana, ne chiese l'alleanza. In seguito, dopo altre
scorrerie e altri gloriosi episodi, corse il bisnonno in soccorso
di Venezia, minacciata dalle orde barbariche slave. E i lupi del
Martese, sconfiggendo i famosi uscocchi sui monti della Croazia,
concorreva a salvare il leone di San Marco.
(Pausa)
GIOVANI - E poi?
SANTUCCIO - Sarebbe meglio di finire qui il racconto.
CENTIOLO Perché?
SANTUCCIO - Per non dire cose spiacevoli.
MASSIO - E sarebbe?
SANTUCCIO - Che Marco Sciarra concorse, in modo notevole, a
salvare Venezia, ma Venezia nulla fece per salvare Marco Sciarra
dal pugnale d'un infame sicario.
CENTIOLO Ma perché fu pugnalato?
SANTUCCIO - Per la solita infamia. Non ve ne affliggete, però,
ragazzi. Col tempo imparerete a conoscere anche voi, nelle sue
stranezze, la vita. In tal modo finiva Marco Sciarra, il padre
del banditismo politico abruzzese, l'invincibile re delle nostre
montagne, l'eroe della Croazia.
CENTIOLO Non si era difeso?
SANTUCCIO - Nel sonno era stato colpito l'eroe e da uno della sua
banda, prezzolato da Napoli.
(Interrompe il racconto il ritorno da una ricognizione, con le
loro bande, e da una requisizione di viveri, altri due capi
banditi: Titta Colranieri e Giulio Montecchi.)
SANTUCCIO - (che va loro incontro) Novità?
TITTA - Tutto tranquillo a Teramo. Nessuno pensa, almeno per ora,
di ritentare la prova della sconfitta. Il nuovo Vicario,
napoletano puro sangue, va tentando, ma inutilmente, una
pacificazione. Tempo fa, come abbiamo saputo, riunì presso di sé,
nel suo ufficio, i migliori cittadini, ma senza nulla concludere.
Anzi uno di essi mosse, senza paura, le più aspre critiche al
mal governo spagnuolo.
SANTUCCIO - Come si vede, vi sono ancora coraggiosi
interamniti...
MONTECCHI - Senza dubbio, ma non come quelli delle passate
generazioni, quando si facevano seppellire sotto le macerie per
difendere, con la libertà, i santi ideali di famiglia, di razza,
di patria.
TITTA - Oggi invece applaudono le truppe spagnuole, quando
muovono contro di noi.
MONTECCHI - Ma io sono sicuro che quando se ne offrirà
l'occasione, e non dovrà di molto tardare, i pretuziani
ripeteranno quelle gesta che confermeranno il loro glorioso
passato.
(Mentre i capi discorrono i giovani, a mano a mano, escono. Dal
di fuori fanno poi giungere, con il suono dell'organetto, il loro
canto in coro. I capi rimangono, raccolti, ad ascoltare. Dopo.)
MONTECCHI - Beata giovinezza! Per i giovani la vita è sempre
bella. Se si potesse rimanere sempre a venti anni.
TITTA - Poiché ciò, per leggi inesorabili, non è possibile, è
necessario che l'uomo si adatti alle condizioni che impose l'età.
MONTECCHI - Anche in relazione alla famiglia, già da voi
costituita.
TITTA - Appunto, come vanno i tuoi amori...
MONTECCHI - Come vuoi che vadano! La fortuna non mi aiuta, né
io, in tale faccenda, so aiutare la fortuna.
SANTUCCIO - E lei... la sirena, insomma, che dice?
MONTECCHI - Vive nell'inganno.
TITTA - Nell'inganno?
MONTECCHI - Ignora chi io sia, non solo, ma ha dei banditi un
sacro terrore.
TITTA - E che sa di te?
MONTECCHI - Che sono stato in seminario e che sono l'erede dei
beni del defunto capo Geronimo di Sant'Omero.
SANTUCCIO - Condizione certo ambigua...
MONTECCHI - Che conduce a fatti drammatici.
TITTA - Drammatici?
MONTECCHI - In una non lontana notte, nella villa di Mosciano,
ella era alla finestra, io sotto, in amoroso colloquio.
SANTUCCIO - Roba da ragazzi...
MONTECCHI - E che i banditi, e banditi come noi, non possono
sciogliere, in tenerezza, i loro sentimenti amorosi?
SANTUCCIO - Si, ma i giovani come quelli là. (Indicandoli con la
mano anche se non sono i vista.) A trent'anni non più la pallida
luna, ma il fiammeggiante sole vuole la donna: il sole che
riscalda i sensi, il sangue, il cuore.
MONTECCHI - Ma anche a trent'anni, che non è poi un'età
avanzata, si possono avere i dolci abbandoni e godere e noi
godevamo con il cuore colmo di poesia quando fummo scossi da
spari di fucile, da rintocchi di campane e da grida: "I
banditi, i banditi."
TITTA - Che era successo?
MONTECCHI - Alcuni uomini della mia banda, che vigilavano non
lontano, erano stati scoperti, provocando tutto quel rumore.
SANTUCCIO - E tu?
MONTECCHI - Cinzia, tale è il nome di lei, mi esortava a non
muovermi, ché belve erano i banditi, senza sapere che ella
stessa, in quel momento, parlava con un loro capo.
TITTA - Vicende da romanzo.
MONTECCHI - O da dramma, ma io, per allora, piantai il canto
delle deliziosa notte e corsi ansioso verso la campagna.
SANTUCCIO - Ed ora?
MONTECCHI - L'idillio continua ma con maggior prudenza.
SANTUCCIO - Via, via il romanzo e si vada al sodo. Non contraemmo
noi, senza tanti notturni sospiri, nozze illustri? Titta non sposò
Francesca, dei baroni Roccatani di Cellino? La mia Barbara non
appartiene alla nobile famiglia Rozzi di Campli?
Il momento è favorevole. Vi è già dalla parte nostra la
ragione della forza. Ma in questo tempo, per i forti nostri
propositi, per la paura che ovunque inculchiamo, per il prestigio
che godiamo, molte cose ci sono favorevoli. Quindi si corra verso
le nozze.
TITTA - E noi vi verremo, per festeggiarvi, con le nostre bande
armate.
MONTECCHI - Certo, mi debbo decidere. Ma se ella, che tanta
ripulsione ha per noi, non accettasse?
SANTUCCIO - La forza, come fu per Titta. Ma l'amore è un'esca
potentissima e quando la donna vi cade dentro non ne esce più.
Se il cuore della tua Cinzia è in pania puoi andare oltre senza
timore di rifiuto.
MONTECCHI - E i parenti?
SANTUCCIO - Finiranno, nelle tante considerazioni, col cedere. A
me sembra che non disdegnano a imparentarsi con i padroni di
quella montagna, che costituisce un vero proprio nostro dominio.
TITTA - Regno senza corona.
SANTUCCIO - Regno di fatto, sostenuto dal diritto del più forte.
E Venezia, nel chiedere le nostre bande, in tempo di pericolo ha
con saggezza riconosciuto questo nostro diritto.
E le nostre bande, per il loro valore, nel combattere i suoi
nemici, vi si coprirono di gloria. Come si è coperta di gloria
la banda di mio fratello Giovanni, nel combattere in Dalmazia
contro i turchi.
TITTA - Appunto, che ne è di Giovanni, che tanto si era
infiammato della piccola Cherubini di Civitella?
SANTUCCIO - Tra poco sarà qui, in segreta missione.
MONTECCHI - Come, è tornato?
SANTUCCIO - Soltanto lui, per costituire, per Venezia, una nuova
banda, essendo stata la sua, nei combattimenti in Dalmazia contro
i turchi, duramente decimata.
TITTA - Allora da lui molte cose sapremo di quella terra, in cui,
tra tanto sfacelo, si ha il coraggio di tenere accesa la fiamma
della santa italianità.
Io amo Venezia.
MONTECCHI - Anch'io, che ne ho un po' studiata, in seminario, la
gloriosa storia, amo Venezia. Darei per essa, come dire per
l'Italia, volentieri la mia vita.
SANTUCCIO - E potrebbe verificarsi anche questo. Un giorno forse,
correremo anche noi ad unire le nostre forze a quelle della
Serenissima che lavorano per conservare la grandezza latina.
TITTA - E forse anche per ricostituire l'unità d'Italia.
MONTECCHI - Quindi guerra, in territorio più vasto, con mire più
grandiose.
SANTUCCIO - Vera guerra di liberazione.
MONTECCHI - Potrebbero trovare tali affermazioni nelle parole del
mago di Nepezzano.
TITTA - Già. Il mago di Nepezzano che pretende di indovinare
l'avvenire e guarire gli inguaribili. E' davvero un campione di
impostura.
MONTECCHI - Al quale molti credono. Tempo fa lo volli appunto
visitare, per curiosità. Lo trovai, nella sua spelonga, in
compagnia di serpi, avvoltoi e altre bestiacce. Molte cose mi
disse sull'avvenire di una città che sorgeva dal mare, e
sull'avvenire della patria riconquistata da innumerevoli armati
in vittoriosa marcia dal nord d'Italia. Renitente fu nelle
rivelazioni che mi riguardavano. Disse solo che vedeva sulla cima
d'un monte della Dalmazia una colonna di marmo, con molti nomi in
essa scolpiti, un nome in mezzo, a lettere grandi, illuminato da
viva luce.
SANTUCCIO - Non sono nuovi i profeti, nella storia del mondo. La
vita, ad ogni modo, è sempre avvolta di mistero. Ma lasciamo
andare questi discorsi. Mio fratello Giovanni tra poco sarà qui.
(In questo momento guardando fuori veggono avvicinarsi Giovanni.
Tutti gli corrono incontro, lasciando il palcoscenico. Vi
rientrano, poco dopo, con Giovanni, accolto festosamente.)
SANTUCCIO - (mentre a mano a mano si mettono a sedere) Racconta,
racconta, fratello.
GIOVANNI - Non è facile il racconto. Le idee, in tanti
spettacoli, si muovono confuse nella mente. A Venezia si vive una
vita tutta diversa dalla nostra. Sontuosi sono davvero i suoi
palazzi che escono dalle acque; strette le strade, ampi i canali,
corse dalle gondole. Ampia e meravigliosa la piazza di San Marco,
con la meravigliosa cattedrale. Simpatici gli abitanti, dal
morbido parlare.
SANTUCCIO - Ne sapevo già qualche cosa, dai racconti dei nostri
vecchi, che vi erano stati. Vi si ricordano le gesta del nostro
bisnonno Marco Sciarra?
GIOVANNI - Il suo nome è ripetuto sempre con grande rispetto. Ma
io non ebbi il tempo di godere buone condizioni di vita. Perché
dopo poco dall'arrivo dovetti correre in Dalmazia, con la mia
banda, per portare aiuto ai veneziani in pericolosa lotta con i
turchi. Durante il viaggio vidi Pola, la eroica città che
conserva, con gli archi, i templi e l'ampio anfiteatro le
impronte incancellabili di Roma. E vidi Zara, Sebenico, Traù,
città uscite, come deità marina, dalle onde del mare. E vidi le
tante isolette in fiore, carezzate dalle acque.
Non verso la morte pareva che s'andasse...
SANTUCCIO - Già verso la morte!... Sappiamo, sappiamo, fratello,
la vostra bravura. Il nostro bisnonno, Marco Sciarra, può essere
orgoglioso dei suoi nipoti.
GIOVANNI - E il Pretuzio dei suoi figli, il nostro sangue ha
concorso a riconsacrare all'Italia i monti della Dalmazia, già
cara ai romani. Ma il pericolo non è ancora scongiurato. Ed è
perciò che sono tornato per l'arruolamento, anche a nome di
Venezia, di nuovi pretuziani.
TITTA - Io verrò con te, con tutta la mia banda.
SANTUCCIO - Verremmo anche noi, se un altro dovere non ci
costringesse di rimanere ancora a tenere viva, tra queste
montagne, la fiamma della redenzione. Anche noi crediamo, con il
mago di Nepezzano, che dal nord dovrà iniziarsi la fatale marcia
delle legioni liberatrici. E se con quelle legioni non vi
potremmo essere noi, vi saranno senza dubbio, con le bandiere
coperte di sangue e di gloria, con il nostro spirito e con il
nostro valore, i nostri discendenti. E l'Italia sarà grande.
MONTECCHI - Vi sono fatti che fanno rimanere pensosi e fanno
sperare.
TITTA - Voi restate, come lievito, tra questi nostri cari monti.
Io andò, ad anticipare i tempi, in Dalmazia, con Giovanni. Là
aspetteremo la vostra venuta, in tempo più propizio, per la
lotta più ampia.
SANTUCCIO - Approviamo. Facciamo ora festa in onore del mio prode
fratello Giovanni.
(Sulla festa, che si svolge tra canti, suono d'organini e balli,
si chiude il)
SIPARIO
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Dopo qualche tempo, nello stesso ufficio del Vicario, tornato a
Napoli, il preside Alonso Torrejon, autentico spagnuolo, parla
con il segretario, pure spagnuolo, già a Teramo da qualche
tempo.
PRESIDE - (molto rattristato) Sono davvero anime dannate questi
banditi. Non si vincono, no, in campo aperto. A Montorio, dove
l'altro giorno ci eravamo presentati nelle migliori condizioni
per vincere, fummo ancora una volta vergognosamente battuti.
Salivano, questi furfanti, dal fiume, sbucavano dalle grotte,
scendevano dai boschi come fantasmi, si lanciavano su di noi come
lupi.
Sconfitti, dopo tanto clamore. Chi sa che cosa avranno qui detto
su questo nuovo infortunio.
SEGRETARIO - Nulla, almeno apparentemente, ma dai visi, sfiorati
da un sottile risolino ironico, si capiva ciò che passava, per
la nostra nuova sconfitta, nella mente di questi ribaldi.
PRESIDE - la pagheranno, la pagheranno. Io non sono il debole
Aniello Porzio. Ho avuto da Napoli i pieni poteri e saprò bene
impiegarli. Capacità per far valere i nostri diritti, non me ne
manca, né mi manca la forza. Vedremo, vedremo, banditi del
Martese, chi riderà per ultimo.
SEGRETARIO - Occorre, però, Preside, molta prudenza, ad usare
questa forza. Fuori della città, tutto congiura contro di noi.
Tutto il territorio, dal Tordino al Vomano, dalla montagna dei
Fiori al Gran Sasso, sembra disseminato di trappole, pronte a
scattare ad ogni nostro passo.
PRESIDE - Ma vi è il modo anche di distruggere queste trappole.
Intanto ascoltiamo questa mattina il famoso Santuccio di Froscia.
Se riuscissi, con le buone, a fargli deporre le armi!
SEGRETARIO - Non vi illudete, Preside, non vi illudete. Nulla di
buono vi è da sperare da queste canaglie, infiammate dal
peggiore fanatismo.
PRESIDE - Potete aver ragione, ma al Vescovo, che ha voluto
questo incontro, per la santa politica, non potevo dir di no.
SEGRETARIO - Santa politica! Fucina di finzioni, laboratorio di
ipocrisia, rettile velenoso, avvolto di fiori.
PRESIDE - Mi piace la definizione! Ma vi assicuro che se lo scopo
di questo incontro dovesse fallire terribile sarei nella
reazione.
SCENA SECONDA
(Si annuncia, intanto, da un messo, l'arrivo di Santuccio. Il
Segretario, che gli va incontro, lo introduce e se ne va. I due,
rimasti soli, l'uno di fronte all'altro, si guardano con
sostenutezza. Dopo, lo spagnuolo invita, con un certo garbo,
l'italiano a sedere. Siede anche lui.)
PRESIDE - (con inzuccherata ipocrisia) Questa vostra visita mi è
davvero gradita ed è piena di promesse. Fa pensare ad un ritorno
alla saggezza, che mai manca a uomini valorosi, come siete voi.
SEGRETARIO - (che è vestito un po' come i moschettieri, con
pugnale alla cintola) Troppo buono.
PRESIDE - (incoraggiato) Dimentichiamo, quindi, per un momento il
passato e guardiamo con fiducia l'avvenire.
SEGRETARIO - D'accordo.
PRESIDE - (lieto della piega del discorso) Tutto, con un po' di
buona volontà, si può accomodare. I malintesi, i dissidi, la
lotta non giovano a nessuno. Oh se si potesse vivere sempre in
pace su questa terra!
SEGRETARIO - Tutto dipende da voi. Io sono qui, ed è bene
parlarci con franchezza, per desiderio del Vescovo. A ogni modo
anche noi, che pur possediamo un cuore, non saremmo contrari a un
accordo, a condizioni, s'intende, onorevoli.
PRESIDE - In che modo onorevoli...
SEGRETARIO - (con molta calma) Soddisfacenti alle ragioni per le
quali da secoli siamo sulla montagna. Non avete mai sentito
parlare di Marco Sciarra?
PRESIDE - No. A ogni modo ci dobbiamo saper intendere, con sereno
spirito, per giungere a felici conclusioni.
SEGRETARIO - Allora?
PRESIDE - (con voce sempre più ammorbidita) Ritengo che non sia
da rifiutare la concessione a voi d'un generale indulto, affinché
possiate tornare a vivere nei doveri del civile consorzio,
nell'onesto lavoro, nella pace della famiglia. L'eccellentissimo
Viceré, nostro signore, nella sua magnanimità, è disposto ad
accordare a voi, se sarete ragionevoli, larga indulgenza.
SEGRETARIO - (con ironia) Molto generoso l'eccellentissimo
magnanimo Viceré, ma è bene che si sappia subito, per evitare
incresciosi malintesi, che non cerchiamo pietà, né indulgenza.
PRESIDE - (un po' contrariato) E che cosa vorreste?
SEGRETARIO - Il riconoscimento dei nostri diritti, la legalità
della nostra lotta, la santità delle nostre aspirazioni.
PRESIDE - (turbato) Cioè?
SEGRETARIO - Non vi dovrebbe essere difficile capirlo.
PRESIDE - Sarebbe?
SEGRETARIO - Con lo sgombero delle vostre truppe e del vostro mal
governo da questa provincia o meglio da tutta l'Italia.
PRESIDE - (cambiando un po' tono) Abbiate rispetto, vi prego, per
la più generosa, illuminata potenza che allieta oggi il genere
umano.
SEGRETARIO - Letizia alla quale i lupi del Martese, da voi testé
conosciuti a Montorio, volentieri rinunciano.
PRESIDE - (cercando di conservare la calma) Ma ragioniamo,
ragioniamo, benedetto uomo.
SEGRETARIO - I termini sono chiari, immutabili.
PRESIDE - (che va perdendo la pazienza) Allora vi debbo
avvertire, per vostra norma, che sono finiti i tempi dei deboli
Vicari.
SEGRETARIO - (come soddisfatto) Siamo al vostro linguaggio.
Possiamo meglio intenderci.
PRESIDE - In che modo?
SEGRETARIO - (capito l'inutilità di quell'incontro, andando
verso la logica conclusione) Col dirvi, signor Preside, che da
troppo tempo dura il vostro felice... dominio; col dirvi che voi,
degeneri latini, avete deformata la nostra natura, guastato il
nostro spirito, distrutto le nostre virtù, inculcato i vostri
vizi.
PRESIDE - (irritato da tanto ardire) Vi impongo di tacere.
SEGRETARIO - Taccio. Sappiate però che se i nobili si sono
piegati vergognosamente al vostro volere, la "detestabile
canaglia", come voi vi compiacete di chiamare il popolo,
insorge e vi combatte.
PRESIDE - (con voce più alta) Tacete.
SEGRETARIO - Taccio. Aggiungo solo, per rendere più vivo il
quadro, che vuote sono le nostre casse erariali perché da voi
saccheggiate; chiuse per voi le nostre fabbriche; spopolate per
voi le nostre campagne; popolate per voi di pezzenti le nostre
città.
PRESIDE - (con rabbia) Ma tacete.
SEGRETARIO - Non vi adirate ché di poco il vostro felice dominio
supererà il secolo, che sta per finire.
PRESIDE - Voi farneticate, presuntuoso bandito. Non più tregua
tra noi. Cannoni, corda e sapone ne abbiamo a sufficienza per
piegarvi alla nostra ragione.
PRESIDE - (sempre con ironia) Rallegramenti!...
PRESIDE - Non vi trattengo per debito d'onore; ma che Iddio non
vi faccia cadere nelle nostre mani. Un uomo rimetterebbe
finalmente in funzione salutare i suoi ordigni.
SEGRETARIO - (furente) Vi siete bene spiegato brutale, vile
carnefice, indegno di appartenere a un consorzio civile.
(Gli si avvicina con le mani in aria, in atto di minaccia, ma
senza percuotere. Poi si ritrae, va verso l'uscita e rivoltandosi
grida ancora)
Sciagurato... Ma ci rivedremo, ci rivedremo e presto.
(Quindi esce sbattendo violentemente la porta)
SCENA TERZA
PRESIDE - (riavutosi dallo sbalordimento per l'improvviso
attacco, correndo verso la porta, grida) Arrestatelo,
arrestatelo.
SEGRETARIO - (che aveva visto uscire Santuccio, infuriato,
accorre agitato) Che è stato... Che è accaduto!...
PRESIDE - (sempre agitato) Correte. Fate arrestare quel brigante.
SEGRETARIO - (corre. Nel rientrare, dopo non molto, mentre il
Preside, infuriato, va su e giù) Già scomparso, come lupo,
verso i monti.
PRESIDE - (con fiato grosso, come parlando a sé stesso) Presto
la Spagna ti proverà, miserabile bandito, la sua decadenza.
Forca, forca...
SEGRETARIO - Ma si può sapere che cosa è accaduto...
PRESIDE - Il capestro soltanto potrà riportare un po' di senno
nei cervelli sconvolti di questi disgraziati. Altro che spirito
di tolleranza, altro che umanità!... Capestro... capestro.
SEGRETARIO - Ciò che io ho sempre detto.
PRESIDE - E presto i corvi saranno chiamati a lieto convito,
nella festa delle forche. Vi è il Comandante?
SEGRETARIO - Si, ma bisognerebbe ascoltare l'indultato Lucenti,
giunto or ora.
PRESIDE - Lucenti... Ah! Rammento. Giunge a buon punto. Egli e i
suoi uomini ci potrebbero rendere, con l'oro e le promesse, utili
servizi. Io intendo finirla, e presto, con i banditi.
SEGRETARIO - Non vi illudete, non vi illudete, Preside. Sono lupi
costoro e lupo non mangia lupo.
PRESIDE - Ma l'oro abbaglia anche i lupi. Tentiamo. Fate entrare.
SEGRETARIO - (va e rientra, poco dopo, col Lucenti) Ecco,
Preside, colui che, nella sua intelligenza, ha ritrovato, nella
vita, la giusta via.
PRESIDE - (che intanto si è calmato, prendendo un bonario
atteggiamento) Ben venuto, ben venuto. Voi, con il vostro atto,
avete dimostrato di possedere senno e cuore. La Spagna è sulla
via del dominio del mondo. Dove non giunsero i romani,
giungeranno gli spagnuoli, loro eredi. Cosa potevate fare voi,
miseri pigmei, dinanzi a tanto colosso? I pochi stolidi, che
ancora farneticano, cadranno, o se cadranno, tra non molto,
frantumati (alzando la voce) triturati. Pazzi, pazzi, pazzi.
Per fortuna non tutti sono pazzi e voi, con il vostro atto, lo
avete bene dimostrato. Atto di grande saggezza, che prelude ad
altri favorevoli eventi. Ma, per la vittoria finale, altro
aspettiamo da voi.
LUCENTI - (che poco ha capito del sermoncino) Da noi?
PRESIDE - Voi che conoscete i banditi e i loro covi, potreste
rendere alla buona causa un prezioso servizio.
(Il Segretario segue con una certa curiosa espressione la curiosa
discussione)
LUCENTI - Noi? Non ho capito.
PRESIDE - Comprendo, comprendo i vostri timori. Ma voi, vestendo
la divisa dei nostri bravi calabresi indultati, non sareste
riconosciuti. Ottomila ducati ornano la testa dei capi. Oro, oro,
vero signore del mondo: oro e libertà.
LUCENTI - Evidentemente vi è stato tra noi un malinteso. Noi non
desideriamo l'oro del tradimento. Non desideriamo che onestà di
atti e libertà.
PRESIDE - Nulla in contrario. Solo volevamo dare a voi il modo,
dopo tante sofferenze, di godere un po' la vita, che è tanto
breve.
LUCENTI - Grazie. Più che i godimenti, offerto dall'oro, non
povera gente amiamo l'onore, punto primo della vita.
PRESIDE - (che reprime a stento la contrarietà) Non possiamo
ancora intenderci. E' un vero peccato. Ma a un'altra volta, a
un'altra volta.
LUCENTI - Posso andare?
PRESIDE - Andate, andate pure.
(Lucenti, salutato, se ne va).
PRESIDE - (rivolgendosi al Segretario) Includete anche questa
canaglia nell'elenco di coloro che dovranno viaggiare per la
darsena di Napoli.
SEGRETARIO - Ancora una volta ho avuto ragione, Preside. Conosco
bene questa gente.
PRESIDE - Tra non molto conoscerete meglio anche me. Andate per
il Comandante.
SCENA QUARTA
(Mentre il Segretario s'allontana il Preside, al tavolino,
rilegge in silenzio una lettera spiegata dinanzi a lui. Scuote il
capo. Legge poi ad alta voce:)
"Che fate? Napoli da voi molto aspetta. I ribelli sono stati
ovunque estirpati, tranne in codesta provincia, che pesa sul
vicereame come un peccato. Nessuna giustificazione a ogni altro
ritardo, quando vi sono stati forniti, per agire, tutti i
necessari mezzi."
(Si alza, si muove scuotendo sempre il capo e borbottando)
COMANDANTE - (vestendo una qualche divisa) Ai vostri ordine,
Preside.
PRESIDE - O bravo.
COMANDANTE - Quali novità?
PRESIDE - Colui che si chiama Santuccio di Froscia è venuto qui
a minacciare, a insultare, a sprizzare veleno.
COMANDANTE - (con viva meraviglia) Santuccio di Froscia... nelle
nostre mani... e non mi avete chiamato.
PRESIDE - Non me ne ha dato il tempo.
COMANDANTE - Peccato. Con la eliminazione del capo più temuto
che bella festa sarebbe stata per noi e per Napoli. Che intendete
ora di fare?
PRESIDE - Entro tre mesi non un bandito, come sollecita Napoli
(mostrando la lettera), dovrà rimanere su questa montagna
maledetta. Non un bandito. Quale è lo spirito dei soldati?
COMANDANTE - Buono, buono, nonostante i fatti sfavorevoli di
Nepezzano e di Montorio. Però, per un qualche successo, bisognerà
cambiar tattica. Non bisogna dimenticare che la montagna, ove le
migliori truppe vi hanno lasciato le penne, è tutta una
trappola.
PRESIDE - E lo so, lo so, e lo dicevo poc'anzi al mio Segretario.
Ma ho ora un piano diverso e molto efficace.
COMANDANTE - Sarebbe?
PRESIDE - Distruggere tutto quanto appartiene ai banditi:
incendiare le loro case, sconvolgere le loro campagne, arrestare
gli amici, deportare i parenti, impiccare i favoreggiatori.
COMANDANTE - Permettete, Preside, che vi dia un abbraccio. E' la
prima volta che odo una parola di forza e di conforto. Con i
pietismi nulla si ottiene. Dopo?
PRESIDE - Dopo porteremo tutte le nostre artiglierie contro
Poggio Umbricchio, covo formidabile, dove si trovano rifugiate le
famiglie dei capi. A Poggio Umbricchio inalzeremo la bandiera
della vittoria.
COMANDANTE - E ricorreremo alla brevità di Cesare per darne
l'annuncio a Napoli. Che festa! Che festa!
PRESIDE - Anche qui in Teramo faremo festa. Il popolo, nella
liberazione, sarà con noi.
COMANDANTE - Del popolo, Preside, non c'è da mai fidarsi. Potrà
si far festa, sulla nostra vittoria; vi potranno esaltare,
acclamare per vostri atti di clemenza e di umanità. Ma poco poco
che la fortuna vi volgesse le spalle, vi potrebbero, con la
stessa facilità, impiccare. La storia è piena di questi esempi.
PRESIDE - Ma lasciamo andare il popolo nella sua volubilità.
Pensiamo a quel che dobbiamo fare per poi tornare, nella
vittoria, nella nostra bella Spagna, in seno alle nostre
famiglie.
(S'ode d'improvviso un rintocco di campane)
Campane a martello?
COMANDANTE - Maledetti! Osano ancora di avvicinarsi alla città?
Sono senza dubbio i banditi di Santuccio di Froscia.
USCIERE - (che entra impaurito) I banditi, i banditi...
PRESIDE - Dove sono?
USCIERE - Là sul Pennino.
COMANDANTE - Sul Pennino...?
USCIERE - Sul Pennino...
PRESIDE - (nella confusione) Dove è il Pennino?
COMANDANTE - Nella collina di fronte, di là del Tordino.
(Andando alla finestra e indicando col dito). Quello là è il
Pennino.
PRESIDE - Quindi i banditi in città?
(Mentre continua il rintocco delle campane, il suono di corni e
il panico aumenta)
Ci rivedremo, maledetti, a Poggio Umbricchio!
SIPARIO
ATTO QUARTO
A Boceto, in una comune sala, discretamente arredata, della villa
di Santuccio. Porta ai lati. Finestra in fondo.
SCENA PRIMA
MONTECCHI - (melanconicamente) Poggio Umbricchio cadde!
SANTUCCIO - Si, ma cadde sulle proprie rovine insanguinate.
MONTECCHI - E queste nostre donne vi hanno scritto, nel
difenderlo, con le armi, sino alle ultime umane possibilità, una
pagina di gloria non inferiore a quella scritta, nel proprio
epico poema, dalle donne di Civitella, dalle donne di Cellino.
BARBARA - (con un certo orgoglio) Vi combattemmo sostenute dalla
santità della causa, con fierezza pretuziana, con il vostro
spirito.
MONTECCHI - Superiore al nostro spirito. Ma vorremmo sentire da
voi, dalla vostra viva voce, le vicende della lotta.
BARBARA - Compito non facile. Alcuni fatti si possono pensare,
non descrivere con adeguate parole. E poi non facemmo, in quella
occasione, che il nostro dovere.
SANTUCCIO - La modestia è sempre compagna generosa del valore.
MONTECCHI - Parlate. Fate che partendo si possa portare nel
cuore, incisavi dalla vostra voce, la bellezza del vostro
ardimento.
BARBARA - Ma qualche cosa già sapete.
MONTECCHI - Si, ma non nei particolari.
BARBARA - Io ritengo che certe azioni di guerra si debbano
somigliare un po' tutte, quando sono sostenute dallo stesso
spirito.
SANTUCCIO - Senza dubbio, quando si tratta di normali
combattimenti.
BARBARA - E non era normale il nostro?
CINZIA - No, Barbara: non era normale, poiché provvedevano a
difendere il colle, in meravigliosa gara, donne, adolescenti,
vecchi, avendo come armi qualche archibugio e macigni. Il nemico
faceva cadere invece, sul colle, dalla mattina alla sera, una
pioggia di proiettili.
BARBARA - Questo è vero e alzammo la fatale bandiera quando,
dopo venti giorni, non avevamo più munizioni, né macigni, né
viveri, né acqua; avevamo invece morti da seppellire, feriti da
curare, bambini da salvare.
MONTECCHI - Chi un giorno canterà degnamente le gloriosa vostre
gesta?
SANTUCCIO - Agevole il canto. Poggio Umbricchio! Altare di fede,
luce che risplenderà, nei fatti umani, come risplende, nel
cammino eterno, la luce del sole, che dà calore e vita al
giorno.
MONTECCHI - Né mai si oscurerà, nel tempo, la vostra fama.
Mistica, la nostra donna, come anacoreta nel coltivare i santi
affetti; terribile come leonessa nel difendere la propria casa.
Donna pretuziana! Nostro orgoglio, nostro vanto, nostro onore.
(Melanconicamente) Ed ora, care donne, secondo i patti, dobbiamo
partire, sparire da queste montagne. Sparire! Razza maledetta.
Soltanto per voi, carissime, per la vostra liberazione dal
carcere, abbiamo chinato la testa, abbassato le armi. Nel caso
contrario il borioso Torrejon e i suoi satelliti avrebbero
trovato in questa terra degna sepoltura. Ma l'ultima parola non
è stata ancora detta. Per ora andremo, come vi andarono gli
altri, alla difesa di Venezia... poi... poi vedremo.
MONTECCHI - Veramente è stato sempre un po' il nostro sogno di
andare, come gli altri, a combattere per Venezia, come dire a
combattere per l'Italia, poiché nel cuore di quella gloriosa
repubblica arde viva la fiamma della santa unità nazionale.
SANTUCCIO - Unità nazionale. Senza dubbio sarà raggiunta, poiché
l'Italia, come una nebulosa, tende di riunire in un sol corpo
tutte le sue sparse molecole, ossia tutti i suoi sparsi assurdi
staterelli.
MONTECCHI - Quanta festa se questa unità avvenisse. Ma ne è
lontana l'attuazione.
SANTUCCIO - Senza dubbio, non potrà il caro sogno, per le gravi
difficoltà, avverarsi in un giorno, ma la riunificazione
d'Italia avverrà. Avverrà quando i tanti staterelli cesseranno
di combattersi a vicenda, come fanno oggi, a vantaggio dello
straniero. Avverrà quando, in una nuova generazione, si sarà
formata una coscienza veramente nazionale, da fare apparire santa
la morte per la vita della patria. Beate le sante legioni che tra
il canto, il generale tripudio, saranno della marcia redentrice.
Le veggo le sante legioni, le veggo, le veggo di andare da un
punto all'altro, nella marcia gloriosa.
BARBARA - Sii tu benedetto, sposo mio. (Gli si avvicina e lo
bacia teneramente) La tua è una cara visione, che attenua il
dolore del distacco, determinato appunto da questo caro sogno di
libertà, di redenzione.
CINZIA - (commossa) Noi siamo fieri di voi.
SANTUCCIO - Noi di voi, donne di Poggio Umbricchio. Di voi che
non disdegnaste di legare la vostra sorte a quella dei banditi.
Ma certo il ricordo delle donne che vivono nelle falsi luci dei
salotti, svanirà come nebbia al vento. Per voi, invece, la
storia non potrà non essere benigna nel lodare la vostra
semplicità, nel cantare il vostro eroismo. Mai su di voi,
dilette compagne, scenderà la dimenticanza.
(A questo punto s'ode un suono di corni)
SANTUCCIO - (come svegliandosi) Le bande chiamano a raccolta, per
la partenza. Il tempo è inesorabile nella sua corsa. Dobbiamo
andare. Il nuovo giorno, secondo i patti, ci dovrà trovare oltre
i confini.
CINZIA - E i ladri di Spagna, liberi di voi e nello spirito della
rapina, stringeranno vieppiù le catene della schiavitù.
(S'odono ancora i corni)
SANTUCCIO - Dobbiamo andare. Ma per un momento vado ad
inginocchiarmi, nella vicina chiesa, dinanzi a S. Antonio abate,
mio protettore.
(Esce accompagnato da Barbara. Fuori la notte è rischiarata
dalla luna, tra lo sfolgorio delle stelle, nel cielo sereno).
SCENA SECONDA
CINZIA - (rimasta sola con il suo Giulio, con molta mestizia)
Quante vicende nella nostra vita!
MONTECCHI - Vicende che con le luci e le ombre, le gioie e i
dolori, sanno di romanzo. Però sempre di conforto le care
ricordanze.
CINZIA - Come caro è il ricordo della notte di Mosciano.
MONTECCHI - Notte d'incanto, nel giardino fiorito, avvolto di
poesia.
CINZIA - E delizioso era il canto che sgorgava nel nostro cuore.
MONTECCHI - E con le gioiose promesse della giovinezza.
CINZIA - E ora? Funesti presentimenti, molto buio, molta
tristezza. Dinanzi a voi vi è la guerra, la morte. Non partire,
Giulio, non partire.
MONTECCHI - Da te, Cinzia, un tale consiglio?
CINZIA - Perdonami. Le parole del maledetto mago di Nepezzano, da
te riferitemi, che risuonò nel mio intimo, mi turbano la
ragione.
MONTECCHI - Talvolta non vi è forza, Cinzia, che possa arrestare
il compimento di certi eventi. Dinanzi a questi eventi, figli del
destino, non rimane che chinare il capo, rassegnati, ed ubbidire.
Ubbidire e attendere il ritorno, dopo il buio, della luce. E poi,
anche Barbara rimane sola.
CINZIA - Ma Barbara, non so, è d'altro animo, d'altra sensibilità.
(Di là s'ode la voce d'un fanciullo)
MONTECCHI - Poi non resti proprio sola. Resta con te, a riempire
il mio vuoto, il caro Nemesio, colmo, nonostante la fanciullezza,
di molte virtù.
NEMESIO - (che intanto entra, chiamano) Mamma! Mamma!
CINZIA - Vieni, vieni, figliuolo, vieni a stare un po' con tuo
padre, che tra poco parte.
NEMESIO - Ma perché babbo parti? Non partire, non partire.
(l'abbraccia)
MONTECCHI - Debbo partire, figliuolo, ma tornerò. Qualora non
dovessi tornare io verrai tu a ricercarmi sui monti pure
italianissimi della nostra Dalmazia. Me lo prometti?
NEMESIO - (continuando ad abbracciare il padre, teneramente) Ma
io sono piccolo.
MONTECCHI - E' vero, ma verrai quando non sarai più piccolo.
(Cinzia piange)
(Interrompe la mesta scena il rientro di Santuccio e di Barbara)
SCENA TERZA
SANTUCCIO - Il quadro è sempre là, vicino all'altare e nessuno
oserà toccarlo.
MONTECCHI - E nessuno certo lo toccherà...
BARBARA - Io ne sarò gelosa custode.
SANTUCCIO - Brava, in modo che un giorno, più o meno lontano,
qualcuno, nel vederlo, possa dire: "Oh! Questo è il famoso
Santuccio di Froscia?"
MONTECCHI - E possa aggiungere: "Simpatico. Non si direbbe
un bandito."
SANTUCCIO - Noi banditi? Venezia ci giudicherà.
(S'ode di nuovo il suono dei corni)
MONTECCHI - Dobbiamo andare, Santuccio.
SANTUCCIO - Andare...
CINZIA - (versando lagrime) Andare...
BARBARA - Su, su lo spirito, ché i nostri torneranno.
CINZIA - Ma quando torneranno?...
SANTUCCIO - Quando, nella redenzione, consacrata dal sangue, in
una nuova luce, noi non saremo più consacrati banditi del
Martese, ma fedeli soldati d'Italia.
MONTECCHI - Italia! Italia! Tua è la nostra vita.
(Le bande, che aspettano, intonano in coro, con accompagnamento
di organini, il canto della montagna, mentre il palcoscenico è
riempito dalla luce della luna, che entra dalla finestra. Tutti
rimangono, raccolti in ascolto. Prendono poco dopo, mestamente,
la vita dell'uscita. Il coro continua.)
SIPARIO
FINE |